Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 209
maggio 1994


Rivista Anarchica Online

Un refrattario
di David Koven

Con John Vattuone (Cagliari 1899 - Desert Hot Springs 1994) è scomparso uno degli ultimi esponenti di quel movimento anarchico di lingua italiana che tante pagine di storia ha scritto nel corso di un secolo. Ne ricostruisce qui la biografia David Koven

La prima parte di questa storia del nostro vecchio amico e compagno John Vattuone, è stata selezionata da una registrazione di due ore che lo convinsi a fare nell'autunno del 1992, quando stette con me per un paio di settimane. Sentii che era importante registrare la sua esperienza perché rifletteva un periodo della storia anarchica che andrà presto perduto, un tempo in cui l'anarchia cresceva e prosperava grazie all'energia investita nella nostra visione dalla «umile» classe lavoratrice. Un tempo di autodidatti che avevano maturato i loro convincimenti come risposta «viscerale» alle condizioni da loro sperimentate e alla loro consapevolezza della natura oppressiva delle istituzioni esistenti.
Sento che la storia di John rafforza la mia convinzione che la gente come lui ha avuto un'importanza straordinaria nell'assicurare la continuità del nostro movimento anarchico. Il fatto che il lungo rapporto di John con l'anarchismo abbracci il periodo di crescita del fascismo in Italia, accompagnato dalla concomitante crescita del movimento anarchico italiano in esilio negli Stati Uniti, rende la sua storia particolarmente interessante. Dunque, questo non è soltanto un ricordo di John, ma è anche un ricordo dei suoi amici e compagni, insieme ai quali diede un contributo straordinario allo sviluppo e alla crescita dell'anarchismo come vitale alternativa sociale.

D.K.

Parla John: l'adolescenza in Sardegna
«Sono nato a Cagliari, in Sardegna, 1'11 novembre 1899. Mio padre era un giovane fornaio genovese ambulante, emigrato a Cagliari in cerca di lavoro. Mia madre veniva da una famiglia toscana che si era trasferita in Sardegna quando lei era bambina. Erano tutti e due giovani quando presero la decisione di sposarsi e come succedeva a quel tempo produssero una famiglia numerosa, con sei figlie e me, l'unico figlio maschio. Mia madre morì in giovane età di polmonite, il 9 novembre 1908, due giorni dopo il mio nono compleanno. Oltre a me e alle altre sorelle, lasciò una figlia nata da appena tre mesi. Ricordo ancora il dolore di mio padre alla sua morte. Così come non dimenticherò mai la generosa risposta delle giovani madri della nostra comunità. Vennero giorno e notte ad allattare la bambina con il latte dei loro seni sino a che non fu cresciuta abbastanza per essere svezzata.
Mio padre non si sentì mai a casa sua in Sardegna perché la maggior parte della comunità parlava un dialetto sardo che non aveva nessuna relazione con i dialetti latini della terraferma. Trovava la comunicazione con i sardi molto difficile. Alcuni anni dopo, venne a sapere tramite il sindacato dei fornai di cui era membro, che a Carloforte, un villaggio di pescatori nella vicina isola di San Pietro, c'era bisogno di uno che facesse il pane. Non si lasciò sfuggire quella opportunità, perché la gente di Carloforte discendeva da pescatori genovesi che si erano stabiliti lì più di un secolo prima e parlava il suo stesso dialetto genovese. Tuttavia, dato che io e mia sorella stavamo frequentando la scuola a Cagliari (io ero già al liceo, e a Carloforte il liceo non c'era), noi restammo a Cagliari con alcuni membri della famiglia materna, e andavamo a trovare nostro padre solo nel periodo delle vacanze. Per un po' trascurò la famiglia, ma quando ebbe la certezza di avere raggiunto una posizione abbastanza solida, la riunì nuovamente.
