Rivista Anarchica Online
Sì, no, forse
di AA. VV.
Quarta serie di interventi sul tema voto/astensione/referendum/ecc. Le precedenti serie sono apparse sui
numeri 219, 220 e 221
Gli angeli non portano il conto e l'istituzione si adagia
anche sul profano.
"Ciò che piace a un tale nel suo partito politico,
è la vaghezza dell'ideale. E a quell'altro nel suo, la precisione
degli scopi immediati. Poiché si vedono abitualmente anarchici nei partiti dell'ordine
e organizzatori in quelli dell'anarchia,
suggerisco una riclassificazione. Ognuno verrebbe classificato nel partito che corrisponde alle sue
propensioni. Vi sono creatori, conservatori e distruttori per temperamento. Ogni individuo
sarebbe inserito nel suo vero
partito, che non coincide affatto con quello delle sue parole o dei suoi desideri, ma con quello del suo essere e
dei suoi modi di agire e reagire" (P. Valery)
Dopo aver onorato il sacro rito della citazione, da chi legge non ho niente da esigere sul
piano di ogni interpretazione al
riguardo. Mi preme però socializzare un punto di domanda che mi porta a dare come ricetta, se quanto
più sopra citato,
possa attagliarsi al dibattito in corso su queste pagine. A maggior ragione, se si pensa che questo dibattito in
qualche
modo costituisce, ancora una volta, il classico ghiotto boccone per anarchici strenui difensori della giusta
inamovibilità
dei presupposti fin troppo noti e compagni poco inclini ad una "straniera" concezione del possibilismo per il
proprio agire. Siamo alle prese con un fenomeno ciclico, che si presenta ogni qualvolta tra le file degli
anarchici, in periodi di crisi
(?), da parte di alcuni (?) si propende per il voto, oppure siamo di fronte ad una mutazione genetica dello
"zoccolo"
duro del pensiero anarchico? Tutte le volte che si toccano i nervi del nostro senso civico (perché non
va dimenticato che ciò che sembrerebbe
premere in troppi pezzi del mosaico anarchico è: creare dei bravi, buoni, cittadini anarchici -
in tutto rispetto,
voluto o meno, di un senso giacobino delle cose e dei miti fondanti della rivoluzione americana), le reazioni non
tardano a farsi sentire, anche in maniera precisa e dura, come sarebbe dato di vedere anche dalle reazioni suscitate
dal dibattito in questione al di fuori di queste stesse colonne. Almeno fino a questo momento. Ognuno
dunque, e con diritto, onora i propri dei. Ma con i non "credenti", da sponde evidentemente compatibili con
le sensibilità libertarie, come si mette? Certo che per quanti, in particolar modo dopo gli eventi di
questi ultimi anni, realizzano che oggi da porsi, da punto di
vista del pensiero politico radicale e della pratica/prospettiva autogestionaria - rifacendosi all'anarchismo (sulla
scorta dunque di un presupposto ineludibilmente astensionista) -, sembrerebbero essere ben altre le questioni
più
impellenti o quelle da affrontare perché lasciano intravedere una prospettiva, uno spiraglio, per uscire dal
presente, in
particolar modo da questo presente, la risposta non è facile. La demarcazione insorta
nell'89, un "morigerato" esempio per tutti: segna o no un tempo ed un'occasione di
valutazione per una prospettiva di liberazione sociale possibile? Oppure in virtù di un camaleontico
indifferentismo
politico si può liquidare la fine del "bipolarismo" che abbiamo conosciuto, seguito di un bipolarismo di
altro ordine
(ma comunque sempre quello stabilito da USA e URSS nel governo del mondo e forse destinato dietro il feticcio
del
nuovo ordine mondiale, ad essere sostituito dall'ascesa di nuove potenze)? E sulla chiusura degli anni '80 (che
hanno costituito dei gangli del villaggio globale l'innalzamento e gli incrementi di un
capitalismo di cui solo adesso incominciano a toccare con mano le intenzioni, ed i presupposti del superamento
del
Welfare); sul passaggio dal fordismo al postfordismo; sull'Impero p. v. delle autostrade elettroniche; il ritorno al
nucleare ecc. ecc., niente da dire? Ma, se questo ordine dei problemi si è disposti in un modo o
nell'altro ad archiviare nell'armadio dei misfatti che il
potere puntualmente e ciclicamente tira fuori, paradossalmente ma non troppo, il problema dell'astensionismo
si-astensionismo no, sembra porsi ancora oggi come questione esistenziale. Non sarebbe invece il caso di
chiedersi se
più che nell'oggi può costituire la questione del XXI secolo? Se l'introduzione del suffragio
