Rivista Anarchica Online
Basta che non c'è scuola
intervista a Augustin Garcia Calvo
Augustin Garcia Calvo, docente di latino all'Università di Madrid, poeta, saggista, ecc., è molto
noto in Spagna
per la sua critica del Potere di chiara matrice libertaria. In gioventù attivo nella lotta antifranchista - in
seguito
alla quale fu a lungo esule in Francia - Garcia Calvo è spesso protagonista in Spagna di dibattiti e
polemiche
intellettuali. Sul numero dello scorso ottobre di CNT, mensile degli anarcosindacalisti, è
stato intervistato su
vari temi di attualità. Ecco ampi stralci dell'intervista.
Tu parli sempre di svuotare il tempo sostituendolo con reali contenuti
di vita e di non-morte.
Per Loro la tecnica è quella, preservare il tempo vuoto, riempiendolo appunto. E' una tecnica
apparentemente
paradossale ma è proprio così. Loro pensano che nessuno potrebbe reggere un tempo vuoto,
senza ripieno; si
tratta allora di preservare il vuoto in questo modo: occupazione, ripieni. E' lo stesso che sia la televisione o la
macchina, le discoteche, qualsiasi cosa. Si tratta di preservare il tempo vuoto a furia di riempirlo. La cosa
comincia con il lavoro, dal lavoro si passa a tutto il resto.
Tu sei quasi l'unico difensore del treno, quasi l'unico a essere contro quella mostruosità
che è il treno ad
alta velocità, contro il Progresso Progredito, insomma. Che cos'è per te il treno?
Non si può dire che io sia esattamente un difensore del treno, poiché nessuno può
vantarsi di essere un difensore
di qualcosa di buono per il popolo. Questo sarebbe un eccesso di presunzione. E' la stessa cosa che succede con
quelli che sostengono di difendere la natura: è una presunzione. Noi non possiamo più difendere
niente, non ci
resta che attaccare. Attaccare con le forze che ci rimangono e finché ce lo permettono, ma attaccare. Io
sono
un «attaccatore» di tutti i mezzi imposti dall'alto, prima fra tutti l'automobile privata e poi tutta la sfilza di
pullman, camion e TIR. Attacco l'imposizione dei mezzi di trasporto, semplicemente perché sono inutili.
Io
consiglio come tattica popolare il criterio dell'utilità, contrapponendolo alloro criterio di
redditività che è in
realtà un criterio di produzione d'inutilità. Il popolo può aggrapparsi solo al criterio di
utilità: le cose vanno
usate anziché comprate e vendute. Così la macchina privata è un esempio di oggetto
totalmente inutile per i suoi
scopi, come si è dimostrato, e tuttavia serve a essere comprata e venduta. In questo senso si possono
usare i
mezzi di trasporto utili (ferrovie, tram) che si contrappongono nettamente agli altri. «Usare, in quanto
contrapposto a possedere» potrebbe essere l'assioma. Quello che vogliono Loro è spingere fino al limite
l'imbroglio della proprietà, che comincia con la Storia, e il denaro è quello che serve per poter
possedere. Perciò
penso che bisogna opporre l'«usare» al «possedere», e questo è l'unico modo di lottare.
Il crollo sembra essere vicino o il Capitale e lo Stato sono una specie
di mostro che può assumere qualsiasi
forma? oppure sono dentro di noi?
Queste cose bisogna precisarle ulteriormente. Uno non deve mettersi a fare le profezie, le profezie
appartengono a Loro. Chiunque dica al popolo o ai giovani
che hanno un futuro agisce nello stesso modo dei padroni: il futuro appartiene a Loro. Non si possono mai fare
delle profezie né credere a un qualsiasi Futuro. Bisogna avere sempre presente la canzone di Machado
la strada
non c'è, la si fa camminando. Per poterla fare bisogna che non ci sia. Se ci tracciano la strada
siamo persi. È
ovvio che i segnali di crollo aumentano, soprattutto per quanto riguarda istituzioni come quelle che abbiamo
appena nominato: la macchina, quella privata nella fattispecie, o il computer. Sono cose che per la loro natura
precipitano velocemente verso la distruzione, il crollo. Ma non bisogna fidarsi, a me queste cose, queste
speranze basate sul disastro, mi fanno pensare ai tempi in cui i vecchi, sotto la dittatura di Franco, vedevano tale
disastro nell'economia che pensavano dovesse crollare immediatamente; e così sono andati avanti, e
molti di
loro sono morti prima della fine della dittatura. Quindi non bisogna fare affidamento sul tempo. Siccome il
popolo, a differenza delle persone, non ha futuro, non conosce la morte, non muore mai e quindi non c'è
fretta.