Entro il 1914 ho cominciato a lavorare nel forno con mio padre. Mentre crescevo, mi ripeteva in continuazione che era molto importante per tutti imparare un'attività che consentisse di guadagnarsi da vivere. All'epoca, mentre pulivo uno dei macchinari, persi la prima falange del pollice destro. Quando scoppiò la prima guerra mondiale avevo già sviluppato idee radicali. Una delle persone più importanti che incontrai allora era un uomo che si chiamava Giulietti, sindacalista radicale e organizzatore del sindacato marittimo. Il modo in cui vedevo le cose mi spingeva a rifiutare con decisione l'ipotesi dell'arruolamento nell'esercito italiano (in quel momento l'Italia chiamava alle armi i sedicenni.) Decisi allora di lasciare Carloforte. Studiai e ottenni i brevetti necessari per diventare marinaio, entrai nel sindacato marittimo e all'inizio del 1916 m'imbarcai su una nave, La Fortuna, come fochista. Di ritorno in convoglio da Portland Maine, negli Stati Uniti, dove avevamo caricato del grano, la nostra imbarcazione venne silurata da un sottomarino tedesco subito dopo essere entrata nelle acque del Mediterraneo. Fortunatamente, il grano che trasportavamo consentì alla nostra nave di rimanere a galla abbastanza a lungo perché l'intero equipaggio trovasse posto sulle piccole scialuppe di salvataggio e raggiungesse Bizerte, sulle coste settentrionali dell'Africa.
Quando tornammo in Italia, andai nuovamente a Carloforte, ma ero insoddisfatto della mia vita laggiù. Grazie a un amico di famiglia trovai lavoro come frenatore nelle ferrovie dell'isola più grande, dove all'epoca c'era una sola linea ferroviaria che collegava Cagliari a Sassari, il sud al nord. Ancora una volta mi trovai a disagio, perché decisero di assegnarmi a Sassari invece che a Cagliari, dove vivevano i miei amici e i miei parenti. Poco dopo l'isola venne spazzata da un'epidemia di «Spagnola» per la quale rischiai quasi di morire. Quando cominciai a star meglio tornai a Carloforte dalla mia famiglia, dove rimasi sino a che non mi fui completamente ristabilito. Decisi quindi di tornare in mare e andai a Genova, m'iscrissi al sindacato dei marinai e ripresi a navigare. Nei due anni successivi, viaggiai in ogni parte del mondo.
Uno dei programmi più importanti stabiliti a quel tempo dal sindacato marittimo era l'acquisto delle navi tedesche catturate nei porti italiani allo scoppio della guerra. Per fare questo, i membri del sindacato mettevano da parte una percentuale dei loro salari, e quando la nave finiva sotto il nostro controllo, ci organizzavamo in cooperative controllate dai lavoratori. Ricordo i nomi di due navi, la Pietro Gori e la Giuseppe Verdi, sulla quale in seguito feci numerosi viaggi come membro dell'equipaggio.
Il sindacato marittimo ebbe un ruolo importante nell'aiutare Malatesta, che viveva in esilio a Londra, a ritornare in Italia nel 1920. Quando Malatesta tornò a Genova, nelle piazze c'erano più di un milione di persone. Erano venute da ogni parte d'Italia per salutarlo. Ma nel 1920 Mussolini e i fascisti stringevano già nella morsa l'Italia e avevano dato inizio alla repressione contro quelli che dissentivano dalle loro idee.
All'epoca facevo regolarmente parte dell'equipaggio della Giuseppe Verdi, le nostre rotte incrociavano i porti di Genova, Napoli e New York. Alla fine del 1920, facendo scalo a New York, trovai una lettera scritta da mia sorellla che insegnava in una scuola elementare di Carloforte, con la quale mi avvertiva di non tornare a Carloforte perché le era giunta voce che i fascisti locali mi stavano cercando a causa delle mie idee e delle mie attività radicali. Aveva la sensazione che la mia vita fosse in pericolo. La cosa l'aveva saputa da alcuni suoi studenti che le avevano riferito alcuni discorsi che si sentivano nelle loro case. Continuai a navigare per altri due anni, ma quando divenni consapevole del crescente potere dei fascisti, decisi di lasciare l'Italia. Nel settembre del 1922, due mesi prima del mio ventitreesimo compleanno, quando la Giuseppe Verdi attraccò a New York, abbandonai la nave.

