Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
L'ingegneria inversa dello sfascio cubano
Nei confronti di tutti gli elementi di una narrazione, a seconda dei presupposti nostri di
destinatari della narrazione medesima, possiamo assumere due atteggiamenti fra loro
immediatamente alternativi e soltanto poi, avendoci tempo e voglia, complementari.
Poniamo il caso che compaia una ragazzina vestita alla marinaretta: possiamo, sia
accettarla come tale e constatare, semplicemente, cosa c'entri con il racconto, e sia
chiederci, perchè sia vestita così com'è vestita. Così per tutto il resto. E' questione di
abitudine, di cultura, di curiosità. Se uno si accende una sigaretta, di solito non ci
chiediamo perchè lo fa, ma se si infila in tasca un revolver, di solito si. In Guantanamera
di Tomas Gutierrez Alea e Juan Carlos Tabio ci sono tutti i presupposti perchè, nei
confronti di molti degli elementi che compongono la struttura narrativa, si assuma
volentieri il secondo atteggiamento piuttosto che il primo. Si racconta, infatti, di un paese
in cui, per quella stessa strada sui bordi della quale stazionano prostitute, si compra e si
vende in dollari e non nella moneta locale; nei bar non c'è niente da mangiare e
pochissimo da bere, ma, in compenso, qua e là sono sorte trattorie clandestine; le
trasmissioni radiofoniche inneggiano ai successi del governo in economia; si utilizzano
imprese statali (agenzie funebri, nel caso specifico) per traffici clandestini; autisti,
ferrovieri e casellanti non fanno il loro dovere e, dunque, non a caso i trasporti pubblici
non funzionano e non a caso i camionisti, fra i quali si può trovare anche un laureato in
ingegneria, si fanno pagare pedaggi da viaggiatori fiduciosi e rassegnati; qualsiasi
riparazione meccanica è un problema; fra i quadri dirigenziali, i cui figli scappano negli
Stati Uniti d'America, non regna l'accordo nè la voglia di cooperare; non c'è muro che
non sia scrostato e sul comunismo ci si ride sopra. Buona parte di quei presupposti che
innescano la curiosità è costituita dal fatto che questo paese non è il nostro e neppure uno
qualsiasi, ma Cuba, repubblica socialista dal 1959. E' così che le pieghe di una narrazione
diventano piaghe in un quadro sintomatologico. Richard Dawkins, in River Out of Eden.
A Darwinian Views of Life, 1995, parla di ingegneria inversa a proposito di
quell'atteggiamento di chi, una volta di fronte all'oggetto ignoto, cerca di ricostruire la
genesi con ipotesi funzionaliste che, spesso, servono semplicemente a consolarci
dell'inesorabile indifferenza di ciò che ci circonda. L'ingegneria inversa del quadro
sintomatologico cubana, almeno quella profferta in Guantanamera a ritmo di mambo,
porta alla luce il caposaldo argomentativo di ogni Borghesia Incallita e di ogni
Reazionario-che-l'aveva-sempre-detto: il razionalismo ha minato le fondamenta del
sogno cubano, l'uomo è una Bestia presuntuosa e i comunisti qualcosina di meno ancora.
Tutti, allora, festeggiando Guantanamera, canzone d'amore che loda chi si dà e che
imbroda chi si tira indietro, pretendono di mutare il cuore caliente del suo popolo in un
coeur en hiver dei Caraibi. L'eros ristretto e conculcato nelle sahariane post-rivoluzionarie porta alla tomba la burocrazia
e lo sfascio del socialismo cubano sembra
più ascrivibile ad un sottile e velenoso vittorianesimo di ritorno che non alla forma
autoritaria di un potere che non è stato capace di far condividere valori longevi. La struttura a movie-road
alleggerisce l'analisi e dona spensieratezza alla catena di amare
conclusioni; chi narra si compiace di non essere compiacente e può sbandierare la propria
presenza in quel medesimo quadro che dipinge come un atto di coraggio; il pubblico è
occidentale e disilluso quanto basta per apprezzare. Che l'America sia a un tiro di
schioppo e che ne esca linda come non mai, tuttavia, dovrebbe indurre a mesta
ponderazione: qualche sparo, a dire il vero, sembra indirizzato sulla Croce Rossa, ma il
fatto che l'identità del bersaglio non sia chiara ancora per tutti, lascia una patina di nobiltà
sul gesto.
P.S.: se fossi stato in Fidel Castro non sarei andato a vederlo (visto che devono essere
lontani i tempi in cui, per la sola sceneggiatura, avrebbe mandato ai lavori forzati i due
autori). Poeticamente iettatoria, infatti, una voce fuori campo narra una leggenda in cui si
ringrazia caldamente un dio inventore della mortalità per porre rimedio al noiosissimo
governo degli anziani. I giovani, così - come la marinaretta stile vecchia Inghilterra che
appare perlopiù nei momenti funerari del film -, possono diventare piccole Parche
indaffarate a recidere vite, incuranti se di pilastri del regime o, forse, sospettosamente
accanite proprio nei loro confronti.
|