Infine non bisogna dimenticare che quello che ci sta succedendo non è un'epoca storica ma il culmine
di tutte.
In realtà quello che stiamo vivendo è tutto l'imbroglio e tutta la schiavitù della storia,
dalla condanna di Jehovà.
Semplicemente noi la viviamo nel modo in cui ci è toccato di farlo. Si può solo confidare nel
fatto che è
evidente che l'Apparato non è perfetto, ha delle incrinature, delle fessure, altrimenti non potremmo
neanche
essere qui a parlare. È evidente che c'è gente, non la maggioranza ma comunque ci sarà
sempre molta gente che
non ci casca del tutto, che non ci crede totalmente, che continua a rigirarsi, ecco tutto. Semplicemente non
bisogna vedere un futuro roseo ma vedere con chiarezza che il Loro futuro è un futuro falso. Ecco
l'unico respiro
e l'unica speranza. Il Futuro è il regno della morte, e si cerca quindi di far rientrare tutto nel Futuro,
di far diventare puro tempo
la vita. Anche per questo un motore che dovrebbe essere sempre valido per la gente, per il popolo, è
il ricordo,
anche quello anteriore alla Storia, il Paradiso Perduto, per esempio, un po' ingenuamente. Anche questo ricordo
gli viene ucciso, trasformato in Storia e tramite la televisione tutti i ricordi, soprattutto quelli dei tempi in cui
c'erano guerre nel mondo sviluppato e anche altri molto più lontani, vengono ridotti a pura Storia, a
date, a
tempo. Di conseguenza quella stessa epoca in cui si specchia la televisione viene automaticamente ridotta a
un'epoca, a tempo, e in un'epoca non può vivere nessuno, e Loro lo sanno bene. Magari ci vivono
Napoleone,
Tutankhamon, ma non la gente.
Pensi che ci sia qualche possibilità che il popolo agisca per evitare questa via
dell'autodistruzione?
Sembra che ci portino al macello come tori, come mucche, insomma...
È senz'altro una cosa triste, la tristezza su cui Loro si basano. E il consiglio per qualsiasi ribelle
è senz'altro: non
contare mai sulla maggioranza, rinunciare completamente all'ideale democratico, altrimenti non c'è
niente da
fare, giacché accettarlo è una sottomissione a priori. E' una cosa triste, tu hai fiducia nella
gente e quando hai a che fare personalmente o in gruppi organizzati vedi
che sono idioti, e non può essere altrimenti, perché le maggioranze sono fatte così,
servono a questo, a votare
quello che è stabilito, a comprare quello che è stabilito. Di fronte a questo c'è la
costatazione del fatto che la
maggioranza non sono tutti, checché ne dica l'ideale democratico, e soprattutto che neanche ognuno di
noi
isolatamente è mai perfetto, rimane sempre in noi qualcosa di contraddittorio, e qualcosa di
contraddittorio vuol
dire qualcosa di popolare al di sotto della persona. ( ... ) In parole povere, ai ribelli bisogna semplicemente
dire che anziché farsi abbindolare usando le armi del
nemico, per esempio l'ideale democratico, fra le altre, devono rinunciarvi e imparare a fare quello che Juan de
Mairena raccontava della Scuola Superiore di Sapienza Popolare: dare ascolto a quello che viene da sotto e
aiutare semplicemente a elaborarlo, a cogliere la sapienza che vi si cela e a restituirla alla gente.
Hai parlato di Mairena e della Scuola Superiore di Sapienza
Popolare. Sei un professore con o senza
cattedra?
