Rivista Anarchica Online
L'insostenibile leggerezza della scuola americana
di Filippo Trasatti
L'indagine comparativa sta guadagnando molti seguaci in diversi campi
disciplinari e anche in quelle creative
e intriganti aree di confine, troppo spesso confinate sotto la sbrigativa etichetta di "indagini interdisciplinari".
I
comparatisti, soprattutto nel campo letterario, vantano una lunga tradizione, maestri, metodi, riviste, convegni.
Ma a me pare che questo nuovo gusto per la comparazione abbia oggi raggiunto altri territori prima chiusi
nell'ambito dello specialismo. Disciplina-guida in questo caso l'antropologia che fin dalle sue origini fa della
comparazione tra fatti culturali
e istituzioni sociali di diverse civiltà un vero e proprio metodo di studio. A questo gusto per la
comparazione si
avvicina il gusto per la variantistica portato in Italia ad altissimo livello da Gianfranco Contini nella letteratura,
gusto che trova riflessi anche nel campo musicale, soprattutto ovviamente, nella musica colta: nello studio delle
diverse interpretazioni di uno stesso brano musicale, cioè cogliendone le differenze, risaltano e
prendono corpo
elementi e aspetti che in un ascolto singolo non si sarebbero neppure notati. Che cosa dunque ci porta a
comparare interpretazioni, testi, culture diverse? C'è qualcosa nel gusto del
comparatista che ci riporta agli antichi diari di viaggi, un'attesa del nuovo e del meraviglioso, o del mostruoso,
comunque di qualcosa di completamente diverso da ciò che normalmente conosciamo e facciamo.
Qualcosa che
ci aiuti ad uscire dai nostri limiti abituali, dalle mura di consuetudini che noi stessi ci siamo costruiti e che non
riconosciamo più come tali, che arriviamo a considerare "naturali". E' questa la lezione forse più
importante di
Michel de Montaigne quando dice: "Accade che quello che è fuori dai cardini della consuetudine, lo
si giudica
fuori dai cardini della ragione; Dio sa quanto irragionevolmente, per lo più" (Saggi,
Mondadori, Milano,1970,
p. 150). La comparazione è in qualche modo un'esperienza dell'altro che definisce meglio la
relatività degli
oggetti comparati, di per se stessi considerati e valutati come assoluti. Il confronto tra culture, che sempre
mette in gioco quella dell'osservatore, è dunque un'esperienza dell'alterità che
relativizza la propria identità e mostra le multiformi possibilità di fronte alle quali normalmente
siamo ciechi.
Certo si corre sempre il rischio dell'esotismo, del mal d'Africa, di una fascinazione che fa perdere la cognizione
del valore della propria cultura e identità, ma quando ciò non accade l'incontro è ricco
di frutti inaspettati. Ora, tutti noi siamo andati a scuola, chi più chi meno; gli insegnanti sono
addirittura strani esseri che mai sono
usciti dalla scuola, pur cambiando la loro posizione nella classe. Tutti noi abbiamo assorbito, oltre a tante
nozioni
che abbiamo prontamente dimenticato, una certa cultura della scuola, della trasmissione del sapere, dei ruoli,
dell'istituzione. Cultura da cui è difficile liberarsi, che spesso fa sì che ci impigliamo in
un'astratta
contrapposizione all'esistente senza che abbiamo la fantasia di immaginarne un altro che non sia semplicemente
il nostro capovolto. Il libro di Marianella Sclavi A una spanna da terra (Feltrinelli,
Milano, 1989) ci mostra con maestria e
leggerezza un altro mondo scolastico, assai diverso dal nostro. La prima parte del sottotitolo di questo libro, al
tempo stesso impegnativo e gustoso, dice così : "Indagine comparativa su una giornata di scuola negli
Stati Uniti
e in Italia"; e in effetti mantiene la promessa, conducendoci passo a passo dietro a due alunne di un liceo italiano
e di un'high school americana per una intera giornata scolastica. Si tratta in primo luogo di un'indagine
sociologica comparativa per studiare due culture scolastiche assai differenti
tra loro, non basandosi su testi e documenti, ma immergendosi nella realtà scolastica direttamente,
utilizzando
un metodo di osservazione sociologica chiamato shadowing che consiste nel seguire come un'ombra (shadow
in
inglese) i soggetti studiati. La lettura di questo libro può essere anche un buon test per valutare i
nostri pregiudizi sul sistema scolastico
americano di cui tanto si dice e poco si sa, soprattutto di questi tempi in cui vanno molto di moda i confronti
internazionali tra sistemi scolastici e prestazioni degli alunni di paesi diversi. Recentemente i quotidiani italiani
hanno dato rilievo alla notizia che, secondo un'indagine internazionale svolta da seri specialisti, gli alunni
italiani
delle superiori fanno una magra figura nei confronti dei loro pari nelle scuole degli altri paesi del primo mondo.
