Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 225
marzo 1996


Rivista Anarchica Online

Quel nonno in Patagonia
di Elena Petrassi

Da bambina credevo che esistesse un paradiso per gli oggetti perduti e per quelli troppo vecchi che venivano buttati. Quando accadeva una cosa o l'altra proprio non me ne preoccupavo, tanto li avrei ritrovati. Così con noncuranza potei salutare le scarpe blu con le fibbie d'argento che erano ridotte a brandelli, il giorno in cui le buttai, o quelle con gli «occhi» e il cinturino che erano piccole e troppo malmesse per poter passare ai piedi del fratellino. Né mi turbava la scomparsa di giocattoli amati o dei libri riletti tante di quelle volte da averne scollato le pagine. Prima o poi sarebbero riapparsi perché tutto aveva il suo posto nell'universo bambino che abitavo, i morti erano solo invisibili perche giocavano a nascondersi e nessuno era veramente cattivo, di certo non il lupo di Cappuccetto Rosso.
Niente durante l'infanzia aveva il sapore amaro del definitivo, dell'immutabile.I mondi erano molteplici e paralleli, nascosti l'uno nell'altro come le bambole di legno che aveva a casa la mia compaga di banco. Niente andava perduto perché la memoria dei bambini è una distesa infinita di infiniti paesaggi. E niente è andato perduto nella memoria di Laura Pariani. Ho aperto il suo nuovo libro di racconti Il pettine (Sellerio editore - Palermo 1995, pp. 159, L. 15.000) con una certa trepidazione perché alcune anticipazioni erano arrivate da amici che lo stavano leggendo o che lo avevano appena finito. Le aspettative non sono andate deluse, ho chiuso il libro solo quando ho finito di leggerlo, ho condiviso con le parole di Laura un'intera giornata, tornando a rileggere con voluttà interi brani che mi avevano colpita e affascinata.
Subito, all'inizio, una bambina ribelle e guardinga scruta lo straccivendolo passare e si chiede cosa ci sia nascosto nei sacchi informi accatastati sul suo carrettino, perché «la bambina sente oscuramente che esistono altri mondi e desidera fuggire dal suo che le sta troppo stretto, così pieno di divieti com'é».
La bambina che lega l'uno all'altro i racconti a volte assume la voce adulta delle narratrice, ma quasi sempre continua ad avvolgere il mondo con lo sguardo incantato dell'infanzia, nel quale non c'é distacco dalle cose. E questa infanzia mai pienamente rivelata ci conduce dapprima a un'infanzia lontana, perduta all'incirca tre secoli fa. Così incontriamo una donna assassinata dalla soldataglia francese, la figlioletta di lei che piange senza parole, un uomo che perde il senno e costringe quella figlia in abiti maschili perché non le accada quel che è successo alla madre. Cure di padre, anche se la bellezza dell'adolescente sarà una tentazione impossibile da resistere, voce di figlia e ribellione di donna che il maschio padrone censura con il taglio, non simbolico, della lingua.
I personaggi della Pariani non sono creature di carta, hanno fame sete, sonno e forti desideri sentono la passione possederli e vi si abbandonano donne o uomini che siano e di queste passioni così umane, l'autrice sa rendere conto con una lingua fresca che è prossima alla poesia «E lei aveva sentito i raggi delle stelle affondarle nel ventre». Parole poetiche che di tanto in tanto si staccano dalla ricchezza della narrazione per colpirci come frecce al centro del nostro essere. Chi se non un poeta potrebbe scrivere di «una tristezza d'acqua»?
Il pettine che da il titolo alla raccolta, oltre che al primo racconto, è il simbolo della ribellione, la cosa che «A guardarlo, avvertivo nel mio corpo un sentimento di vagabondaggi che mi distraeva dai sette spiriti delle mie disgrazie».
Un'altra storia, un'altra bambina cui «la notte era piombata addosso con tutto il suo peso di buio e di stelle». E il cielo le era davvero quasi caduto sulla testa mentre raccoglieva, da sola, patate in un campo. La Guerìna si rasserena solo sentendo stretta tra le sue, la mano dell'aviatore che è morto per non ucciderla, quella mano che è «la cosa di cui abbiamo bisogno noi uomini, che ci trattenga da quell'abisso che, a volte, il nostro cuore diventa».
Dietro a ogni bambina c'è una madre, a volte morta, a volte nell'ombra, a volte prepotentemente sulla scena nonostante sia morta. Di madre in figlia è un racconto corale dove tre donne dicono l'impossibilità della comprensione quando il legame che unisce è quello della carne e del sangue. Una generazione dopo l'altra a immaginare senza avere il coraggio di dire, mai. Donne che parlano di uomini amati, che sono arrivate a capire meglio di quanto non sappiano fare tra loro e di loro e meglio di quanto mai nessun uomo possa fare con qualunque donna.