In genere nelle aule c'è una cattedra, almeno in quelle della Complutense, dove insegno tuttora
come professore
emerito. Io un po' sto sulla pedana un po' giro per l'aula; per me le lezioni sono come una rappresentazione
teatrale e quindi a volte uno deve sedersi sul tavolo, a volte deve farsi un giro, possibilmente tranquillo, parlando
con la gente, a volte uno si trova in piedi sulla pedana. Raramente mi siedo in cattedra, può anche
succedere
ma per me la docenza non deve essere mai discostata da questo carattere teatrale. È uno dei modi per
renderla
più proficua, o meno nociva, oltreché addolcire quell'inevitabile malattia che è
l'autorità. E' indubbio che dal
momento in cui uno è lì ha accettato quella croce, anche se non sale sulla pedana. E
l'autorità non può essere
giustificata in modo alcuno. Non solo non sappiamo niente, Socrate insegna, ma pensiamo di sapere e
così il
cerchio si chiude. Condizione essenziale è il non crederci. Tuttavia, ho passato dei lunghi periodi
all'Università,
per esempio adesso, da quando sono tornato da Parigi, diciassette anni fa, e prima in Francia, a Lille. Vale a
dire, con l'Università e con la cattedra mi capita come con la stampa o la radio, tutte istituzioni di per
sé votate
all'imbroglio e all'oppressione. Per quanto riguarda l'Università ho già accennato al criterio
di autorità. Ciononostante, queste istituzioni non
sono perfette, hanno fessure e crepe che permettono la loro eventuale utilizzazione, cosa che non mi verrebbe
mai in mente con la televisione, per esempio. Mi rifiuto, perché in quel caso non so che cavolo potrei
fare se
non costituirmi senza condizioni. La cattedra è meglio della stampa e della radio perché la cosa
essenziale è che
c'è gente, gente non ancora fatta, per non usare la parola «giovani», che sembra un po' insultante e
fascista, gente
con cui si può parlare e con cui ci si capisce meglio. E' quello che capita a me.
Credi che ci sia qualcosa di produttivo nel rapporto insegnamento-apprendimento?
Non è escluso che possa esserci qualcosa, anche se so senz'altro che la maggioranza, l'immensa
maggioranza
serve solo a una cosa, a esaminare la gente, a compiere il rincretinimento di pretese élites
che sono ugualmente
una massa, ma una massa con trattamento di riguardo, insomma, non dico niente di nuovo, le istituzioni servono
a questo. Solo che non sono chiuse e perfette abbastanza, e secondo me ne abbiamo la conferma ogni giorno.
Mi capita di incontrare gente che, anche se subisce tutto ciò, ha venti o ventun anni, come i miei
studenti del
quarto anno, che hanno subito altri quindici anni di educazione, eppure molti di loro arrivano qui ancora vivi,
a riprova del fatto che il sistema non è perfetto. E questa è una delle poche cose che possono
consolarci, giacché
l'amministrazione della morte è onnipresente in tutto quello che è gestito dallo Stato e dal
Capitale e quindi nella
scuola e nella cultura in modo notevole. È Amministrazione di morte.
Quale potrebbe essere lo spartiacque fra la storia fredda-morta, con parole tue, e la narrazione
viva?
È molto sottile. Ci sono due tipi di memoria contraddittori, l'uno contrapposto all'altro. Da una parte
c'è una
memoria viva, forse l'unica vita che ci è concessa ogni tanto, nel ricordo come reviviscenza, come
vissuto. Non
si tratta di un ricordo fotografico, e cioè condannato a idee o date, è proprio il contrario di una
fotografia.
Dall'altra c'è il ricordo sotto forma di fotografia, di storia o, come dicevo prima, di televisione che fa
diventare
storia anche lo stesso momento in cui lo schermo lancia i suoi raggi sui telespettatori. Per me, la forza essenziale
è quella proveniente dall'altro ricordo, al quale quelli di Sopra sostituiscono il Futuro. Il Futuro
appartiene a
Loro, e Loro imbrogliano con il Futuro ... Contrariamente, la forza è dietro, nel «paradiso perduto»,
nella
giovinezza non vissuta, per dirla sempre con Machado, e cioè quelle cose che non si sa cosa siano, ma
che sono
lì e agiscono. E così, una delle cose che mi fanno indignare nei confronti dei ribelli è
quando fanno l'errore di
copiare il nemico parlando di futuro, come se tutti i futuri non fossero la stessa cosa, facendo una storia uguale
alla loro, uccidendo il ricordo. Penso che una delle tattiche elementari sia quella di essere contro il Futuro e la
Storia, lasciandosi spingere dal ricordo vivo.
