Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 207
marzo 1994


Rivista Anarchica Online

Il racconto della vita e della morte
di Ariela Overslight

Più dimessa della madre in «Infelicità senza desideri» di Peter Handke. Più struggente de «La mite» di Dostoevskij. Oltre il realismo sconcertante di «Teresa Batista» di Jorge Amado. Una lettura più vibrante de «Il giardino della conoscenza» di Andrian. Una solitudine più esclusiva di «Solo» di Strindberg. Un grido muto come la veggenza di Josef K. Una vita senza eccezionalità storica, ma un «io» che è tutti «noi»...
Furono queste le parole che ebbi a dire ad un'amica dopo aver letto L'ora della stella di Clarice Lispector. Fatto avvenuto per la prima volta alcuni anni fa, ma la scoperta a me stessa di quella breve e intensissima storia è continuata nel tempo. Mi è stato però impossibile scriverci sopra qualcosa di organico e strutturato che soddisfacesse, almeno in parte, quanto mi sarebbe piaciuto comunicare. E ciò nonostante - o forse proprio per - il forte impatto emotivo procuratomi da quella lettura. Ancora adesso non so se riuscirò a farlo. Difficile mettere ordine, trovando le giuste parole, i ritmi e le frasi, nel mare tempestoso delle sensazioni. Torna a mente l'immagine di Virginia Wolf intenta «a pescare nel mare della fantasia», e quando la lenza se ne aggrava è lo sconquasso. «Ho le emozioni di una donna, ma solo le parole degli uomini».
Quando penso a «L'ora della stella» l'impulso (e azione conseguente) è di leggerla per l'ennesima volta, cancellando alla scrittura la trama di osservazioni che le forti emozioni presagiscono. Non sono una divoratrice di romanzi, tuttavia se l'incontro con un testo è folgorante, posso ripetere la lettura molte volte ed ogni volta esserne arricchita ed ogni volta invasa. Così è (stato) per «L'ora della stella».
«A questo mondo tutto è cominciato con un sì. Una molecola ha detto sì a un'altra molecola ed è nata la vita. Ma prima della preistoria c'era la preistoria della preistoria e c'era il mai e c'era il sì. C'è sempre stato. Non so che cosa, ma so che l'universo non è mai cominciato».
Né un inizio, né una fine dunque, ma un sì carico, tanto di vita quanto di morte. È un «esserci» scandito dal tempo di una voce narrante che lo trascende nel momento stesso che lo dichiara. La storia è infatti il risultato di una rivelazione per gradi: «È la rivelazione dell'imminenza di».
L'unica possibile rivelazione è, prima ancora di una rivelazione ad altri, una rivelazione a se stessi. Per questo, contrariamente a quanto di più logico si possa inferire dalla trama di superficie, il personaggio principale di questa storia è il narratore. Narratore che si autodedica come scrittore «alla tempesta di Beethoven... a Schönberg... ai gridi raschianti degli elettronici... al rosso scarlatto del mio sangue di uomo adulto... a me stesso che in questo istante esplodo nell'io, che siete "voi"».
Narratore che, qui, equivale anche a narratario: colui o coloro a cui la storia è narrata. Essendo un'autorivelazione ne è all'oscuro anche chi narra. Eppure questa voce, che dal silenzio è passata alla parola - il sì - fa sì che un altro personaggio prenda vita: Macabea, la ragazza nordestina venuta a Rio de Janeiro a vivere una vita di cui sembra spoglia, come la terra del suo nativo sertao.
Storia di una semplicità straordinaria, scarna come il corpo di Macabea, frutto di quel sottile sì che ha tracciato tutte le forme.
Orfana, allevata da una zia meschina come soltanto la povertà sa determinare, Macabea ha i suoi splendori e le sue altitudini, tanto più abbaglianti e vertiginose quanto più radicate nella miseria della sua esistenza quotidiana. Fa la dattilografa ricopiando lettera per lettera, le parole di cui spesso non conosce il significato: «Una di queste era: "effemeridi"... Effemeridi o effemeriche? Il termine "effemeridi" era per lei un assoluto mistero. E frattanto la ragazzina si era innamorata della parola effemeridi...».
Passione della sua vita: marmellata di goiabas con cacio. Da piccola ne era privata, così - per castigo - senza mai domandarne il motivo.