New York negli anni Venti
A New York avevo cugini e compaesani ai quali potevo rivolgermi per un aiuto. Poco dopo il mio arrivo sentii da uno di loro che a Mt. Kisco, una piccola città non lontana da New York, un fornaio italiano stava cercando qualcuno che sapesse fare il pane. L'addestramento di mio padre si rivelò utile e così ritornai alla mia prima attività. Scoprii che l'uomo che teneva il forno, Angelo Carscioli, era un socialista radicale che si era abbonato alla rivista anarchica «Cronaca Sovversiva». Nelle copie di «Cronaca Sovversiva» trovai idee che condividevo. («Cronaca Sovversiva» interruppe le sue pubblicazioni nel 1919, quando Galleani venne deportato.) Il mio orario di lavoro, che andava dalle 24 e 30 alle 8 del mattino mi lasciava un po' di tempo per esplorare la città e scoprire cose che attiravano il mio interesse. Nei paraggi individuai una pensione dove viveva un gruppo di immigrati italiani provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria, impegnati come manovali nella costruzione di linee ferroviarie. Trascorsi diverso tempo con loro a discutere di ciò che stava accadendo in Italia, a giocare a carte, ecc. Più o meno nello stesso periodo incontrai una donna italo-americana che faceva l'insegnante e che convinsi a tenerci delle lezioni serali, così che potessimo imparare a parlare inglese. La maggior parte degli uomini avevano tagliato i ponti con l'Italia ed erano ansiosi di diventare cittadini americani. Io, invece, non vedevo l'ora che il fascismo fosse sconfitto, per potere tornare a casa. Per me, le lezioni d'inglese erano soltanto uno strumento che mi consentiva di comprendere la gente che mi stava attorno. Rimasi a Mt. Kisco per tre anni, fino a che il mio interesse per quella realtà non si esaurì.
Tornai a New York, dove trovai subito lavoro come panettiere a Brooklyn. Ma soprattutto, scoprii che al 158 di Carroll Street, non lontano da dove vivevo, c'era una sala riunioni gestita da un gruppo di militanti dell'IWW (Industriai Workers of the World) e anarco-sindacalisti legati a Carlo Tresca, organizzatore delle lotte operaie e direttore del giornale anarco-sindacalista, «Il Martello». Tra coloro che incontrai c'erano diversi marinai, membri dell'Unione marittima italiana, che avevano abbandonato come me la loro nave per evitare di ritornare nell'Italia fascista. Anche questi erano legati a Tresca attraverso un suo collaboratore chiamato Quintilliano, che faceva il sarto. La sua sartoria divenne il nostro luogo d'incontro abituale, un posto per discutere di ciò che stava accadendo in Italia.
La nostra principale attività all'epoca era la lotta per salvare le vite di Sacco e Vanzetti. Una lotta nella quale rimasi ben presto coinvolto. Oltre alle manifestazioni di protesta alle quali prendevamo parte, utilizzavamo la sala, che disponeva di un palco, per rappresentare delle commedie. Questi spettacoli, insieme a balli e cene, rientravano nelle iniziative regolarmente previste per la raccolta dei fondi necessari alla difesa di Sacco e Vanzetti. Tuttavia i nostri sforzi non servirono a nulla, dato che nel 1927 Sacco e Vanzetti furono assassinati dallo Stato del Massachusetts.

Un mutamento dello stile di vita
Nel 1927, sebbene vivessi da solo, ero soddisfatto della mia vita nella comunità e contento del mio lavoro. Mister D'Angelo, il proprietario del forno, mi propose di diventare suo socio e le cose andavano a gonfie vele. Il nostro forno riforniva di pane fresco e paste la comunità locale. Oltre al mio lavoro come panettiere, guidavo un furgone con cui effettuavo le consegne ai nostri clienti. Questi potevano pagarci settimanalmente o mensilmente, o quando avevano i soldi. Ovviamente non abbiamo mai fatto problemi se qualcuno non era in grado di pagare.