Che ruolo ha l'amore nel ricordo?
Bè , forse sarebbe più esatto dire il contrario, cioè io penso che sia il ricordo ad
avere un ruolo fondamentale
nell'amore, fintantoché l'amore è un amore minuscolo, che non è diventato l'idea di se
stesso, adatto alla vendita,
al matrimonio, alla prostituzione. Finché non diventa così l'amore si nutre del ricordo del non
vissuto, del
vissuto non si sa quando. Penso che una delle radici più profonde dell'innamoramento risieda in questo.
Ci si
sente trascinare, sono momenti in cui l'amore ti porta, momenti cioè in cui ti succede qualcosa.
Purtroppo di
solito si tratta di attimi fuggenti, subito la situazione si rovescia, si assume l'amore, gli si dà un nome,
lo si fa
diventare un'istituzione, un oggetto da vendere, e così l'amore viene travisato. Ma la radice è
lì, la radice è in
quei momenti in cui non sappiamo cosa ci stia succedendo né da dove arrivi. Bisognerebbe tornarci
sempre.
Insomma, non molto di più del carpe diem per quanto riguarda l'amore?
Ah! Di solito, l'espressione carpe diem è fraintesa, bisognerebbe avere presente tutto
il testo dell'Ode di Orazio
da cui è tratta: prendendola in modo isolato sembra un invito a godere del presente, e così
abbiamo la televisione
e gli spot della coca-cola che invitano alla vita, ecco dove può arrivare il carpe diem
assimilato. Quello che dice
Orazio è Carpe diem quam minimum credula pastera , così finisce l'Ode.
Carpere è un verbo abbastanza
difficile, vuol dire quello che fanno le capre quando brucano nei cespugli qua e là, cioè sta per
carpire o
pizzicare il giorno che passa, senza credere troppo al domani, ecco la cosa fondamentale. Il fatto di non credere
troppo al domani è molto più importante dell'espressione carpere diem .
C'è una differenza fra il pensatore e il filosofo? E se c'è, quale sarebbe?
Sì, certo che c'è una differenza. Evidentemente, la parola «filosofo» è molto
più stabilita, molto più prostituita.
Al giorno d'oggi è totalmente prostituita e per questo non la uso mai. Una conferma di questa radicale
prostituzione è che i manager delle aziende hanno la loro filosofia, la filosofia dell'azienda, e quelli del
nuovo
ministero hanno anche la loro filosofia; quindi c'è poco da fidarsi! Questo per dirti a che punto siamo,
e
effettivamente penso che i filosofi per bene, che sono piuttosto i letterati, non facciano che portare a fine questa
assimilazione. Dal canto suo, «pensatore» presenta l'inconveniente di quel suffisso che sembra quello della
parola attore e può suggerire che quando pensiamo sul serio siamo noi stessi a pensare, e questo non
è vero.
Quando pensiamo sul serio non siamo noi a pensare, siamo trascinati dal pensiero, trascinati dalla Ragione
Comune che risiede nel linguaggio popolare, e sia per grazia ricevuta sia per nostra abilità siamo riusciti
a
toglierci di mezzo nei limiti del possibile, più o meno come per la poesia. Non bisogna mai
dimenticare questo, si parla di ragionare e di pensare come se fossero verbi attivi con un
soggetto, come insegnavano i maestri delle elementari. Quando uno ha delle idee e cerca di imporre queste idee
è lui che pensa, e quindi si comporta da cretino, ma quando si pensa sul serio allora non siamo noi a
pensare,
allora siamo trascinati dalla ragione malgrado tutto.
Quindi, la ragione è del popolo e per il popolo?