universale si è rivelata più che una conquista destinata a favorire una reale
partecipazione dei cittadini alla gestione delle istituzioni, un semplice filtro, per selezionare un allargamento delle
classi
dirigenti, oggi, nella parte del mondo industrializzato, la diserzione alle urne è diventata un dato
fisiologico e al di fuori
di esso persistono ancora intere aree del pianeta, non solo attualmente prive di ogni diritto ad esprimere il proprio
consenso o dissenso attraverso lo strumento del voto, ma destinate a non avere mai nessuna voce
in capitolo, sia
all'interno che all'esterno dei paesi che adottano il sistema della democrazia. Una sorte di esclusione planetaria,
che
dopo il più urgente e tragico-crescente fenomeno dei profughi politici e di guerra e delle migrazioni di
massa,
costituisce un dato strutturale che da il nome più giusto al feticcio della democrazia. E qui una
parentesi andrebbe aperta sul fatto che qualsiasi dibattito che si apre, oggi, su qualsivoglia aspetto di
carattere politico-ideologico generale non può dimenticare l'esistenza di una dimensione internazionale
ed
internazionalista, non solo imprescindibile ma di cui, con ogni probabilità, si ha anche bisogno. Ma,
così leggendo le cose, quale senso deve/può avere la riproposizione propagandistica o d'esempio
di un
astensionismo di principio, ideologicamente anarchico? Questo interrogativo, a mio avviso, il dibattito che
"A/Rivista anarchica" ha lanciato, non può eludere, prima di tutto e
prima di ogni cosa. Il passo, breve, ulteriore, è poi quello della costruzione di un discorso politico che
ponga i temi
forti della democrazia politica nella fase dell'assolutismo economico del capitalismo e di una sua critica
radicale-utopica; intorno alle prospettive di organizzazione sociale, autogestionaria e libertaria ed alle forme di
autodeterminazione, al singolare e al plurale, legate ai conflitti attuali ed ai progetti che, eventualmente, possono
definirne i caratteri di cambiamento sociale radicale. In parole povere il problema cruciale è
quello della questione
sociale da risolvere e dello sviluppo delle lotte da favorire, promuovere, contribuire ad organizzare. Si
tratterebbe quindi di sfuggire, per una volta, alla trappola che un costume partecipativo polemico, di inveterato
vizio, vorrebbe tesa unicamente a rimuovere gli ostacoli alla riaffermazione del proprio punto di vista, per arrivare
a
definire una propria visione sovrapposta o di fatto distante anni luce dagli eventi che si producono o che vengono
prodotti al di fuori della propria soggettività politica. E che prenderebbero la parola, a prescindere. La
parola
dell'autoritarismo. Forse pochi potevano immaginare che proprio dopo l'89, la rivolta del Chiapas avrebbe
rispolverato l'idea di rivolta
(mentre quella di Los Angeles viene, da molti presa ad esempio delle rivolte che il potere riesce a contenere;
mentre
quella di rivoluzione d'altra parte ancora si rispolvera nel fantasma della rivoluzione spagnola: Ken Loach
utopia-rivoluzione), candidandosi a durare nel tempo, proprio per la sua "anacronistica" realtà nel mondo
moderno, e
dunque ad arrivare a prefigurare problemi che potrebbero attraversare i decenni a venire, e che sembravano ormai
essere dati per morti e sepolti. Ma proprio l'esempio del Chiapas ci da, forse, ed a prescindere dal merito, i
termini per un altro discorso: la misura
di come contenuti, forme e linguaggi viaggino contemporaneamente nella storia, a seconda non soltanto di
quello che
si vuole ma di quello che si da, nel senso dei rapporti materiali di classe esistenti o che si
vengono a determinare: è
immancabile dunque il riferimento ad una qualche forma di contestualizzazione di qualsiasi discorso o
principio. Perché in effetti ciò che conta, alla fine, è il reale rapporto di forza
con il potere, il metodo che adotta, le
prospettive che si esprimono e si vogliono realizzare. Per fare un esempio, i richiami dell'EZLN
alla democrazia non hanno lo stesso senso che possiamo dargli in altri
contesti: altrettanto la questione della terra (che non assume certamente i caratteri cruenti
dell'appartenenza etnica e
dell'esasperazione identitaria). Il problema dunque non è solo di carattere dei rapporti materiali esistenti
fra le classi,
ma anche di forme e linguaggi che, in ogni caso, richiamano al VALORE che si da alle cose e che nei fatti si
esprime.
