Rivista Anarchica Online
Presagi d'autunno
di Carlo Oliva
Cosa significa quando i due maggiori quotidiani nazionali intitolano a piena
pagina, come è successo sabato 10
settembre ultimo scorso, l'uno «Arrivano le donne soldato» e l'altro «Allarme prostituzione»? Significa
evidentemente, al di là delle interazioni indebite che l'accostamento può spingere a stabilire tra
istituzione militare
e sesso a pagamento (ma, in fondo, si tratta di due ambiti i cui esponenti sono tradizionalmente legati, non
soltanto da una certa consuetudine di frequentazione, ma dalla tendenza ideologica ad ascrivere la persona
propria
o altrui più alla categoria dei mezzi che a quella dei fini) che nel paese alligna ancora qualche problema
culturale
a proposito della parità dei sessi e delle possibili forme di rapporto fra i medesimi: che, su quelle
questioni, il
quadro di valori collettivo è ancora, per così dire, instabile e in attesa di sistemazione. Il fatto
che certe donne,
a quanto pare, ambiscano, o vengano indotte ad ambire, a «fare il soldato» è visto come una
novità degna di venire
sottolineata, proprio come si sottolinea l'«allarme» suscitato dal fatto che certe altre, in numero crescente e
secondo modalità inconsuete, esercitino la prostituzione. Se poi dai titoli si passa alle notizie cui essi
si
riferiscono, si scoprirà che il governo, proponendo, da un lato, di aprire al sesso gentile la carriera
militare
volontaria e, dall'altro, di sottoporre le prostitute a vari obblighi sociosanitari che ne comportano la schedatura,
ha deciso di chiudere entrambe queste sorgenti di perplessità ideologica in senso, diciamo così,
burocratico
organizzativo. E di risolvere i relativi dilemmi in senso, diremmo noi, reazionario, perché la schedatura
delle
prostitute, quali che siano le motivazioni sanitarie che si accampano per giustificarla, è ovviamente una
procedura
illiberale, e l'apertura dell'esercito alle donne può essere vista tanto come la fine di un'esclusione
ingiusta (se è
ingiusto essere esclusi dalle possibilità di massacro attivo e passivo) quanto come l'eliminazione di uno
stato di
favore, uno dei pochi, forse, di cui godeva il sesso femminile. E si sa che l'idea che la democrazia, intesa come
eliminazione degli altrui privilegi, sia riducibile al livellamento degli obblighi verso il basso rappresenta uno
degli
equivoci più drammatici in cui possa cadere chi ha a cuore il valore dell'uguaglianza.
Giudici, delatori, «delati» Ma lasciamo perdere e continuiamo a leggere i
giornali. Si stanno ormai esaurendo le polemiche suscitate dalla
proposta di «uscita» politico giudiziaria da Tangentopoli avanzata dal celebre procuratore Di Pietro al convegno
confindustriale di Cernobbio, a nome, pare, dei magistrati del pool «Mani pulite» (anche se, a quanto sembra,
al
testo in questione hanno contributo tanti di quegli avvocati ligi agli interessi delle grandi imprese, più
o meno
inquisite, della regione, da farlo definire da qualcuno come la proposta degli industriali lombardi). Quasi tutti
coloro che, nella maggioranza o all'opposizione, vi si sono opposti lo hanno fatto in nome del principio della
separazione dei poteri, obiettando che i magistrati devono applicare le leggi vigenti e non proporne di proprie:
pochissimi hanno avuto il fegato di andare oltre questa virtuosa petizione di principio e far osservare che il
progetto non rappresenta altro che un'estensione illimitata della legislazione premiale, prevedendo la non
punibilità dei delatori che segnalino, con tutti i nomi e cognomi del caso, passati episodi di corruzione
e la
liquidazione patteggiata delle conseguenti vertenze giudiziarie, come a dire che si auspica che di pubblici
processi
sull'argomento non se ne facciano praticamente più, essendo la soluzione dei casi delegata alle trattative
riservate
tra giudici, delatori e «delati». Il modello è quello della legislazione premiale messa a punto nella lotta
all'eversione armata degli anni '70, legislazione che ha permesso, notoriamente, di reintegrare a tutti gli effetti
nella società i cosiddetti «pentiti» (buona parte dei quali si identificava con i responsabili delle azioni
di