La Ragione è nel popolo, e non c'è un'espressione del popolo più compiuta del
linguaggio. Bisogna solo stare
molto attenti a non confondere il linguaggio, quello popolare, con i gerghi dei mercanti, dei politici, dei filosofi
e dei letterati. Questi gerghi non si differenziano per la grammatica, non ne hanno. Si contrappongono
decisamente al linguaggio vero, il linguaggio senza padroni, che è di tutti, tutti lo usano benissimo
perché non
ne sono coscienti. Per me questo linguaggio è tutt'uno con la Ragione, non distinguo assolutamente il
linguaggio
dalla Ragione, intendendo quest'ultima come Ragione Comune e contrapponendola anche alle ragioni personali,
le ragioni dell'azienda, le ragioni di questo o di quell'altro, contrapponendola alle idee. La Ragione serve a
uccidere le idee.
Ma siamo stufi di vedere come questo linguaggio comune, almeno per un po', è
sottoposto alle mode,
mode che ancora una volta impongono Loro tramite i mass-media ufficiali...
Certo, certo, ma la cosa più importante è che questa imposizione non può arrivare
fino in fondo, cioè tutte quelle
mode possono investire semmai il lessico e alcuni accorgimenti retorici che nei confronti del linguaggio non
sono quasi niente, sono come la schiuma, ma non possono influenzare quello che c'è sotto, la
grammatica, il
meccanismo e la struttura della lingua, non possono neanche conoscerlo, non ci arrivano. Così
manipolano quel
poco che possono. Oddio, è tanto dal punto di vista politico, nel senso che imporre delle idee,
maneggiare il
lessico è qualcosa di tremendo, ma di fronte al linguaggio è poco e superficiale. Non arrivano
fino in fondo, la
sintassi, i fonemi e le loro regole combinatorie, la morfologia per il Potere sono irraggiungibili. Le lingue si
trasformano, ed è vero che lo stacco fra il lessico e tutto il resto non è netto, per cui
un'imposizione di certe
forme può anche arrivare più in basso, ma è un processo lento e improbabile, e
comunque poco approfondito.
Tu hai vissuto manifestazioni di ribellione popolare veramente importanti. Le rimpiangi oppure
nel tuo
ricordo si confondono a poco a poco con altre esperienze più neutre?
No, affatto, per me è ancora particolarmente forte il ricordo dei primi giorni della protesta
studentesca degli anni
sessanta, l'esempio più rappresentativo della mia esperienza. Essa si è verificata praticamente
in tutto il mondo
sviluppato nella prima fase del suo sviluppo, che coincide con quegli anni. Anche in Spagna,
perché nonostante ci fosse la dittatura lo sviluppo era cominciato dodici anni prima con la
tecnocrazia e tutta quella roba. Allora si diffuse dappertutto e in particolare fra gli studenti questo
malessere fortunatamente non previsto né
dal Potere né senz'altro dai leader dei partiti di sinistra. Nessuno l'aveva previsto ed è durato
poco. Era
cominciato in California poco tempo prima, quasi come qua, agli inizi del '65 e nel '64, e il maggio '68 francese
è stato praticamente la fine, a parte la fucilazione di alcuni studenti messicani in piazza, nell'ottobre
dello stesso
anno, conclusione un po' triste. E quindi è durato quel poco che è durato. Tra l'altro, fin
dall'inizio era stato
rovinato non solo dal Potere, che dopo essersi riavuto dalla sorpresa cominciò ad assimilarlo, ma
purtroppo
anche dai leader, quelli che avevano in mente cos'era una rivoluzione, cos'era un popolo oppresso, cos'era un
proletario, cos'erano rappresentanze e sindacati liberi, certamente non il SEU, e tutta quella roba. Ma tutto
sommato questo malessere ebbe un seguito e questo è qualcosa che non muore. Non era un affare che
dovesse
andare in porto o fallire. Il successo e il fallimento appartengono al mondo degli affari, queste sono cose che
sono lì e che uno vive, e io le ho vissute.
Qualche antidoto alla politica?