Fu allora che si verificò l'evento più importante della mia vita, l'incontro con la mia compagna Elvira. Il padre di Elvira, Tony Cimineri, era un mastro muratore che aveva da poco traslocato con la sua numerosa famiglia, quattro figli e quattro figlie, da New Haven nel Connecticut a Brooklyn. A New Haven le possibilità di lavoro cominciavano a scarseggiare ed egli aveva dovuto trasferirsi a Brooklyn, che attraversava una fase di espansione edilizia. Avevano preso casa non lontano dal forno. Fu così che avvenne quindi il cambiamento che segnò la mia vita. Tony, che era anarchico, riceveva lo stesso periodico anarchico che mi mandavano al forno, «L'Adunata dei Refrattari». Il giorno successivo al suo trasloco, il postino consegnò a Tony due copie dell'«Adunata», la sua e la mia. Tony, che non conosceva molte persone nel quartiere, fu contento di trovare qualcuno che condivideva le sue opinioni e mi portò la rivista al forno. In quel momento ero assente, ma lui mi lasciò due righe invitandomi a fargli visita. Due giorni dopo andai a trovarlo e mi presentò la sua famiglia. Li trovai tutti molto simpatici. Visto quant'era numerosa la sua famiglia, cominciai a portar loro il pane che avanzava dalle mie consegne giornaliere, che in ogni caso sarebbe stato considerato «vecchio». Ben presto fui invitato a unirmi alla loro tavola e la nostra relazione si fece più stretta. Trovavo sua figlia Elvira, che all'epoca aveva solo diciassette anni, molto attraente, e non ci misi molto a capire che quel sentimento era ricambiato. Sebbene in passato avessi avuto diverse amicizie femminili, ero sempre stato restio a impegnarmi seriamente perché non avevo trovato nessuna che condividesse il mio punto di vista radicale e antireligioso.
Quando Tony si accorse che il legame tra Elvira e me si faceva più stretto, mi prese da parte e mi parlò. Con voce triste, mi consigliò di non attaccarmi a Elvira, perché i medici lo avevano informato che Elvira soffriva di seri disturbi cardiaci che non le avrebbero consentito di vivere a lungo. Ma io ero innamorato di Elvira, così dissi a Tony di non intromettersi, che mi sarei preso cura di lei. E infatti, vivemmo insieme per 61 anni, 1 mese e 20 giorni.
Ovviamente, durante tutto questo tempo, continuai le mie attività con il gruppo. Il mio gruppo, che mi dava molte soddisfazioni e amicizia, aveva anche cominciato una fitta corrispondenza con Armando Borghi, che era stato segretario dell'Unione sindacale in Italia, sino a che aveva dovuto fuggire per sottrarsi alla persecuzione fascista. Dopo una lunga peregrinazione, Borghi si era stabilito a Parigi, dove viveva con la sua compagna, la poetessa anarchica Virgilia D'Andrea. Con l'aiuto di alcuni marinai dell'IWW, riuscimmo a farlo entrare clandestinamente negli Stati Uniti. Gli trovammo un posto sicuro in cui vivere, in una stanza sopra una libreria gestita da un altro militante dell'IWW, un compagno che si chiamava Schiardina. Alla fine ci rendemmo conto che l'unico modo che avevamo per far entrare anche Virgilia, che versava in precarie condizioni di salute, sarebbe stato trovare un compagno che fosse cittadino americano e fosse disposto ad andare a Parigi a sposarla e a portarla con sé come legittima consorte. Il compagno che nel 1928 fece tutto ciò si chiamava Blotto. Una volta entrata negli Stati Uniti, lei andò a vivere con Borghi. Blotto tornò a Somerville, New Jersey, dove mandava avanti una prospera attività producendo Vermouth. Dato che Borghi e Virgilia non avevano mezzi per guadagnarsi da vivere, il gruppo li sosteneva come meglio poteva.
Nel frattempo, «Bruno», che era tornato negli Stati Uniti alla fine della prima guerra mondiale, decise di far rivivere «Cronaca Sovversiva» sotto il nome de «L'Adunata dei Refrattari». Per compensarlo del suo lavoro di direttore, i compagni mettevano insieme qualche soldo. Nonostante Borghi fosse uno dei condirettori del foglio, non c'era abbastanza denaro anche per lui. La povera Virgilia morì di tumore nel 1931, appena tre anni dopo il suo arrivo dalla Francia.