In tutti i racconti comunque la vera protagonista è la memoria, accompagnata dalla sua inseparabile compagna di viaggio: la scrittura.
Non vi è scrittura possibile senza il doloroso lavoro della memoria, «dimenticare non vuol dire cancellare completamente, ma solo mettere da parte, nascondere sotto chiave». E aprire quelle porte è un lavorio lento e faticosa ma al quale chi scrive non può sottrarsi, perché «a volte, gli avvenimenti dimenticati tornano alla memoria all'improvviso e colorano un sogno; e fanno ancora male. Ancora vivi e pulsanti, come ferite aperte.»
Ora siamo nel cuore del libro, non c'é più una bambina a parlare, ma una donna adulta che racconta sé stessa adolescente. «Lo spazio, il vento, la radio» è la storia di un viaggio in Argentina all'inizio degli anni sessanta. Una ragazzina parte con una madre inconsapevole che resterà tale, mentre per lei il viaggio segnerà irrevocabilmente l'ingresso nell'età adulta, nella comprensione del dolore. Il viaggio a Buenos Aires diventa un viaggio in Patagonia a far visita a un nonno «anarchico convinto» fuoriuscito dall'Italia durante gli anni del fascismo e mai più ritornato.
Il ricordo della Patagonia è un ricordo fatto di vento, di distanze infinite, delle sere passate in ascolto della radio e dei racconti del nonno anarchico che divideva la casa con un altro anarchico russo, fuggito prima ancora della rivoluzione del '17. L'unica mancanza di cui la ragazzina soffre è quella dei libri, gliene arriveranno tre, compagni di giornate infinite che caratterizzano la ribellione di quel carattere che non cerca giustificazioni né approvazione, ognuno è solo quello che è. E «nessun pentimento. Mai pentirsi, le scelte restavano, così come la bandiera dell'anarchia appesa sul camino. Nessun pentimento. Mai pentirsi». È questo che il vecchio anarchico insegna alla ragazzzina ribelle che a una cena di gente perbene a Buenos Aires ha detto agli amici della madre: «Mi disgustate».
Alla fine del viaggio lei ritorna cambiata a tal punto da fare di lei una ragazza solitaria. Nella lontananza la figura del nonno assume la statura del mito e la nostalgia diventa vera padrona della memoria: «Avevo nostalgia di lui, di quello spazio, di quelle serate passate a parlare di anarchia intorno al fuoco - scintille nell'aria frizzante, aromi aspri di legna fresca; ed io ero quel fuoco, quel vento notturno...»
Questo poco prima del chiaccherato ma alla fin fine rimosso ' 68 che è il proscenio di un altro dei racconti, uno dei più dolorosi, dove la memoria dei morti, impossibile da conoscere, diventa negazione alla vita di chi morto non è, almeno nel corpo. «Non so se ti ricordi» è il dolente racconto di una donna che ha perduto il compagno in maniera insensata. Non vado oltre nel'accennare ai personaggi di questa raccolta bella e intensa. Non conoscendola mi viene da chiedermi quanto di lei ci sia in ognuno dei personaggi, molto penso visto che credo nell'affermazione flaubertiana del «Madame Bovary c'est moi!».
Eppure se anche di lei, della scrittrice Laura, della bambina Laura, non ci fosse nulla in queste pagine che importanza avrebbe alla fine? Io me la immagino camminare tra i boschi di quella zona di Lombardia che lei abita e conosce così bene da essere capace di ridarcene la lingua che andrà perduta. Me la immagino scivolare lungo il corso d'acqua nascosto dagli alberi che ascolta i sussurri del vento e ascolta le pietre che tanti piedi prima dei suoi hanno calpestato. 
La vedo interrogare le foglie sempre nuove e sempre uguali a ogni primavera. E la vedo sedersi in una zona d'ombra senza carta e senza penna, intenta nell'atto dell'ascolto e del ricordo. Per l'inchiostro nero, per i tasti di una macchina da scrivere o di un più moderno, ma fuori luogo, computer verrà il tempo, dopo molto più in là, non importa quando, non importa dove.
Le storie ascoltate, vissute arriveranno al momento della condivisione, della magia, dell'ebbrezza della lettura. Basta aprire l'anima al flusso di queste parole e lasciarsi condurre via, magari fino in Patagonia dove un vecchio anarchico starà ancora raccontando le sue storie in una notte ventosa, seduto accanto al fuoco, per sempre.