Una sua gioia: l'aver visto «alto sul molo del porto l'arcobaleno».
Un interesse: ascoltare «Radio Relogio» che dava «ora esatta e cultura», scandendo il tempo goccia dopo goccia con intervalli di pubblicità: «Fu così che apprese che, nelle sue terre, l'Imperatore Carlo Magno era chiamato Carolus».
L'estraneità di Macabea al mondo non potrebbe essere più estranea. Tuttavia si difende dalla morte vivendo a metà. Sono i nudi fatti, i dettagli senza spessore a farne la storia.
Olimpico, suo momentaneo fidanzato, è di pasta dura e violenta. Con la grinta nel sangue e la brillantina nei capelli; lui sì che sa afferrare il mondo, plasmarlo secondo i suoi desideri e dirigerlo a sostegno dei suoi sogni. Olimpico, il realista, l'antieroe di «una povera mentecatta», un personaggio che ne «L'ora della stella» è poco meno di una comparsa.
A Gloria, la collega che le porta via Olimpico, ammesso che questi sia mai stato di Macabea, non manca l'arte di destreggiarsi nella vita. Si sente paga, ha certezze, è convinta. La sfiorano perfino slanci di generosità verso Macabea; generosità delebile proprio perché fatta sempre pesare. La sua persona fisica, avvenente e invadente, non lascia posto all'anima.
La chiromante, giovane prostituta, vecchia tenutaria di bordello e attuale «fans di Gesù» nel leggere le carte, svela a Macabea la realtà del futuro. Un futuro che è in realtà il presente, come presente lo è anche il passato. Per «L'ora della stella», Madame Carlotta non acquista particolari meriti nel cuore del narratore che resta intento a narrare Macabea: «Mi sono innamorato di Macabea, la mia cara Macabea, innamorato della sua bruttezza e del suo totale anonimato, per gli altri infatti è inesistente. Innamorato dei suoi polmoni fragili, lei, quello stecchino...».
La grandezza di ciascuno è Macabea. Macabea è la grandezza di ciascuno. Nell'ora della stella, la morte si annuncia come il massimo della vita. Uno splendore che solo il buio più buio può trattenere. Un piacere così forte che solo il dolore più profondo può ricordarlo: «Era talmente viva che, piano piano, si mosse e si sistemò in posizione fetale. Grottesca, come lo era sempre stata, con quella riluttanza a cedere. E tuttavia, con quella voglia del grande abbraccio. Si teneva abbracciata a se stessa nel desiderio del dolce nulla. Era una disgraziata, e manco lo sapeva. Si aggrappava a una filaccia di coscienza, e senza posa ripeteva tra sé e sé: io sono, io sono, io sono. Ma non sapeva chi lei era. Era andata a cercare nella profonda e buia esistenza di se stessa il soffio di vita che ci viene da Dio. Allora provò - lì distesa - una suprema umida felicità, lei che era nata per l'abbraccio della morte. La morte che in questa vicenda è il mio personaggio prediletto... In questo esatto momento Macabea sente una profonda nausea, quasi da vomitare. Voleva vomitare ciò che non è il corpo, vomitare qualcosa di luminoso. Una stella dalle mille punte... spasimo ampio, l'essenza che infine raggiunge l'essenza... La vita mangia la vita».
Commentare è un esercizio di miseria. Me ne rendo conto quando il tentativo tradisce il proposito. «L'ora della stella», romanzo di crudezza estrema, intreccio di testi e di temporalità, coreografia su luoghi dell'anima e del corpo, irradia liberamente tutta la poesia di un'opera d'arte; rintraccia l'armonia del caos. La linearità delle frasi, ordinate sulla base della paratassi sintattica, compila diagrammi di parole e di pensieri dove voce e testo si fondono. E qui sta la magia della letteratura: saper tenere l'equilibrio, sul filo del testo letterario, tra i segni dell'oralità e le apparenze della scrittura.
Clarice Lispector, il cui nome evoca una chiarezza rifrangente di lettura (Clarice-Clarissa/Chiarezza, Lis-Lèggi!, Spector-spettro) è il cantastorie per eccellenza, colui che tramanda storie nel momento stesso che le crea o le varia. Tutti i «Cantadores» dell'America latina inscritti nella tradizione orale dei miti e delle fiabe; le performances dell'immediato, proprie degli anonimi affabulatori indios, brasiliani e messicani, Inuit e caucasici, lapponi e vedda, palpitano in lei, nella stesura appassionata di questo suo romanzo.