Ce n'è uno, l'altra politica, la politica del popolo, intendendo popolo in modo da lasciar fuori le
maggioranze,
le persone individuali. Nel popolo non ci sono persone. Una politica che è di per sé una
contropolitica, poiché
tutta la politica con la maiuscola, la politica dei politici e purtroppo non solo quella dei dirigenti dello Stato
né
quella dei capitalisti, ma anche quella dei leader sindacali e compagnia bella, è una politica che parte
da idee
preconcette e quindi sfocia nella Amministrazione di Morte. Di fronte a essa c'è sempre una
contropolitica che
è possibile grazie alle incrinature del sistema cui accennavamo prima, e la parola d'ordine rispetto a
questa
politica non può mai essere positiva ma essenzialmente negativa, non cadere nella politica dei politici,
ecco la
cosa fondamentale, e perché così non succeda bisogna aggrapparsi a cose come quelle cui
accennavamo prima,
il «criterio di utilità» contrapposto alla redditività, il ricordo che non è storia, le
evidenze della ragione nel
linguaggio popolare, tutte quelle cose. Bisogna nutrirsene e non accettare di credere nell'individuo personale,
non accettare quindi il criterio delle maggioranze, non fare mai l'errore di pensare, per esempio, che contro
l'impero del Denaro si possa lottare occupandosi del denaro, non fare l'errore insomma di accettare tutti quei
criteri imposti dall'alto. ( ... )
Giochiamo a immaginare inutilmente: come ti piacerebbe che fosse il mondo di domani nel
profondo del
tuo cuore?
Be', devo guardarmi dal dire niente di positivo. Come ti dicevo all'inizio di questa intervista le profezie e
tutte
quelle cose appartengono a Loro. E così dovrei intendere la tua domanda come riguardante un desiderio
cieco,
cioè un desiderio senza immagini, che non può essere descritto per mezzo di immagini. Come
l'aneddoto che
ci raccontava mi sembra il Prof. Lainez, a Salamanca, di un bambino del suo paese che alla domanda «e tu cosa
farai da grande?» rispondeva «io, basta che non c'è scuola». Ebbene, il desiderio è quello, la
sua formulazione
è quella, «basta che non c'è scuola». Cioè, uno vorrebbe vedere cosa succederebbe se
non ci fossero i soldi, se
non ci fossero i politici, se non ci fossero i mezzi per la conversione di vita in tempo, vedere se la vita sarebbe
possibile. Magari no, ma resta il desiderio di vedere cosa succede se ci scrollano tutto questo di dosso. Ecco il
desiderio, il desiderio essenziale.
Formidabile sfida questa...
Formidabile, certo, ma siccome non è un'aspirazione personale ma per il popolo e siccome il popolo
non esiste,
non muore mai. Ha l'enorme dono delle cose che non esistono, non muore mai; sono quelli che esistono a
morire, ad avere un futuro, quindi per quanto formidabile sia non c'è da avere paura. ( ... )
Hai appena parlato di società del benessere e di una grande minaccia. La spada di
Damocle che incombe
su di noi sarebbe la fine di questa società del benessere. Be', se la società del benessere
è questa, prima
finisce meglio è, no?
Sì, è vero, Loro si basano su questo. Ma la società del benessere è di per
sé il Futuro nel senso di prima. Cioè,
la gente vive molto bene nella misura in cui si rassegna a essere morta, questo è poco ma certo. Infatti
se uno
personalmente o la maggioranza si rassegnano a considerare come vita un surrogato, allora è chiaro che
vivono
letteralmente da Dio. Invece, nella misura in cui non mandano giù detto surrogato la
società del benessere diventa una specie d'inferno
sulla terra. Tutta questa situazione si serve anche degli orrori geografici e temporali che la circondano. La
società del benessere vive in mezzo a un altro mondo, che d'altra parte rappresenta la maggior parte del
mondo,
esiste grazie ad una periferia sottosviluppata dove ci sono carestie senza precedenti, piccole guerre di tipo
ottocentesco ... Zone marginali dove dilaga l'ansia di finire nel nostro paradiso, come è stato dimostrato
dalle
ondate di ragazzi albanesi e marocchini suicidi, o adesso dalle ragazze dei paesi dell'Est che si prostituiscono
in massa. E questa situazione viene favorita anche dal culto dell'incubo di un passato storico. Tutti i giorni fanno
vedere alla gente dei filmoni sulla guerra civile spagnola, o sulla seconda guerra mondiale, con tanto di nazisti
e giapponesi, favorendo così l'accontentamento, ed è evidente che quando qualcuno si
accontenta gli sembra
di vivere nel migliore dei mondi possibili. Ecco la società del benessere ed ecco la forma di tenerla in
vita.
intervista realizzata da Emilio Garcia Widemann
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