Ma a questa notizia, che è più che altro uno scoop per sollecitare una certa mentalità
competitiva che nella nostra
scuola è del tutto assente, si aggiungano appunto, come dicevo, i propri pregiudizi, soprattutto sulla
cultura
americana. Tralascio i miei, ma sarei pronto a scommettere che ne abbiamo almeno qualcuno in comune.
Ebbene,
data l'importanza del tema scuola e date le pietosissime condizioni del nostro sistema scolastico non sembra una
cattiva idea gettare l'occhio oltre cortina per vedere cosa si fa di là. Non viviamo tutti i giorni in diretta
avvenimenti che accadono a migliaia di miglia da noi? Eppure il mio sospetto è (un altro tra i tanti
pregiudizi)
che siamo effettivamente molto più provinciali di quanto vogliamo ammettere, meno aperti al confronto
e al
dialogo di altri sistemi culturali, a causa del vecchio assunto europocentrico che mai del tutto abbiamo
abbandonato. L'autrice, che è un'italiana vissuta a lungo in Usa, dove ha anche studiato, conosce
piuttosto bene
i due universi culturali, ma sceglie di descriverli dal basso, annotando particolari anche secondari, facendosi
sorprendere dagli imprevisti perché è da qui che può scoccare in ogni momento la
scintilla della comprensione
delle differenze. Non dunque mettendosi in cattedra (da quale punto di vista superiore?) a confrontare tra
loro due sistemi, due
istituzioni, due culture, ma attraversandole, talvolta cozzando contro l'una o l'altra, facendo emergere i propri
pregiudizi di ricercatrice e di persona appartenente a una certa cultura, dunque in netta contrapposizione al mito
dell'obiettività dell'osservatore. Il libro per come è strutturato è leggibile a due
diversi livelli: a livello più semplice seguendo la giornata
scolastica delle due ragazze, Chloe e Maria, assistendo alle lezioni e alle interrogazioni (in Italia) a cui assistono
loro, facendo conoscenza degli insegnanti e di alcuni compagni. Si vedrà allora come funzionano in
concreto i
due sistemi scolastici, la funzione diversa degli insegnanti, del preside; i netti contrasti tra due modi diversi di
far lezione nelle due istituzioni. A volte sarete portati a confermare i vostri pregiudizi sulla cultura americana,
altre volte invece vi lascerete tentare dalla novità e, forse, perché no, da una buona idea che,
applicata nella nostra
scuola, potrebbe dare dei frutti. E' in questo ondeggiamento che ho trovato il gusto maggiore della lettura, a
questo primo livello. C'è poi un altro livello di lettura del testo, più difficile anche se assai
interessante, costituito da parti del testo
contrassegnate dal titolo "fogli umoristici" in cui si danno concetti e strumenti epistemologici per capire meglio
questo diverso tipo di osservazione delle culture, riferendosi soprattutto a due studiosi: Gregory Bateson e
Michail Bachtin. A questo secondo livello accenna la seconda parte del sottotitolo del libro: "fondamenti
di una metodologia
umoristica". Può incuriosire il fatto che si mettano insieme una cosa seriosissima come l'epistemologia
e
l'umorismo. L'autrice ci dice che un atteggiamento umoristico è uno strumento conoscitivo
fondamentale sia per
lo scienziato che per l'uomo della strada. Avevamo magari sentito parlare di terapia umoristica (in soldoni:
ridere
fa bene e rinforza persino le difese immunitarie; dunque ridiamo un tot al giorno), ma mai finora di una
metodologia umoristica. Questa metodologia viene applicata nello studio delle culture e funziona più
o meno così. Normalmente si studiano e si confrontano due culture con un atteggiamento da
"straniero in cattedra": si
constatano le differenze, si valuta dall'alto della propria posizione di studiosi. Con la metodologia umoristica
invece ci si pone coscientemente in un atteggiamento che ricalca il meccanismo, descritto da Freud, del motto
di spirito, che si articola schematicamente in queste fasi: 1. stupore (di fronte a qualcosa che non si capisce);
2.