All'incirca nello stesso periodo avevo incontrato il gruppo di anarchici che sosteneva l'«Adunata» e mi ero unito a esso. Mi trovai molto più vicino alle loro posizioni che a quelle di Tresca e del suo gruppo. Il rapporto proseguì nel tempo. Subito dopo il nostro incontro, il gruppo si spostò in una sede a Brooklyn, in Cook Street, e prese il nome di Circolo Volontà. Il nuovo spazio era molto più grande e contava un vero e proprio palcoscenico attorno al quale il gruppo formò una compagnia teatrale con una produzione regolare. Naturalmente, oltre a ciò, per raccogliere fondi organizzavamo le consuete feste, i balli e le cene. L'utilizzo di quel posto era stato facilitato da alcuni nostri compagni siciliani che conoscevano i mafiosi proprietari dell'edificio. Era strano, non avevamo niente a che fare con la mafia, eppure non ci chiedevano nulla per l'affitto, né interferivano in alcun modo nelle nostre faccende. Forse ritenevano che potessimo essere una buona copertura per le attività che svolgevano in altre parti dell'edificio.
Con il passare del tempo il rapporto che Elvira e io avevamo con Borghi diventò qualcosa di più di un legame tra compagni che condividevano la stessa visione del mondo, diventammo grandi e intimi amici. La sera a tavola ci scambiavamo confidenze e opinioni tra un buon piatto e un bicchiere di vino. A causa della sua condizione di clandestino, Borghi non poteva lavorare come giornalista.
Fummo noi i compagni che lo aiutarono in tutti i modi possibili a sopravvivere.
Dopo l'arrivo di Virgilia, cercammo per loro una sistemazione migliore della soffitta sopra la libreria nella quale viveva Borghi, e riuscimmo a trovare un discreto appartamento nel quartiere. Borghi e Virgilia tennero regolarmente delle conferenze a Cook Street fino a che quest'ultima morì. In seguito Borghi continuò a essere uno dei principali oratori alle nostre riunioni e proseguì la sua preziosa collaborazione con l' «Adunata». Poi Borghi venne invitato ad andare a vivere con i nostri compagni Katina Chulo e suo marito. Il suo legame con Katina si approfondì dopo la morte del marito e proseguì quando Katina si spostò a Roma in seguito alla deportazione di Borghi.

La doppia deportazione di Borghi
Verso la fine della guerra, quando sembrava ormai evidente il declino del fascismo italiano, Borghi desiderava ritornare in Italia per cercare di riorganizzare l'Unione sindacale che era stata distrutta da Mussolini. Egli, valutando ottimisticamente la professione di antifascismo dei suoi membri e convinto di poter contare sulla loro collaborazione, commise l'errore di scrivere al Dipartimento di Stato americano indicando la sua volontà. Lo fece a dispetto degli ammonimenti miei e di altri compagni che il Dipartimento di Stato continuava a considerarlo persona non gradita e che avrebbe cercato di farlo arrestare non appena avesse messo piede negli Stati Uniti. L'occasione si presentò poco dopo il suo arrivo, quando la sala nella quale stava parlando venne invasa dalla polizia e da agenti dell'immigrazione ben decisi ad arrestarlo. Borghi saltò giù dal palco e si mischiò all'uditorio e nella confusione che seguì, i compagni riuscirono a metterlo in salvo. Tuttavia, immediatamente dopo avere ricevuto la sua lettera, questi mandarono una squadra di agenti dell'immigrazione che lo arrestarono e lo trasportarono a Ellis Island per la deportazione. In breve, poco prima della conclusione della guerra, il desiderio di Borghi venne soddisfatto con la sua deportazione in Italia.
Tuttavia, non avendo avuto la possibilità di preparare il suo ritorno, Borghi trovò le condizioni in Italia così caotiche e la vita per lui così difficile, che non gli rimase altra soluzione se non quella di tornare sui suoi passi. Ma a distanza di molti anni dal suo primo arrivo, provato dall'età e vittima del provvedimento di deportazione, un suo rientro negli Stati Uniti per vie legali risultava ormai impossibile.