E dunque quale può essere il VALORE dell'astensionismo elettorale anarchico? A maggior ragione
OGGI? Da
questo punto di vista la questione si ribalta: dall'astensionismo ideologico si può anche passare alla
considerazione
che, soprattutto il voto non serve alla causa dell'emancipazione. A costo di sembrare
dogmatici qui le
considerazioni da fare non vanno oltre il fatto che storicamente attraverso il voto nessun
cambiamento sociale il
senso egualitario e di conquista delle libertà, nessuna rivoluzione soprattutto nei termini in cui gli
anarchici la
intendono, è stata mai realizzata e portata a compimento. Ma d'altra parte, neanche il marxismo
storicamente, attraverso la dittatura del proletariato e le sue nomenklature è
arrivato a cambiare la società; come neanche la democrazia, nel tempo presente rinvigorita nella sua
proposizione
storico-concettuale, è in grado di offrire altro che prospettive chimeriche fino a riconfermarsi in toto quale
senso
dell'utopia negativa: pace giustizia e libertà
= storia come inganno e tradimento, presente come futuro
tirannico e
vieppiù peggiorativo della esistenza frustrante
: siamo dunque di fronte ad una "scienza" sull'orlo del
fallimento o a
dei simulacri di un futuro di già prevedibile nelle sue gabbie? Un futuro che muove ad apprezzare
le necessità di una sua sopravvivenza senza soluzione di continuità con il passato. Nella
leggenda si vuole: non di rado un tempo o, per meglio dire, nella dimensione della stragrande maggioranza delle
comunità, qualsiasi cosa od evento che sfuggiva alla esperienza diretta portava a guardare con sospetto
tutto ciò che
non proveniva dal proprio mondo. Era difficile immaginare l'esistenza di un mondo a più dimensioni o
di più "mondi". Questo stato di cose è stato stravolto soltanto negli ultimi tre secoli ed in un
lasso di tempo così breve, in rapporto
alla storia dell'"umanità", dai processi politici ed economici della società, che le conseguenze di
un passaggio così
repentino, da una condizione di passaparola a quella del villaggio globale, sono senz'altro sfuggite nella
generalità dei
casi alla consapevolezza diffusa e collettiva. Cionondimeno alcuni passaggi, pur nella loro velocità, non
sono sfuggiti
agli osservatori attenti e critici, che con la "forza" delle idee e dei tentativi di cambiamento hanno tentato, in
contemporanea, di indicare altre rotte, alternative al vuoto che si andava delineando. In pratica si
manifestavano almeno due esigenze che correvano su binari paralleli: superare la soglia di isolamento
materiale e culturale, sempre e comunque preludente a conflitti di ogni ordine e rappresentata dalla conoscenza
del
mondo soltanto attraverso l'esperienza diretta; e il ribaltamento dei modelli di organizzazione sociale e della
quotidianità egemonizzati dalle "rivoluzioni" introdotte in particolare dal capitalismo e dalla formazione
dello Stato.
Ciò non fu dovuto tutto o comunque al caso, ma fu anche il prodotto dell'insorgere del valore di una
soggettività
umana. Una soggettività di carattere universalistico che può implodere, con un ritorno al
passato anche se sotto altre
forme. È questa una questione che si potrà anche risolvere ideologicamente ma verrebbe la
pena, intanto, di ritornare a
considerare che quel che modifica l'esistente non è tanto - e per l'appunto - il voto, ma i FATTI. Se
tale questione può essere ancora presa in considerazione allora varrebbe la pena di superare la falsa, per
certi
versi, alternativa, fornitaci dal potere sull'importanza del voto e della sua sacralità - per restituire invece
alla proposta
di astensionista la sua intima connessione originaria basilare in un'epoca in cui nella maggior parte delle
democrazie
occidentali la partecipazione alle tornate elettorali è inversamente proporzionale al consumismo dei beni
e delle merci:
non ammettere l'esistenza dell'opzione elettoralistica (assumendola come contraddizione tra le contraddizioni,
facendo dei conti di interlocuzione e con interlocutori che votano) significa dargli un valore assoluto, talmente
preponderante rispetto alle reali possibilità che il potere ha di controllare e manipolare il consenso (non
ultimo
l'esempio della fallacia dei sondaggi elettorali) da contribuire a farlo assumere come dato genetico, a dargli una
sacralità che non ha. Ma paradossalmente, a questo punto, voglio introdurre un elemento discordante
con il discorso portato avanti: per un
attimo ragioniamo in senso rovesciato: per un attimo occorrerebbe decontestualizzare la questione astensionismo
si-astensionismo no. A ben vedere, all'astensionismo tout court non corrisponderebbe una volontà
anarchica di
emancipazione sociale e volendo andare oltre, parafrasando, si potrebbe dire che: se tutti gli anarchici si
presuppone
siano astensionisti, nessuno si sognerebbe di pensare che tutti gli astensionisti siano anarchici. Troppo facile.