terrorismo più efferate e sanguinose) e di continuare a tenere in carcere o costringere all'esilio chi, pur
avendo
delle responsabilità dirette molto minori, si macchiava della colpa, assai più deprecabile, della
non sottomissione
ideologica. Dei vantaggi che si avranno applicando lo stesso modello alla lotta alla corruzione potranno
giudicare
direttamente i lettori. Ma è poco ma sicuro che per il governo il vantaggio principale sarà quello
di chiudere
l'«anomalia» rappresentata dall'attuale stato di polemica con la magistratura inquirente, anomalia di cui
più volte
hanno avuto occasione di dolersi amaramente il Presidente del Consiglio e i suoi portavoce. E anche per i
giudici
non sarà un vantaggio da poco chiudere uno stato di belligeranza con il governo: in fondo, la
magistratura si è
vista investire dell'attuale potere d'iniziativa autonoma e dello status di referente del consenso popolare soltanto
perché, nella latitanza dei tradizionali poteri forti, si è dovuta accollare una specie di ruolo
supplente che certo
non si confà né alle sue tradizioni ideologiche né alla sua struttura di potere. Per
entrambi, è ora di metterci una
pietra sopra. Altre notizie di qualche interesse? Be', la ripresa degli scontri di piazza. Quella di sabato 10
settembre è anche
la data in cui a Milano una manifestazione, certamente tutt'altro che refrattaria alle provocazioni, di giovani dei
«Centri sociali» (i famosi «leoncavallini») è stata opportunamente intrappolata in una via del centro
e coinvolta
in scontri di grande durezza con polizia e carabinieri, con conseguenti danni alle proprietà e lesioni alle
persone.
Tutti hanno sottolineato, il giorno dopo, le responsabilità dei dimostranti, ma pochi si sono presi la briga
di
evidenziare quelle delle forze dell'ordine: eppure, insieme a non pochi cittadini innocenti, tra cui, sembra,
persino
i passeggeri di un tram, sono stati duramente malmenati almeno due giornalisti (ma del resto, ne hanno riferito,
sulle rispettive testate, solo i due interessati, uno dei quali - sul Corriere, ci sembra - ha arricchito la descrizione
di come le abbia prese con tante dichiarazioni di stima e comprensione per chi gliele ha date da far sembrare
che
stesse chiedendo scusa). Il risultato, come ha simpaticamente dichiarato in serata il Ministro degli Interni,
intervenendo alla locale Festa dell'Unità, è che un non irrilevante problema sociale è
stato ridotto una volta per
tutte a problema di ordine pubblico, e in quel senso sarà, presumibilmente, risolto. E cosa collega
fra loro queste notizie sparse di fine estate? Niente forse, se non l'impressione, vaga ma
irresistibile, che il governo, incapace di affrontare, per via delle tante contraddizioni che già abbiamo
avuto
occasione di analizzare, le grosse questioni della vita economica e sociale, costretto com'è a
barcamenarsi tra
dichiarazioni d'intenti esagerate e smentite sempre più imbarazzate, tra velleità di
ristrutturazione e «riforme»
ambiziose e la necessità di adeguarsi al gioco dei poteri effettivi, stia orientandosi secondo un modello
classico:
quello di lasciare che l'economia si governi da sé e di preoccuparsi soltanto di disciplinare, con gli
strumenti
tradizionalmente adibiti allo scopo, la vita sociale. Una via sulla quale non gli mancheranno i consensi:
non per niente i commenti dei grandi organi di stampa alle
ultime uscite del Presidente del Consiglio (per esempio al recente discorso alla Fiera di Bari) sono nettamente
più
morbidi di quanto non fossero prima dell'estate. E sfido: i grandi organi di stampa sono espressione di quei
gruppi economici che hanno visto con qualche
perplessità l'ascesa al potere di un outsider come il proprietario della Fininvest, ma non
avranno certo niente in
contrario a lasciarlo al suo posto una volta che il medesimo abbia fatto capire di non voler mettere mano a
ciò che
non lo riguarda. In fondo, proprio nella capacità di «stare al suo posto», nei due sensi del termine,
stanno le
speranze di lunga durata governativa di Berlusconi. Ed è proprio sotto questo aspetto, più che
per certe
folcloristiche uscite di stampo nostalgico, che il regime che l'uomo di Arcore e i suoi fidi stanno cercando di
costruire ricorda pericolosamente il fascismo.
|