Rivista Anarchica Online
Il gulag cinese
di Jean-Jacques Gandini
«Nell'ora in cui vediamo la fine del gulag sovietico, il gulag cinese sopravvive».
Ecco ciò che con forza ci
ricorda JeanLuc Domenach in China, l'archipel oublié (1), opera che ha
richiesto oltre dieci anni di ricerche
e che viene a colmare una sorprendente lacuna della storiografia contemporanea sulla Cina (2). La prima
cosa che veniamo a sapere è che l'arcipelago cinese è il più grande complesso
concentrazionario di
tutti i tempi, superiore nel numero - si parla di oltre dieci milioni di detenuti - ai sistemi sovietico e nazista. Ma
l'elemento che lo caratterizza fortemente è che a differenza del sistema nazista, basato sull'esclusione
e
l'eliminazione, e di quello sovietico, che cercava innanzi tutto di seminare il terrore, questo pretende di partorire
un «uomo nuovo». Si tratta del resto di un dato fondante del partito comunista orwelliano cinese, anteriore alla
sua ascesa al potere nel 1949. In effetti, già negli anni Trenta, nella repubblica sovietica dello Jiangxi,
viene
introdotto un primo principio, quello del lavoro forzato rieducativo; a Yan'an verrà in seguito sviluppata
la
«riforma del pensiero» (3), affinché la prigionia non serva soltanto a punire ma anche a «riformare i
criminali
dominando il loro spirito e annichilendo la loro personalità, così da farli diventare uomini
nuovi». La presa del
potere consente senza dubbio di perfezionare questo sistema applicandolo su scala nazionale, perché
«l'arcipelago non è una tara vergognosa del nuovo potere ma, al contrario, uno dei suoi ingranaggi
essenziali». L'autore fa distinzione tra due tipi di campi: quelli fondati sull'esecuzione delle pene e il lavoro
forzato - laogai -
e quelli fondati sulla rieducazione - lao jiao - e individua tre grandi frequenze cronologiche: 1949-1957
«politica
di terrore seguita dalla riforma del pensiero» e dalla «riforma attraverso il lavoro»; 1958-1971 «turbolenze del
Grande balzo in avanti e della Rivoluzione culturale»; 1971-1991 «erosione del sistema e fallimento della
"riforma del pensiero"». Lo scopo perseguito è quello di spezzare ogni resistenza personale, sia
fisica che mentale, di far apparire,
secondo l'espressione di Hannah Arendt, «degli uomini senz'anima, privi di personalità e di morale»,
disposti
ad accusare se stessi e ad assistere al proprio decadimento, e questo, al fine di raggiungere l'ideale totalitario.
Perversione finale: il prigioniero che ha finito di scontare la sua pena resta sul posto come «libero
lavoratore»! Non possiamo fare a meno d'interrogarci su ciò che ha consentito a questa faccia della
Cina di rimanere nascosta
così a lungo. Bisogna riconoscere che «la Cina stessa ha taciuto»; non ci sono Solzenicyn cinesi e la
testimonianza più forte e più completa rimane finora quella di Jean Pasqualini (4), liberato nel
1964 grazie al
riconoscimento francese della Cina. Ma vi è certamente anche una responsabilità degli uomini
politici
occidentali, diplomatici, giornalisti, nonché sinologi (5), affascinati in rapida successione prima del
romanticismo di Mao Tse Tung e dal pragmatismo di Deng Xiao Ping, che hanno messo il gulag nel semplice
conto di «perdite e profitti». E tale responsabilità continua a proposito del ruolo economico avuto dal
lavoro
forzato. Domenach ne minimizza curiosamente l'impatto, stimando che se si integrano tutti i costi fissi il
beneficio è solo apparente. Tuttavia occorre sottolineare - e non per niente Wu (vedi nota 2) insiste su
questo
punto - che attraverso la sua diffusa rete di fattorie e di fabbriche che producono una vasta gamma di merci, il
lavoro forzato gioca un ruolo importante nell'economia nazionale, specie sul versante delle esportazioni. A
titolo di esempio, la ditta Remy Martin, che ha aiutato la Cina a impiantare la sua industria vinicola, sa per certo
che le uve provengono dai campi di lavoro e per darla a bere trucca le etichette del suo vino Dynasty, che viene
commercializzato in Francia, sotto il nome «NuideChine» «Nuicaline» ... Da qualche anno ormai
l'arcipelago si è «normalizzato». Il regime ha perduto la fede nella propria capacità di
riformare i prigionieri. Oltre a essere diminuiti di circa la metà, la gran parte non è più
formata da oppositori
o da membri di gruppi sociali condannati per la loro origine di classe, ma da semplici trasgressori di «diritti
comuni». La violenza e la corruzione regnano ormai incontrastate in quello che è diventato «l'imbuto
della
società», semplice riflesso, alla fine, dell'evoluzione di un regime passato da un monopartitismo politico
autoritario a un'economia capitalista sempre più sfrenata.
(traduzione di Stefano Viviani)
1) Editions Fayard, 1992; 160 F per 680 pagine di grande intensità, delle quali 80 di note. 2)
Insieme alla recente pubblicazione negli Stati Uniti di Lao Gai: the chinese goulag di
Harry Wu (Boulder
Westview Press, 1992), che per via delle sue posizioni «di destra» vi ha trascorso circa vent'anni, dal 1960 al
1979. 3) Vedi in particolare, Guilhem Fabre, Genese du pouvoir et de
l'opposition en Chine: 1942, le printemps de
Yan'an, L'Harmatlan,1990. 4) Prissonier de Mao: 7 ans dans un camp de travail
en Chine, Témoins-Gallòimard, 1975. 5) A questo proposito è bene
ricordare la solenne bastonatura somministrata da Simon Leys alla Macciocchi
in occasione di una memorabile puntata di «Apostrophes» di Bernard Pivot.
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