Scontato. Perché le motivazioni originarie dell'astensionismo anarchico sono ben presenti, ma la
questione primaria - politica -
è ben altra: è la questione del senso dei valori e delle gerarchie, la questione della rappresentanza
e del rapporto tra
maggioranza e minoranza, minoranze e maggioranza non solo come esclusivo problema dell'ambito istituzionale,
ma
della vita sociale in genere, anche della controsocietà e dei movimenti antagonisti e di opposizione sociale
e di rivolta,
dell'associazione rivoluzionaria, delle stesse organizzazioni anarchiche e libertarie. Queste mi sembrano le
"bombe"
che bisognerebbe far esplodere, per un'azione che superi il semplice dato del clamore, suscitato o
meno. Sarà dunque il caso di continuare a destrutturare i luoghi del potere; far toccare
con mano, per quanto si rende
possibile, ad altri il suo non-essere luogo, che può diventare tale unicamente in
considerazione del fatto che è perché
non lo vogliamo scegliere in quanto luogo; lasciare intravedere ad altri le nostre costruzioni che superano
l'imminente
per un bisogno di affermazione profonda; lasciare intravedere la nostra indisponibilità ad essere intruppati
in alcuna
istituzione che pieghi la coscienza di sé e dell'alterità od incanali l'indicibile, che non è
dicibile. È anche per questo che non ho mai votato. E in nessun caso. Ma non è quello che
può importare. Ciò che importa è
non dimenticare il senso e la valenza di una pratica dell'azione diretta e l'esempio che da essa ne consegue per una
rivoluzione dell'immaginario individuale e collettivo: oltre ciò non resta che l'occultismo per rimanere
"al di qua della
soglia tra il Bene e il Male". Oppure una volta di pensiero autoreferenziale su cui inciampa il piede dell'azione,
in uno
sventurato percorso in cui né l'affinamento professionistico della critica anarchica né l'attitudine
ad elevarsi al di
sopra della vita degli uomini e delle donne, possono salvare/salvarci dall'alienazione del/dal mondo. Ma a
chi, in particolare in questa fase dovesse sforzarsi di leggere con un minimo di disincanto gli eventi del presente,
di questo presente, bisogna fornire contenuti, motivare ancora e meglio le ragioni di una proposta condivisibile,
coincidente con la rivoluzione comune dei problemi individuali e sociali in maniera così laconica, a cui
non riusciamo a
sfuggire, costituiscono un problema comune. È evidente che sul piano dei contenuti, da meglio
motivare, ci si riferisce a tutto quel movimento di pensiero, azione,
di tentativi e momenti di rottura rivoluzionaria: sconvolgimenti politici e culturali, di arti, espressioni, pratiche
e
comportamenti che hanno costituito il crogiolo di quanto negli ultimi secoli, decenni, si era mosso in direzione
in ogni
caso alternativa ad un modello di organizzazione sociale dato. Al punto da costituire, per tante (e quante?)
