Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 225
marzo 1996


Rivista Anarchica Online

Colpe e colpevoli
di Carlo Oliva

Le imprese pensano ai profitti (e li tengono per sè). A sinistra c'è chi si scandalizza

Non so se vi siate scandalizzati anche voi apprendendo dai giornali, qualche tempo fa, che, stando agli ultimi dati Istat, in Italia siamo giunti ai "livelli storicamente più alti del rapporto fra profitti e valore aggiunto", che, come ho appreso per l'occasione, è l'indice che "misura la redditività lorda delle imprese", come a dire, all'ingrosso, i loro guadagni. La notizia in sè può non sembrare particolarmente scandalosa, ma lo diventa se si riflette sul fatto che tale invidiabile performance non è dovuta, a quanto pare, all'eccellenza produttiva dell'industria nazionale, ma alla debolezza della lira (che ha permesso alle imprese di "beneficiare dell'andamento dell'export"), alla simpatica circostanza che nel nostro paese il costo del lavoro è "molto contenuto, e in alcuni frangenti addirittura calante" e a una politica dei prezzi che non sembra in particolare sintonia con la "moderazione" che regola la politica dei salari.
Tutto un insieme di fattori che nel '94 ha permesso di aumentare la redditività d'impresa dal 37,8 al 40,4% (mentre il costo per unità di prodotto non aumentava più dello 0,4%) e di portarla, nei primi tre trimestri del '95, addirittura al 47,8%, che rappresenta appunto il record "storico" di cui sopra.
In sostanza, a quanto mi è sembrato di capire, le imprese hanno aumentato i loro guadagni perchè, di fronte a un aumento dei costi alla produzione assai contenuto, se non quasi irrisorio, si sono affrettate, non appena la congiuntura lo ha reso possibile, ad alzare prezzi e tariffe. E visto che l'aumento di prezzi e tariffe scatena l'inflazione e che i salari, per i fin troppo noti motivi, non sono da tempo più in grado di recuperare sulla medesima, è evidente che il processo non significa altro che un ulteriore trasferimento di ricchezze dalle tasche dei lavoratori a quelle degli imprenditori, che poi, in sostanza, sono quelli che una volta si chiamavano, con un termine forse un po' rozzo, ma sicuramente espressivo, i padroni. Che la procedura non sia necessariamente benefica sul piano dell'interesse generale lo si può dedurre dal fatto che è stata deplorata, abbastanza energicamente, persino da una figura che agli interessi padronali di solito non è insensibile, come il governatore della Banca d'Italia.
Ora, il dottor Enrico Giovannini, responsabile del dipartimento contabilità nazionale e analisi economica dell'Istat, non ha mancato di affermare che la sua organizzazione "non fornisce previsioni nè esprime giudizi", ma ci ha garantito lo stesso che "il peggio è passato" e che "l'arresto congiunturale dei prezzi alla produzione in ottobre e novembre" si rifletterà "inevitabilmente sull'inflazione nei prossimi mesi". Speriamo in bene, anche se l'affermazione è alquanto in contrasto con l'analisi di cui sopra, stando alla quale il rapporto tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo non si direbbe proprio così lineare. Quanto ai giudizi, ciascuno si è sentito libero di esprimere i suoi e le imprese, in generale, sono state bacchettate a dovere, e non solo da sinistra. Se l'Unità ha intitolato il suo pezzo in merito alle "colpe delle imprese", il Corriere della sera, ricordando la presa di posizione del governatore della banca d'Italia, ha scritto senza mezzi termini (il 24 gennaio) che esse "hanno badato più ai loro guadagni che all'andamento dell'inflazione" e gli altri organi della grande stampa non sono stati da meno. Persino il senatore Agnelli, interpellato a Bruxelles, ha dichiarato che il "nemico numero uno è l'inflazione", dal che si dedurrebbe la necessità di fare qualcosa per fermarla, e se è vero che quando gli hanno chiesto se gli industriali avessero capito che "la politica dei redditi include anche i profitti di impresa" (come a dire che non li possono alzare a piacer loro) ha risposto con un diplomatico "credo che lo abbiano compreso, ma non è detto che approvino", è anche vero che più di tanto da lui non ci si poteva aspettare.
Tutti d'accordo, quindi, almeno per una volta. Salvo che per un minimo particolare, talmente minimo che mi vergogno persino di farlo notare. Vedete, io a scandalizzarmi per le colpe delle imprese, per quanto ci abbia sinceramente provato, non sono riuscito più di tanto. Che le imprese abbiano pensato soprattutto ai propri profitti, incuranti del benessere generale del paese, mi sembra fatalmente e assolutamente normale. In fondo, incamerare quanto più profitto possibile è il loro obiettivo istituzionale, quello di occuparsi del benessere del paese no. Sì, c'è chi è convinto che questi due fini possano, in qualche modo, coesistere, o debbano coesistere, o addirittura coincidano, ma proprio questo è il punto. Le imprese sono un soggetto sociale tra altri soggetti sociali e non è scritto proprio da nessuna parte, tranne che nella volontà di sopraffazione che storicamente caratterizza la borghesia imprenditoriale, che il loro interesse si identifichi con quello generale. Non vorrei essere considerato anche dai lettori di "A" una specie di relitto dei secoli bui, aggrappato come una tellina alla scoglio di una visione del mondo ormai sorpassata come quella di classe, ma - porca l'oca! - non pensate anche voi che il compito di occuparsi del benessere di tutti, che significa, inevitabilmente, proteggere i deboli dalle pretese giugulatorie dei prepotenti, dovrebbe spettare a qualcun altro che non ai prepotenti in questione?
Il guaio è che, a quanto sembra, questo compito oggi non interessa proprio a nessuno. Tutti adorano il mercato, tutti considerano perso il giorno in cui non abbiano avuto l'occasione di affermare la propria fede nel liberismo e, soprattutto, tutti credono fermissimamente nell'"economia", attribuendo alle sue pretese "leggi" un'oggettività e un'ineluttabilità che ormai gli specialisti non riconoscono nemmeno più a quelle della fisica. E tutti evidentemente sono convinti che il sistema economico in cui viviamo sia il migliore dei sistemi possibili, anzi, sia l'unico sistema possibile. Quando poi emerge una prevedibilissima contraddizione, quando si scopre, sorpresa, che nonostante tutto i profitti di impresa non vanno a beneficio di altri se non delle imprese (e dei loro proprietari) la si può sempre sanare ricorrendo a una categoria morale che con le leggi dell'economia ha davvero pochino a che fare. Forse la sinistra, invece di denunciare le colpe di chi fa soltanto il proprio mestiere, potrebbe più utilmente riflettere sulla propria clamorosa incapacità di fare il suo.