Rivista Anarchica Online
Il racconto della vita e della morte
di Ariela Overslight
Più dimessa della madre in «Infelicità senza desideri» di Peter
Handke. Più struggente de «La mite» di
Dostoevskij. Oltre il realismo sconcertante di «Teresa Batista» di Jorge Amado. Una lettura più vibrante
de «Il
giardino della conoscenza» di Andrian. Una solitudine più esclusiva di «Solo» di Strindberg. Un grido
muto
come la veggenza di Josef K. Una vita senza eccezionalità storica, ma un «io» che è tutti
«noi»... Furono queste le parole che ebbi a dire ad un'amica dopo aver letto L'ora della
stella di Clarice Lispector.
Fatto avvenuto per la prima volta alcuni anni fa, ma la scoperta a me stessa di quella breve e intensissima storia
è continuata nel tempo. Mi è stato però impossibile scriverci sopra qualcosa di organico
e strutturato che
soddisfacesse, almeno in parte, quanto mi sarebbe piaciuto comunicare. E ciò nonostante - o forse
proprio per
- il forte impatto emotivo procuratomi da quella lettura. Ancora adesso non so se riuscirò a farlo.
Difficile
mettere ordine, trovando le giuste parole, i ritmi e le frasi, nel mare tempestoso delle sensazioni. Torna a mente
l'immagine di Virginia Wolf intenta «a pescare nel mare della fantasia», e quando la lenza se ne aggrava
è lo
sconquasso. «Ho le emozioni di una donna, ma solo le parole degli uomini». Quando penso a «L'ora della
stella» l'impulso (e azione conseguente) è di leggerla per l'ennesima volta,
cancellando alla scrittura la trama di osservazioni che le forti emozioni presagiscono. Non sono una divoratrice
di romanzi, tuttavia se l'incontro con un testo è folgorante, posso ripetere la lettura molte volte ed ogni
volta
esserne arricchita ed ogni volta invasa. Così è (stato) per «L'ora della stella». «A
questo mondo tutto è cominciato con un sì. Una molecola ha detto sì a un'altra molecola
ed è nata la vita.
Ma prima della preistoria c'era la preistoria della preistoria e c'era il mai e c'era il sì. C'è sempre
stato. Non
so che cosa, ma so che l'universo non è mai cominciato». Né un inizio, né
una fine dunque, ma un sì carico, tanto di vita quanto di morte. È un «esserci» scandito dal
tempo di una voce narrante che lo trascende nel momento stesso che lo dichiara. La storia è infatti il
risultato
di una rivelazione per gradi: «È la rivelazione dell'imminenza di». L'unica possibile
rivelazione è, prima ancora di una rivelazione ad altri, una rivelazione a se stessi. Per questo,
contrariamente a quanto di più logico si possa inferire dalla trama di superficie, il personaggio
principale di
questa storia è il narratore. Narratore che si autodedica come scrittore «alla tempesta di
Beethoven... a
Schönberg... ai gridi raschianti degli elettronici... al rosso scarlatto del mio sangue di uomo adulto... a
me
stesso che in questo istante esplodo nell'io, che siete "voi"». Narratore che, qui, equivale anche a
narratario: colui o coloro a cui la storia è narrata. Essendo
un'autorivelazione ne è all'oscuro anche chi narra. Eppure questa voce, che dal silenzio è passata
alla parola
- il sì - fa sì che un altro personaggio prenda vita: Macabea, la ragazza nordestina venuta a Rio
de Janeiro a
vivere una vita di cui sembra spoglia, come la terra del suo nativo sertao. Storia di una semplicità
straordinaria, scarna come il corpo di Macabea, frutto di quel sottile sì che ha tracciato
tutte le forme. Orfana, allevata da una zia meschina come soltanto la povertà sa determinare,
Macabea ha i suoi splendori e
le sue altitudini, tanto più abbaglianti e vertiginose quanto più radicate nella miseria della sua
esistenza
quotidiana. Fa la dattilografa ricopiando lettera per lettera, le parole di cui spesso non conosce il significato:
«Una di queste era: "effemeridi"... Effemeridi o effemeriche? Il termine "effemeridi" era per lei un
assoluto
mistero. E frattanto la ragazzina si era innamorata della parola effemeridi...». Passione della sua vita:
marmellata di goiabas con cacio. Da piccola ne era privata, così - per castigo - senza
mai domandarne il motivo. Una sua gioia: l'aver visto «alto sul molo del porto
l'arcobaleno». Un interesse: ascoltare «Radio Relogio» che dava «ora esatta e cultura»,
scandendo il tempo goccia dopo
goccia con intervalli di pubblicità: «Fu così che apprese che, nelle sue terre, l'Imperatore
Carlo Magno era
chiamato Carolus». L'estraneità di Macabea al mondo non potrebbe essere più
estranea. Tuttavia si difende dalla morte vivendo a
metà. Sono i nudi fatti, i dettagli senza spessore a farne la storia. Olimpico, suo momentaneo
fidanzato, è di pasta dura e violenta. Con la grinta nel sangue e la brillantina nei
capelli; lui sì che sa afferrare il mondo, plasmarlo secondo i suoi desideri e dirigerlo a sostegno dei suoi
sogni.