generazioni che si sono susseguite, l'humus in cui poter trovare come già data nelle forme, nei
comportamenti, nei
linguaggi una diversa esperienza diretta del mondo. È questa UNA rivoluzione. Ma è proprio
questa dimensione, che senza che ancora ce ne rendiamo pienamente conto, è andata in crisi (virtuale o
di immaginario?) fino a ritrovarla letteralmente in frantumi a partire dalla caduta del muro di Berlino, o forse,
ancora
prima, con la sconfitta della Rivoluzione Spagnola. Non c'è lo spazio in questa sede per ragionare,
con cognizione di causa, a quando questa crisi, nella sua interezza e
nelle sue interfacce, si può intanto datare o far risalire, né basta registrare quanto, negli ambiti
più vari, si annaspi nel
tentare di mantenere ciò che di positivo si è finora espresso e di ridefinire nuove idee concetti del
mutamento, di
nuove soggettività. Storicamente l'attitudine critica del pensiero e dell'azione riusciva a rendere
pregnante la possibilità del cambiamento
grazie all'attenzione che si riversava sui mutamenti anche, se non soprattutto, culturali dell'epoca, con i suoi
indubbi
risultati di contaminazione reciproca e di relazione che arricchivano, arricchivano
Oggi non solo questa attitudine
pare sia venuta meno, ma addirittura troppi sono i segnali di oscillazione tra un tentativo di ridefinizione
pragmatica o
idealistica dell'esistenza (sotto l'egemonia delle culture ancora dominanti sia di "destra" che di "sinistra") o di
prospettare una - neanche tanto - impacciata prospettiva fondata sulla "verità". A questo ultimo caso mi
pare non
sfuggano neanche tutti coloro che si propongono in molte delle proprie espressioni ancora in una versione
duale
rispetto alla realtà, mentre da auspicare sarebbe forse un rapporto invece plurale nei confronti delle
realtà. Comprovante, anche nel caso del dibattito in questione sull'astensionismo, l'attitudine
prevalente ad intervenire
motivando le proprie ragioni, quali che siano se a favore o contro, partendo da una ben consolidata concezione
dell'anarchismo per ritornare a proporla in un ragionamento che - inteso a senso unico - si pone infine solo il
problema di definire l'anarchismo stesso a seconda della propria visione anziché, ribaltare dialetticamente
il
ragionamento partendo dal fatto che la questione in sé, come ogni questione, se si pone può
sottolineare dei problemi
che in quanto tali si possono affrontare nella loro dinamicità, potendo anche mettere in discussione gli
assunti da cui
partiamo od arricchirli o quant'altro. Neanche queste lunghe note saranno riuscite a sfuggire all'equivoco in
atto (ma si potrebbe fare di peggio). Sul
piano, però, ancora induttivo mi premerebbe poi dire, prima di arrivare alle considerazioni
di ordine "politico", che
la questione dell'astensionismo per come ancora oggi continua a riproporsi all'interno del movimento anarchico,
a
mio avviso rinvia comunque a dei nodi irrisolti, e forse irrisolvibili, che l'anarchismo storicamente si porta dietro
non
solo riguardo ad altre questioni che da sempre costituiscono motivo di dibattito e scontri accesi ad esempio anche
sul
piano delle alleanze politiche e sociali, dell'organizzazione anarchica, del sindacalismo e dello sperimentalismo
nel
campo dell'autogestione, nella proposta dell'autogoverno come prospettiva nel qui ed ora ecc. E, per quanto
aspri toni e roventi polemiche tutto ciò da sempre susciti, al contrario, forse è un bene che tali
nodi si
diano risolti una volta per tutte. Ma per l'azione trasformatrice, presunzione vuole che occorra ben altro.
Bisognerà organizzare le proprie differenze,
e quelle altrui, a partire da ora. Con quanti/e non intendono e non vogliono governare il mondo, tanto meno un
cielo
da scoprire appena dietro l'angolo.