Borghi comprese che sarebbe stato più facile entrare clandestinamente dal Canada anziché dall'Europa e mise in atto il suo piano. In qualità di membro della International Newspaper Guild, poteva entrare in Canada legalmente. Scrisse ai nostri compagni canadesi e li avvisò che stava arrivando. Raggiunta Montreal trovò ad attenderlo i nostri vecchi amici Attilio Bortolotti e la sua compagna Libera che lo portarono con loro a Toronto. Elvira e io andammo quindi in macchina fino a Toronto per studiare un modo per riportarlo negli Stati Uniti. Elvira era nata negli Stati Uniti e io nel frattempo avevo ottenuto la cittadinanza americana, così potevamo attraversare il confine senza problemi. Alla fine trovammo il sistema per far entrare clandestinamente Armando nel paese. Andammo tutti insieme alle Cascate del Niagara, che erano una grande attrazione turistica sia per gli americani che per i canadesi.
Un autobus correva lungo i due versanti, americano e canadese, per consentire alla gente di godersi i due differenti panorami. Elvira e io ci portammo sul versante americano e aspettammo l'arrivo dell'autobus sul quale avevano preso posto Borghi e Libera.
Quest'ultima aveva dato a Borghi il documento d'identità di suo padre. Giunti al confine, i doganieri americani non si preoccuparono di chiedere i documenti a quell'anziano uomo ben vestito e i due poterono passare indisturbati. Quando l'autobus raggiunse il territorio degli Stati Uniti, salutammo Libera, poi, Elvira, Borghi e io ritornammo a Stelton, New Jersey, dove vivevamo. Alcuni giorni dopo riportammo Armando a Brooklyn, a casa di Katina. Armando rimase con lei fino al giorno in cui il postino lo riconobbe, ricordò che era stato deportato e lo denunciò all'ufficio immigrazione. Così, ancora una volta, Borghi venne arrestato e deportato. Intanto il movimento anarchico italiano era tornato a essere una forza politica attiva. A Roma i compagni avevano ripreso le pubblicazioni di «Umanità Nova», avevano accolto Borghi e gli avevano affidato la direzione della rivista. Il movimento stava crescendo e si poteva permettere di pagare a Borghi ciò che era necessario per vivere. Katina seguì Borghi a Roma e si occupò della gestione della loro casa. Dopo la guerra, nei nostri numerosi viaggi in Italia, Elvira e io riuscimmo a mantenere viva l'amicizia che ci univa.

Altri legami e altri coinvolgimenti
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, avevo abbandonato il mio lavoro al forno e avevo cominciato a guadagnarmi da vivere con una sorta di lavanderia ambulante. Ovviamente, nelle case non era ancora arrivata la lavatrice, così il servizio era molto richiesto.
Uno dei vantaggi era che sebbene il furgone con cui giravo fosse di proprietà della compagnia per la quale lavoravo, di fatto potevo usarlo ogni volta che volevo. Tutte le sere tornavo a casa con quello ed era a mia disposizione anche nei fine settimana. In quei giorni in cui il carburante veniva razionato, il rifornimento effettuato direttamente dalla compagnia rappresentava un ulteriore vantaggio. Ovviamente, se un compagno aveva bisogno del furgone per spostare qualcosa, era sempre a sua disposizione. Nello stesso periodo avevo incontrato e stretto amicizia con il gruppo di giovani anarchici che a New York pubblicava «Why?», un foglio antimilitarista che più tardi venne chiamato «Resistance». Alcuni di loro li conoscevo già perché erano figli di compagni della Pennsylvania con i quali ero in contatto. Per la raccolta di fondi i compagni della Pennsylvania erano soliti organizzare ogni anno dei picnic a cui Elvira e io prendevamo regolarmente parte.
Tra gli altri giovani del gruppo di «Why?» incontrammo Dorothy Rogers, una compagna canadese che era stata segretaria di Emma Goldman in Canada, nel periodo che precedette la sua morte. Dorothy ci venne presentata nel corso di una riunione e diventammo amici. Una sera venne a cena da noi e portò con sé la giovane compagna con cui viveva, Audrey Goodfriend, che a sua volta ci presentò David Koven. La nostra amicizia con Audrey e David sarebbe continuata per il resto della vita.
Il gruppo di «Wby?» all'epoca pubblicava il solo foglio antimilitarista e anarchico in lingua inglese degli Stati Uniti.