Olimpico, il realista, l'antieroe di «una povera mentecatta», un personaggio che ne «L'ora della
stella» è poco
meno di una comparsa. A Gloria, la collega che le porta via Olimpico, ammesso che questi sia mai stato
di Macabea, non manca l'arte
di destreggiarsi nella vita. Si sente paga, ha certezze, è convinta. La sfiorano perfino slanci di
generosità verso
Macabea; generosità delebile proprio perché fatta sempre pesare. La sua persona fisica,
avvenente e invadente,
non lascia posto all'anima. La chiromante, giovane prostituta, vecchia tenutaria di bordello e attuale
«fans di Gesù» nel leggere le carte,
svela a Macabea la realtà del futuro. Un futuro che è in realtà il presente, come presente
lo è anche il passato.
Per «L'ora della stella», Madame Carlotta non acquista particolari meriti nel cuore del narratore che resta
intento a narrare Macabea: «Mi sono innamorato di Macabea, la mia cara Macabea, innamorato della
sua
bruttezza e del suo totale anonimato, per gli altri infatti è inesistente. Innamorato dei suoi polmoni
fragili, lei,
quello stecchino...». La grandezza di ciascuno è Macabea. Macabea è la grandezza
di ciascuno. Nell'ora della stella, la morte si
annuncia come il massimo della vita. Uno splendore che solo il buio più buio può trattenere.
Un piacere così
forte che solo il dolore più profondo può ricordarlo: «Era talmente viva che, piano piano,
si mosse e si sistemò
in posizione fetale. Grottesca, come lo era sempre stata, con quella riluttanza a cedere. E tuttavia, con quella
voglia del grande abbraccio. Si teneva abbracciata a se stessa nel desiderio del dolce nulla. Era una
disgraziata, e manco lo sapeva. Si aggrappava a una filaccia di coscienza, e senza posa ripeteva tra sé
e sé:
io sono, io sono, io sono. Ma non sapeva chi lei era. Era andata a cercare nella profonda e buia esistenza di
se stessa il soffio di vita che ci viene da Dio. Allora provò - lì distesa - una suprema umida
felicità, lei che era
nata per l'abbraccio della morte. La morte che in questa vicenda è il mio personaggio prediletto... In
questo
esatto momento Macabea sente una profonda nausea, quasi da vomitare. Voleva vomitare ciò che non
è il
corpo, vomitare qualcosa di luminoso. Una stella dalle mille punte... spasimo ampio, l'essenza che infine
raggiunge l'essenza... La vita mangia la vita». Commentare è un esercizio di miseria. Me
ne rendo conto quando il tentativo tradisce il proposito. «L'ora della
stella», romanzo di crudezza estrema, intreccio di testi e di temporalità, coreografia su luoghi dell'anima
e del
corpo, irradia liberamente tutta la poesia di un'opera d'arte; rintraccia l'armonia del caos. La linearità
delle frasi,
ordinate sulla base della paratassi sintattica, compila diagrammi di parole e di pensieri dove voce e testo si
fondono. E qui sta la magia della letteratura: saper tenere l'equilibrio, sul filo del testo letterario, tra i segni
dell'oralità e le apparenze della scrittura. Clarice Lispector, il cui nome evoca una chiarezza
rifrangente di lettura (Clarice-Clarissa/Chiarezza, Lis-Lèggi!,
Spector-spettro) è il cantastorie per eccellenza, colui che tramanda storie nel momento stesso che le crea
o le
varia. Tutti i «Cantadores» dell'America latina inscritti nella tradizione orale dei miti e delle fiabe; le
performances dell'immediato, proprie degli anonimi affabulatori indios, brasiliani e messicani, Inuit e caucasici,
lapponi e vedda, palpitano in lei, nella stesura appassionata di questo suo romanzo. La lingua della scrittrice
non ha parole pronte per l'uso. La sua lingua è un linguaggio, è un suono, è un segno
che rompe il silenzio senza tacitarne il significato. È un lavoro faticoso come può esserlo un