prima comprensione del significato nascosto della battuta; 3. comprensione al quadrato (in cui si riconsidera
lo
stupore iniziale e in qualche modo ci si relativizza, osservando come eravamo bloccati davanti a qualcosa di
nuovo che non capivamo). Anche incontrando una cultura diversa, se ci si pone nell'atteggiamento
umoristico, ossia nella condizione di
essere sorpresi, si può osservare un meccanismo simile a quello appena descritto. In questo modo si
diventa
oggetti e soggetti insieme di osservazione nell'incrocio fra due credenze, abitudini, culture. Ovviamente non
è
tutto qui: c'è una logica nuova da imparare, un diverso metodo di osservazione, un altro modo,
più complesso e
sfumato, di considerare la comunicazione, perché e evidente che non c'è incontro possibile tra
culture senza
comunicazione. Mi fermo qui e ridiscendo al primo livello, quello del racconto delle giornate di scuola in Italia
e in America. Vorrei per finire segnalare alcune tra le tante piccole cose interessanti che mi hanno colpito.
La prima, che poi non è tanto piccola, il diverso rapporto che gli alunni italiani e quelli statunitensi
hanno con
l'oralità e la scrittura. In Italia il rito dell'interrogazione è uno dei fondamenti indiscussi del
sistema scolastico
(sicuramente ancora nella scuola secondaria superiore): il momento in cui l'alunno, da passivo che è
per la
maggior parte del tempo, diventa unico protagonista sulla scena. Nell'high school in Usa non ci sono
interrogazioni, ma un continuo dialogo tra alunni e insegnante e la valutazione viene affidata a test settimanali
scritti. Sembrerebbe, a prima vista e volendo molto generalizzare, una diversa accentuazione nelle due culture
scolastiche dell'oralità e della scrittura: in Italia la prima, negli Usa la seconda. E questa impressione
va contro
una tradizione dello scritto come momento fondamentale della valutazione della maturità dell'alunno
che in Italia
è ancora fortissima. Mi pare che la cosa sia più complessa e che si possa notare, leggendo i
resoconti che l'autrice
fa delle prove orali e scritte degli alunni, un peculiare rovesciamento: in Italia gli alunni hanno come modello
fondamentale il testo scritto (in particolare il tema) e a questo si rifanno mentre parlano (ricordiamoci sempre
che
siamo in un liceo classico); negli Usa gli alunni scrivono come parlano, ossia usano come matrice fondamentale
per la scrittura uno schema orale, uno stile decisamente colloquiale che da noi verrebbe etichettato come povero
e superficiale. Una seconda osservazione riguarda invece il ruolo marginale che l'autrice attribuisce ad un
aspetto per me
fondamentale. A pagina 184 troviamo la seguente nota: "Per omogeneità si intende una equilibrata
presenza in
ogni classe di ragazzi con rendimento ottimo, mediocre, sufficiente e insufficiente. La scuola Usa tende invece
a funzionare per "binari", con i migliori separati da coloro che sono più indietro". Ora devo dire che
aver trovato
riportato in nota un aspetto così importante per l'organizzazione dell'istituzione scuola, mi lascia
semplicemente
esterrefatto: ma come, tutti i discorsi sulla selezione (dopo don Milani, il Sessantotto e il Settantasette) della
scuola, sul suo carattere classista dove sono andati a finire? Evidentemente l'autrice, che col Sessantotto