Il gruppo, grazie ai loro giovani compagni italiani, aveva stabilito un rapporto con «Bruno» e i compagni che stavano pubblicando l'«Adunata». I compagni italiani contribuivano a raccogliere i fondi necessari alla sopravvivenza di «Why?». Per via delle difficoltà che i giovani compagni avevano a quel tempo nel trovare un tipografo disposto a stampare un foglio antimilitarista, si accordarono per fare stampare «Why?» dai tipografi che lavoravano già con l' «Adunata». Dato che nessuno aveva la macchina, andavo io a ritirare il giornale dai tipografi e lo portavo al quinto piano nell'appartamento sulla Ninth Street East, dove vivevano Audrey, Dorothy e David. Era lì che poi tutto il gruppo si dava appuntamento per mettere insieme il giornale e spedirlo.
Nei primi anni Quaranta, Elvira e io trascorrevamo la maggior parte dei fine settimana nella Stelton Colony in New Jersey. La famiglia di Elvira era andata a vivere là da un po' di tempo. La colonia era stata fondata come gruppo di sostegno per la Francisco Ferrer Modern School, quando la scuola era stata costretta a lasciare New York nel 1903. Ma la colonia non era soltanto una cornice della scuola, in essa veniva sperimentata la vita di comunità. C'era una attività culturale estremamente ricca. Teatro, musica e altre discipline artistiche venivano praticate e messe a disposizione di tutti i residenti. Contemporaneamente venne aperto un laboratorio gestito collettivamente da numerosi coloni anarchici. La scuola e la colonia furono inoltre attivamente impegnate nel caso Sacco e Vanzetti e in tutte le altre cause anarchiche delle quali si occupava il movimento. La colonia resistette fino alla seconda guerra mondiale, quando la vicinanza con le basi militari che la circondavano, le differenti posizioni assunte dai compagni nei confronti della guerra e il calo di iscrizioni alla scuola, misero la parola fine a questo esperimento anarchico.
Prima della conclusione della guerra, i nostri amici Audrey e David si spostarono a San Francisco e successivamente a Berkeley, dove presero parte al gruppo che avviò la Walden School. Consapevole del fatto che l'avvento della lavatrice nelle case non mi avrebbe più consentito di guadagnarmi da vivere con il mio furgone lavanderia, Elvira e io prendemmo la decisione di ricominciare una nuova vita lontano da lì. All'epoca San Francisco poteva contare su una comunità anarchica estremamente attiva e vivace. Una comunità formata da un folto gruppo di anarchici italiani e da diversi scrittori e artisti americani. La stessa San Francisco era conosciuta come città viva e liberale. Tony Martocchio, un compagno che con la sua famiglia e la sua compagna Bessie mandava avanti un allevamento di pollame nella vicina città di Petaluma, invitò Elvira e me ad andare a vivere con loro, insegnandoci come si doveva lavorare in una fattoria. Poi, Elvira e io ci comprammo una fattoria vicino a Sabastopol, California, a circa 80 chilometri da San Francisco, dove rimanemmo fino all'età della pensione.
I compagni italiani di San Francisco erano molto attivi e noi prendevamo parte a tutte le loro iniziative per la raccolta di fondi. Seguimmo anche le iniziative di gruppi anarchici di altre città come Los Gatos, Pleasanton, Fresno e Los Angeles, per portare la nostra solidarietà a questi compagni quando organizzavano i loro picnic per la raccolta di fondi. In seguito prendemmo attivamente parte alle iniziative che ruotavano attorno alla Walden School. Infine ci ritirammo nella città di Santa Rosa. Vivevamo in una piccola casa con un bel giardino, avevamo buoni amici ed eravamo sempre felici quando qualche compagno ci veniva a fare visita per il fine settimana. Continuammo a vivere lì sino alla morte di Elvira, avvenuta nell'ottobre 1989, poco dopo il suo ottantesimo compleanno».