amore non voluto
e fatale, un'emanazione negata e tuttavia esplosa: «Perché scrivo? In primo luogo perché
ho colto lo spirito del
linguaggio e a volte è la forma a determinare il contenuto. Scrivo a orecchio, come a orecchio ho
imparato
l'inglese e il francese... Vedo adesso che mi sono scordato di dire che, di questi tempi, non leggo niente per non
contaminare con lussi la semplicità del mio linguaggio... Io medito senza parole e sul nulla. Ciò
che mi molesta
l'esistenza è lo scrivere... Ciò che scrivo è più di
un'invenzione». Una tensione altissima si sprigiona per tutto il testo. La trasparenza delle immagini
si nutre delle modulazioni
della voce, il grido di cui è rivedicato il diritto è un coagulo della materia. La bellezza è
indicibile finché la
realtà è dipendente dai fatti: «Sì io mi adeguo ma non mi domo. Mio Dio! Sto
meglio con le bestie che con le
persone. Quando vedo il mio cavallo libero, senza briglie, nel prato, provo il desiderio di appoggiare il volto
sul suo collo possente e vellutato, e raccontargli la mia vita. E quando accarezzo la testa del mio cane - so che
da me non esige né un senso, né una spiegazione». La critica considera «L'ora della
stella» il testamento spirituale di Clarice Lispector. Di fatto il romanzo fu
terminato nel '77 poco prima della morte dell'autrice e pubblicato postumo. Indubbiamente lascia ai lettori un
variegata e preziosa eredità sia per i temi psicologico letterari, sia per i rapporti tra scrittore e audience.
Ma il
principio del testamento come qualcosa di definito sul piano dell'estetica, con i suoi canoni, pur anche di
infingimento, non rientra nello stile della grande scrittrice brasiliana, per la quale è l'immediatezza del
segno
a garantire l'esistenza e la qualità dell'opera. Similmente a Macabea, colpita da un'auto
affinché si attuasse la sentenza di vita che la cartomante le aveva
decretato, anche noi siamo investiti dalla pungente veemenza di questa storia-racconto. Anche noi come Clarice
- la cantadora - ne muoriamo parola per parola.
Chi era Clarice Non è certa la data
di nascita. Il 1925 è la più accreditata. A due anni lascia il paese natale di Tchetchelnik in
Ucraina, insieme ai genitori, ebrei osservanti, diretti in Brasile. Clarice trascorre l'infanzia a Recife. Appena
adolescente si trasferisce con la famiglia a Rio de Janeiro. Nel 1944 esordisce con il romanzo "Vicino al
cuore selvaggio", accolto positivamente dalla critica che le
consente di entrare nel panorama della letteratura brasiliana con indiscusso merito di originalità.
Sposatasi con
un diplomatico, ha l'opportunità di vivere all'estero: in Italia a Napoli, in Svizzera, negli Stati
Uniti. Una volta divorziata, si stabilisce definitivamente in Brasile, dal '58 alla morte, avvenuta per cancro
il 9
dicembre 1977. Spirito molto riservato, amante dei cani, avverte, con senso premonitore, che la sua morte
sarebbe potuta
avvenire nel giorno di sabato. Pur non essendo praticante, questo fatto le crea disagio, perché
l'esposizione del
corpo si sarebbe protratta per non meno di due giorni. Le sue origini ebraiche hanno un qualche non indifferente
peso sulle opere: soprattutto ne "La passione secondo G.H.". Il rapporto con la parola ha venature
bibliche. Il corpus letterario di Lispector è costituito da circa una ventina di testi, tra romanzi e
racconti. Da ricordare: "La mela nel buio"; "Un apprendistato o il libro dei piaceri"; "Legami familiari";
"La passione
del corpo". Luciana Stegano Picchio nella: "Letteratura brasiliana" (Sansoni 1972) colloca Clarice
Lispector, "Scrittrice
lunare", tra i massimi autori in lingua portoghese.
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