La lingua della scrittrice non ha parole pronte per l'uso. La sua lingua è un linguaggio, è un suono, è un segno che rompe il silenzio senza tacitarne il significato. È un lavoro faticoso come può esserlo un amore non voluto e fatale, un'emanazione negata e tuttavia esplosa: «Perché scrivo? In primo luogo perché ho colto lo spirito del linguaggio e a volte è la forma a determinare il contenuto. Scrivo a orecchio, come a orecchio ho imparato l'inglese e il francese... Vedo adesso che mi sono scordato di dire che, di questi tempi, non leggo niente per non contaminare con lussi la semplicità del mio linguaggio... Io medito senza parole e sul nulla. Ciò che mi molesta l'esistenza è lo scrivere... Ciò che scrivo è più di un'invenzione».
Una tensione altissima si sprigiona per tutto il testo. La trasparenza delle immagini si nutre delle modulazioni della voce, il grido di cui è rivedicato il diritto è un coagulo della materia. La bellezza è indicibile finché la realtà è dipendente dai fatti: «Sì io mi adeguo ma non mi domo. Mio Dio! Sto meglio con le bestie che con le persone. Quando vedo il mio cavallo libero, senza briglie, nel prato, provo il desiderio di appoggiare il volto sul suo collo possente e vellutato, e raccontargli la mia vita. E quando accarezzo la testa del mio cane - so che da me non esige né un senso, né una spiegazione».
La critica considera «L'ora della stella» il testamento spirituale di Clarice Lispector. Di fatto il romanzo fu terminato nel '77 poco prima della morte dell'autrice e pubblicato postumo. Indubbiamente lascia ai lettori un variegata e preziosa eredità sia per i temi psicologico letterari, sia per i rapporti tra scrittore e audience. Ma il principio del testamento come qualcosa di definito sul piano dell'estetica, con i suoi canoni, pur anche di infingimento, non rientra nello stile della grande scrittrice brasiliana, per la quale è l'immediatezza del segno a garantire l'esistenza e la qualità dell'opera.
Similmente a Macabea, colpita da un'auto affinché si attuasse la sentenza di vita che la cartomante le aveva decretato, anche noi siamo investiti dalla pungente veemenza di questa storia-racconto. Anche noi come Clarice - la cantadora - ne muoriamo parola per parola.

Chi era Clarice
Non è certa la data di nascita. Il 1925 è la più accreditata. A due anni lascia il paese natale di Tchetchelnik in Ucraina, insieme ai genitori, ebrei osservanti, diretti in Brasile.
Clarice trascorre l'infanzia a Recife. Appena adolescente si trasferisce con la famiglia a Rio de Janeiro.
Nel 1944 esordisce con il romanzo "Vicino al cuore selvaggio", accolto positivamente dalla critica che le consente di entrare nel panorama della letteratura brasiliana con indiscusso merito di originalità. Sposatasi con un diplomatico, ha l'opportunità di vivere all'estero: in Italia a Napoli, in Svizzera, negli Stati Uniti.
Una volta divorziata, si stabilisce definitivamente in Brasile, dal '58 alla morte, avvenuta per cancro il 9 dicembre 1977.
Spirito molto riservato, amante dei cani, avverte, con senso premonitore, che la sua morte sarebbe potuta avvenire nel giorno di sabato. Pur non essendo praticante, questo fatto le crea disagio, perché l'esposizione del corpo si sarebbe protratta per non meno di due giorni. Le sue origini ebraiche hanno un qualche non indifferente peso sulle opere: soprattutto ne "La passione secondo G.H.". Il rapporto con la parola ha venature bibliche.
Il corpus letterario di Lispector è costituito da circa una ventina di testi, tra romanzi e racconti.
Da ricordare: "La mela nel buio"; "Un apprendistato o il libro dei piaceri"; "Legami familiari"; "La passione del corpo".
Luciana Stegano Picchio nella: "Letteratura brasiliana" (Sansoni 1972) colloca Clarice Lispector, "Scrittrice lunare", tra i massimi autori in lingua portoghese.