Un poscritto
Non mi è facile descrivere quello che John ed Elvira hanno significato per Audrey, me e la nostra famiglia. La mia testa è piena d'immagini dei meravigliosi momenti trascorsi insieme. John amava stare in compagnia. Amava mangiare, bere e ballare, così come Elvira, che tra l'altro penso fosse una delle più grandi cuoche del mondo. Dopo la morte di Elvira, a dispetto delle sempre maggiori difficoltà, John cercava di non perdere mai il buon umore e con la faccia da cane bastonato si lamentava ironico: «Con i balli ho chiuso». John ed Elvira si divertivano con i bambini, li amavano e li rispettavano. Non solo le nostre figlie, Diva e Nora, ma i figli di tutti i loro amici e compagni crescevano impazienti di godere delle loro visite e delle lunghe nottate che trascorrevano insieme a loro. Oltre al forte legame famigliare, a unirci c'erano lo stretto cameratismo e la comune visione anarchica.
C'erano poi altri tratti del carattere di John che andrebbero sottolineati. John era un uomo forte e maschio, e alcuni dei nostri compagni si lamentavano di quelli che percepivano come atteggiamenti sessisti. «Elvira, dammi questo! Elvira, dammi quello! ecc.».
Ciò che questi compagni non comprendevano, era che John era un prodotto del XIX secolo e pochi uomini anarchici del suo tempo trattavano le donne come pari (che novità!). Uomini come Kropotkin, Bakunin e Malatesta, gli uomini che diedero un contributo eccezionale all'anarchismo, non furono certamente modelli di uomini femministi.
Possono avere avuto un rispetto formale dell'idea di uguaglianza per le donne, ma le loro relazioni li smentivano. Ahimè, erano prodotti dei loro tempi, come noi lo siamo dei nostri.
Ciò che può essere stato trascurato nel rapporto tra John ed Elvira da un osservatore disattento, era la profondità dell'amore, il rispetto e la cura che avevano l'uno dell'altra. Parimenti può essere sfuggito il modo in cui Elvira, con il suo carattere calmo, riuscì a non farsi mai sottomettere e ad affermare se stessa. Sarebbe troppo facile criticare gli altri senza riconoscere i compromessi che abbiamo fatto con i nostri ideali.
Quello che so è che John, un uomo di una forza e di un'energia fisica eccezionali fu disponibile con tutti coloro che avevano bisogno di aiuto. Ha raccontato di quando ci portava i pacchi delle copie di «Why?».
Io mi ricordo di quando mi accompagnò a prendere il torchio tipografico «clandestino» che il nostro gruppo aveva acquistato per stampare volantini e pamphlet contro la guerra. Avevamo preso in affitto una cantina nella strada dove vivevamo Audrey e io, un posto assolutamente «clandestino» in cui sistemare il torchio, e senza John non so se ce l'avremmo mai fatta.
Ricordo quando la Walden School era stata da poco trasferita nel posto in cui si trova adesso. Audrey insegnava in una classe elementare. L'«agricoltore» John portò ad Audrey diversi animali da fattoria con i quali lei creò una piccola fattoria proprio dietro l'aula. Polli, anatre e pecore, diventarono ben presto il centro d'interesse non soltanto dei ragazzi con i quali lavorava Audrey, ma dell'intera scuola.
Erano talmente convinti dell'importanza di scuole alternative come la Ferrer School e la Walden, che uno poteva sempre contare sull'aiuto di John ed Elvira.
Nel 1993, consapevole che non gli rimaneva più molto tempo, John mi diede 30.000 dollari che distribuii in suo nome a tutta la stampa anarchica in Italia, Inghilterra, Canada e Stati Uniti. John fu felicissimo delle lettere di ringraziamento che gli inviarono i compagni. Poco prima del Natale del 1993 ho trascorso una settimana con John a Desert Hot Spring, la città desolata dove era andato a vivere. Sebbene soffrisse di giramenti di testa e camminasse a fatica, la sua mente era lucida come sempre e abbiamo discusso a lungo dell'anarchismo.
John mi telefonò il giorno prima di morire, per dirmi che oltre ai membri della famiglia di Elvira era andato a trovarlo il figlio dei suoi vecchi amici, Attilio e Libera.
Quando la mattina seguente appresi della sua morte, mi sentii sollevato al pensiero che non fosse morto da solo, tra estranei, ma fosse circondato dagli amici e dalla famiglia. Inutile dire che tutti quelli che lo hanno conosciuto sentiranno la sua mancanza.

David Koven (traduzione di Stefano Viviani)