Rivista Anarchica Online
Colpe e colpevoli
di Carlo Oliva
Le imprese pensano ai profitti (e li tengono per sè). A sinistra c'è chi si scandalizza
Non so se vi siate scandalizzati anche voi apprendendo dai giornali, qualche tempo fa,
che, stando agli ultimi dati Istat, in Italia siamo giunti ai "livelli storicamente più alti del
rapporto fra profitti e valore aggiunto", che, come ho appreso per l'occasione, è l'indice
che "misura la redditività lorda delle imprese", come a dire, all'ingrosso, i loro guadagni.
La notizia in sè può non sembrare particolarmente scandalosa, ma lo diventa se si riflette
sul fatto che tale invidiabile performance non è dovuta, a quanto pare, all'eccellenza
produttiva dell'industria nazionale, ma alla debolezza della lira (che ha permesso alle
imprese di "beneficiare dell'andamento dell'export"), alla simpatica circostanza che nel
nostro paese il costo del lavoro è "molto contenuto, e in alcuni frangenti addirittura
calante" e a una politica dei prezzi che non sembra in particolare sintonia con la
"moderazione" che regola la politica dei salari. Tutto un insieme di fattori che nel '94
ha permesso di aumentare la redditività d'impresa
dal 37,8 al 40,4% (mentre il costo per unità di prodotto non aumentava più dello 0,4%) e
di portarla, nei primi tre trimestri del '95, addirittura al 47,8%, che rappresenta appunto il
record "storico" di cui sopra. In sostanza, a quanto mi è sembrato di
capire, le imprese hanno aumentato i loro guadagni
perchè, di fronte a un aumento dei costi alla produzione assai contenuto, se non quasi
irrisorio, si sono affrettate, non appena la congiuntura lo ha reso possibile, ad alzare
prezzi e tariffe. E visto che l'aumento di prezzi e tariffe scatena l'inflazione e che i salari,
per i fin troppo noti motivi, non sono da tempo più in grado di recuperare sulla
medesima, è evidente che il processo non significa altro che un ulteriore trasferimento di
ricchezze dalle tasche dei lavoratori a quelle degli imprenditori, che poi, in sostanza, sono
quelli che una volta si chiamavano, con un termine forse un po' rozzo, ma sicuramente
espressivo, i padroni. Che la procedura non sia necessariamente benefica sul piano
dell'interesse generale lo si può dedurre dal fatto che è stata deplorata, abbastanza
energicamente, persino da una figura che agli interessi padronali di solito non è
insensibile, come il governatore della Banca d'Italia. Ora, il dottor Enrico
Giovannini, responsabile del dipartimento contabilità nazionale e
analisi economica dell'Istat, non ha mancato di affermare che la sua organizzazione "non
fornisce previsioni nè esprime giudizi", ma ci ha garantito lo stesso che "il peggio è
passato" e che "l'arresto congiunturale dei prezzi alla produzione in ottobre e novembre"
si rifletterà "inevitabilmente sull'inflazione nei prossimi mesi". Speriamo in bene, anche
se l'affermazione è alquanto in contrasto con l'analisi di cui sopra, stando alla quale il
rapporto tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo non si direbbe proprio così
lineare. Quanto ai giudizi, ciascuno si è sentito libero di esprimere i suoi e le imprese, in
generale, sono state bacchettate a dovere, e non solo da sinistra. Se l'Unità ha intitolato il
suo pezzo in merito alle "colpe delle imprese", il Corriere della
sera, ricordando la presa
di posizione del governatore della banca d'Italia, ha scritto senza mezzi termini (il 24
gennaio) che esse "hanno badato più ai loro guadagni che all'andamento dell'inflazione" e
gli altri organi della grande stampa non sono stati da meno. Persino il senatore Agnelli,
interpellato a Bruxelles, ha dichiarato che il "nemico numero uno è l'inflazione", dal che
si dedurrebbe la necessità di fare qualcosa per fermarla, e se è vero che quando gli hanno
chiesto se gli industriali avessero capito che "la politica dei redditi include anche i profitti
di impresa" (come a dire che non li possono alzare a piacer loro) ha risposto con un
diplomatico "credo che lo abbiano compreso, ma non è detto che approvino", è anche
vero che più di tanto da lui non ci si poteva aspettare. Tutti d'accordo,
quindi, almeno per una volta. Salvo che per un minimo particolare,
talmente minimo che mi vergogno persino di farlo notare. Vedete, io a scandalizzarmi
per le colpe delle imprese, per quanto ci abbia sinceramente provato, non sono riuscito
più di tanto. Che le imprese abbiano pensato soprattutto ai propri profitti, incuranti del
benessere generale del paese, mi sembra fatalmente e assolutamente normale. In fondo,
incamerare quanto più profitto possibile è il loro obiettivo istituzionale, quello di
occuparsi del benessere del paese no. Sì, c'è chi è convinto che questi due fini possano,
in qualche modo, coesistere, o debbano coesistere, o addirittura coincidano, ma proprio
questo è il punto. Le imprese sono un soggetto sociale tra altri soggetti sociali e non è
scritto proprio da nessuna parte, tranne che nella volontà di sopraffazione che
storicamente caratterizza la borghesia imprenditoriale, che il loro interesse si identifichi
con quello generale. Non vorrei essere considerato anche dai lettori di "A" una specie di
relitto dei secoli bui, aggrappato come una tellina alla scoglio di una visione del mondo
ormai sorpassata come quella di classe, ma - porca l'oca! - non pensate anche voi che il
compito di occuparsi del benessere di tutti, che significa, inevitabilmente, proteggere i
deboli dalle pretese giugulatorie dei prepotenti, dovrebbe spettare a qualcun altro che non
ai prepotenti in questione? Il guaio è che, a quanto sembra, questo
compito oggi non interessa proprio a nessuno.
Tutti adorano il mercato, tutti considerano perso il giorno in cui non abbiano avuto
l'occasione di affermare la propria fede nel liberismo e, soprattutto, tutti credono
fermissimamente nell'"economia", attribuendo alle sue pretese "leggi" un'oggettività e
un'ineluttabilità che ormai gli specialisti non riconoscono nemmeno più a quelle della
fisica. E tutti evidentemente sono convinti che il sistema economico in cui viviamo sia il
migliore dei sistemi possibili, anzi, sia l'unico sistema possibile. Quando poi emerge una
prevedibilissima contraddizione, quando si scopre, sorpresa, che nonostante tutto i profitti
di impresa non vanno a beneficio di altri se non delle imprese (e dei loro proprietari) la si
può sempre sanare ricorrendo a una categoria morale che con le leggi dell'economia ha
davvero pochino a che fare. Forse la sinistra, invece di denunciare le colpe di chi fa
soltanto il proprio mestiere, potrebbe più utilmente riflettere sulla propria clamorosa
incapacità di fare il suo.
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