Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Titoli monchi
Chi si occupa di linguaggio e di pensiero sa che l'uomo procede per
correlazioni, dalla più piccola (tipo "corri da me",
"arriva a Roma", "parte da Milano") a quelle più grandi che, dalla frase più semplice, possono
diventare racconti o
romanzi interi. Alla logica del discorso, in lingue come la nostra, servono non pochi elementi che fungono da
correlatori
- parolette come "di", "a", "da", "in", etc. - deputate a mettere in rapporti vari i pezzi correlati. La maggior parte
delle
nostre comunicazioni - e il fatto di esser comprese o meno - dipende dalla sapiente di distribuzione di questi
elementi.
Che, tuttavia, a volte possono venire a mancare: il "capo della stazione" può diventare il "capostazione",
e così via
risparmiando. In altre parole: certe comunicazioni hanno successo nonostante qualcosa sia rimasto implicito. A
patto che
gli interlocutori condividano un sapere comune. Il titolo originale dell'ultimo film di Gus Van Sant è
To Die For che, nei miei penosi tentativi di traduzione, continua a
presentar misi più o meno come Morire per. Continua, cioè, a mancarmi qualcosa.
Anche al distributore della
versione italiana dev'essere capitato qualcosa del genere. Tanto è vero che il film - fatto linguisticamente
più unico
che raro - è stato proposto con il titolo Da Morire. Si può ridere da morire, ma
si può anche correre da morire, o ci si può vergognare da morire e chissà quant'altre
sono le opzioni a nostra disposizione. Nulla, allora, sembrerebbe garantire quel sapere come sufficiente a far
sì che lo
spettatore supplisca da sé a quanto rimane implicito. In realtà le cose stanno diversamente.
Il film è tutto dedicato a Nicole Kidman (quella di Ore 10: calma piatta di
Noyce) che fa la parte della bellissima americana e sciagurata, che passa anche sul cadavere del marito pur di far
carriera in tv, perché, traducendo Cartesio e Mike Bongiorno, "se non appari in tv, non esisti". Orbene,
è inutile dire
che costei, per fare la parte della bellissima, americana e sciagurata, ha, come si ama dire, il fisico del ruolo:
bionda,
occhio chiaro, visino d'angelo con labbra socchiuse, lunga lunga con gambe lunghe lunghe e sempre più
fuori che
dentro. Il manifesto pubblicitario del film le si affida completamente: c'è il suo mezzobusto mozzafiato
e sotto Da
Morire. Ovvio che, nelle intenzioni di chi vende la merce, il cliente dovrebbe completare la correlazione
monca in un
modo solo: bella da morire. Questa richiesta di intervento per farsi almeno parzialmente il titolo da sé
fa riflettere. Da un lato ci si rende conto che
lo spettatore tabula rasa è ormai dato, sociologicamente, per inesistente. Chi va al cinema e chi va
a vedere quel film e non un altro è stato coltivato a lungo, ben da prima dal momento in cui
si sceglie il film da vedere. Anche volendo non si riesce più a vedere un film di cui
si ignori tutto: televisioni e giornali ti
preparano alla trama ed alle sue implicazioni morali e civili - preselezionate e dettate con lungimiranza politica
-, agli
attori rovistati dentro e fuori dei loro personaggi, ai registi ed alle loro legittimate ideologie. Si è oberati
da
"prossimamente" (oggi "trailers") che durano una vita e che del film ti dicono già tutto il necessario,
spezzoni
anticipati, foto di scena, interviste o polemiche astutamente artificiose. Al cinema ci si arriva già imbottiti.
Tanto che ci
si può permette di vendere la propria merce con un etichetta incompleta. Come dire che quel vasto
processo che
attiene alla "costruzione del pubblico" ha ormai raggiunto un preoccupante livello di raffinatezza. Dall'altro ci
si rende
anche conto che non si compra più semplicemente un film. Si compra un pacchetto di offerte fra cui
c'è anche un
film. Nel caso in questione, a questo film di Gus Van Sant, si aggrega perlomeno un'attrice, una tipologia di
bellezza
da omologare, un manifesto ed un'associazione mentale della forte connotazione valoristica. Che poi il film voglia
costruire l'ennesimo "intelligente atto d'accusa" contro i mass media diventa un fatterello trascurabile.
P. S.: qualche critico che si crede in dovere di essere informato fa notare che Gus Van Sant è un
omosessuale e che,
dunque, si spiega l'insistenza sulla protagonista, mostrata in tutta la sua bellezza ed in tutta la sua profonda e ben
radicata scemenza. Sarebbe come dire che il fatto che Don Abbondio non abbia attentato alla virtù di
Renzo,
dipende dal fatto che il Manzoni era eterosessuale. Chi sa perché al primo tipo di argomentazione si fa
spesso
ricorso, mentre al secondo mai.
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