Antonio De Rose (Cosenza)
Manet immota fides
Cari compagni, non avevo intenzione di partecipare al dibattito sulle elezioni, ma dopo aver letto l'ultimo
numero di "A"
e aver contato le tesi possibilista ho cambiato idea e intervengo per spostare un pochino l'ago della bilancia (spero
che
nessuno interpreti ciò come un desiderio inconscio di esprimere un voto). Forse il titolo del mio
intervento farà sorridere qualcuno ma è quello del famoso articolo di Luigi Galleani pubblicato
nel 1889 sul numero unico I Morti che gli anarchici coatti editarono per "protestare" contro le
candidature-protesta,
quello in cui tra l'altro si diceva: "Così alcuni sono diventati ragionevoli e pratici riducendo il programma,
evirando la
fede, all'ideale circonciso
". Non ho mai votato in vita mia (referendum compresi) e penso che non lo
farò mai (chiedo scusa per il mio
velleitarismo giovanile, ma ho da poco superato i quarant'anni). Mi rendo perfettamente conto che noi anarchici
siamo pieni di tabù, oltre al rifiuto di ogni delega abbiamo anche la mania dell'antimilitarismo (vi
ricordate la guerra
del golfo e quanti anarchici volevano vestirsi da crociati per andare a combattere l'Islam - anche se a onor del vero
si vide anche qualche feroce Saladino libertario che, corano in spalla, sarebbe partito contro gli infedeli), l'odio
per la
polizia (a proposito, non è un pettegolezzo, ma da qualche tempo gira la voce che delle guardie carcerarie
si siano
iscritte ad un sindacato libertario), ecc. Mi rendo conto che gli anarchici debbano sempre épater le
bourgeois (e l'anarchiste) e tutto ciò faccia molto "eresia"
e chiedo scusa ai compagni di essere rimasto così dogmatico al punto di non voler aver nessun dialogo
democratico
con sbirri, boia, fascisti (nemmeno con quelli in T-shirt), stalinisti, ecc. da continuare ad odiare senza ritegno ogni
divisa (compreso chi la indossa) e di non riuscire proprio a votare (anche se non ci ho mai provato nemmeno ad
occhi chiusi e trattenendo il respiro). Pensate che pur avendo due figli non ho mai partecipato all'elezione di un
rappresentante di classe. Qualcuno senz'altro dirà: "Esagerato! e la democrazia diretta? non è forse
una grande
vittoria che finalmente tutti insieme presidi genitori e insegnanti decidano unitariamente quanti rotoli di carta
igienica
servono settimanalmente anche se i programmi li decide il ministero
va bé un po' di gradualismo". A
questo punto credo che se qualcuno fra noi pensa che le tesi di Merlino sono più che mai attuali abbia
almeno il
coraggio, come fece lui, di decretare la fine dell'anarchismo; asserzione a cui potremmo rispondere con Galleani:
"anarchici in Italia ve ne sono ancora!". Pur trovando interessante e stimolante il pensiero degli
anarchici-liberal americani penso che Lysander Spooner,
almeno in fatto di elezioni, abbia detto una grossa cazzata. Un soldato che va in guerra e uccide per difendersi
pur
non credendo nella guerra stessa solitamente è obbligato ad andarci pena la fucilazione come disertore
mentre si dà il
caso che non è ancora stato fucilato nessuno perché non ha votato. Non credo nei referendum
pilotati dai partiti in cui si illude la gente di avere la possibilità di decidere (queste cose le
ha già dette Bakunin più di cento anni fa ne "Gli orsi di Berna e l'orso di Pietroburgo" in cui
venivano criticati
radicalmente i metodi decisionali della repubblica elvetica una delle democrazie più avanzate dell'epoca;
la lettura di
questo pamphlet penso che possa distogliere chiunque dall'idea di associare il suo nome a mene
elettoralistiche). Riconosco che la nostra vita quotidiana è piena di compromessi. Pensate che io non
solo ho la patente e la carta di
identità ma ogni volta che gli sbirri me la chiedono gliela mostro senza mai sparargli addosso come fece
Octave
Garnier della banda Bonnot (anche se, lo confesso, in quei frangenti mi viene sempre in mente quell'episodio).
Il
problema che dovremmo porci onestamente è qual è il limite dei compromessi possibili oltre i
quali non vi è più
anarchismo (lo so che il problema è spinoso poiché il limite è soggettivo ma non vorrei,
di compromesso, in
compromesso, oltre ad anarchici assessori ritrovarmi poi con anarchici giudici, generali, boia e via
dicendo). Non credo alle liste civiche di onesti cittadini timorati di dio che pagano le tasse e mandano i figli
a messa e
soprattutto penso che, pur considerando la democrazia un male minore nei confronti del totalitarismo, non bisogna
mai dimenticare che il nostro nemico è sempre lo stato (democratico o no) e che sia nostro dovere
combatterlo con
tutti i mezzi (legali o no). Io intendo l'anarchismo come qualcosa di radicalmente "altro" dalle istituzioni e
voglio gustare fino in fondo il piacere
di essere considerato sempre un sovversivo. Vogliamo fare delle proposte in positivo e cercare di uscire dalla
logica
nichilista della negazione pura? D'accordo, ma solo a patto di rimanere sempre al di fuori delle istituzioni, dello
stato
e delle sue regole, delle sue leggi, delle sue farse. Visto che oggi non ci sono più "Morti" a svegliare i vivi,
per favore,
compagni, parliamo di anarchia. Tobia Imperato (Torino)
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