ha avuto una qualche contiguità e va in giro per il liceo classico a
Roma con il "Manifesto" in tasca ha voluto stupire, provocare, persino scandalizzare. Ma perché, e ne
siamo poi
così sicuri? Non è un prodotto secondario della fanfara della crisi delle ideologie, per cui sta
male, anzi
decisamente sconveniente, tornare su argomenti che sono stati troppo manipolati dall'ideologia di sinistra? Da
un'osservatrice partecipante, che interviene facendo osservazioni sulle patatine e sui pantaloncini corti degli
insegnanti americani e che oltretutto ben conosce la situazione italiana, mi sarei aspettato almeno una battuta
in
più su questo non irrilevante problema. Un aspetto che certamente colpisce nella scuola americana
(almeno in questa esaminata che è sicuramente una
scuola privilegiata) è la maggiore libertà che gli studenti hanno di disegnarsi il proprio curricolo
di studi,
analogamente a quanto da noi accade all'università. Con l'aiuto di un counsellor (un insegnante che ha
lo scopo
di aiutare i ragazzi nella scelta delle materie e in caso di difficoltà) gli studenti possono scegliere tra
una vasta
gamma di materie: dalla letteratura russa alla storia africana e quant'altro possiate immaginare. L'autrice segue
la studentessa Chloe da una lezione di regia TV, a una di discorso pubblico, o un'altra di storia americana degli
anni Sessanta. L'impressione (o di nuovo il pregiudizio), ma bisognerebbe approfondire meglio l'argomento,
è
però di una certa evanescenza dei contenuti, della mancanza di un fondamento solido che dia senso
all'insieme.
Gli studenti continuano a muoversi da un'aula all'altra: al cambio dell'ora hanno qualche minuto di intervallo
in
cui sciamano nei corridoi, s'incontrano fuggevolmente per dirigersi alla loro prossima destinazione. Rapporti
tra
gli studenti più fuggevoli, occasionali, quasi da folla metropolitana. D'altra parte la tipica
immobilità dello
studente in Italia, immobilità che nel nostro sistema è uno dei massimi valori positivi, costretto
per ore nello
stesso banco non induce forse maggior rassegnazione e fatalismo, dato che nulla è scelto e gli attori
(insegnanti)
si alternano in un balletto assolutamente indipendente dalla volontà degli studenti? Non è
il caso di tentare qui generalizzazioni che confermerebbero solamente pregiudizi già correnti e
assolutamente inutili ai fini di una reale comprensione. Anche la ricerca della Sclavi va nella direzione contraria,
verso la particolarizzazione, e raggiunge i suoi punti più alti proprio laddove tocca e disegna i dettagli
inosservati
e importanti dell' istituzione-scuola. Un'impressione finale. La contrapposizione tra "scuola americana" e
"scuola
italiana"' (con tutte le semplificazioni che queste etichette comportano) mi ricorda quella tra cultura testuale e
cultura dell'immagine (più in generale audiovisiva) legata ai nuovi mezzi tecnologici. Quando si
guarda alla seconda come a una pura minaccia alla prima, la sensazione è quella di restare
precariamente legati a una zattera sull'orlo di una cascata, cercando di invertire il corso della corrente. Bisogna
ampliare l'orizzonte, guardarsi intorno, cercare non appigli provvisori, ma una riva diversa a cui approdare,
perché
non c'è un unico e irresistibile futuro verso il quale siamo trascinati da una corrente impetuosa.
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