Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 225
marzo 1996


Rivista Anarchica Online

Storia di Alex

L'ultima volta che ho incontrato il compagno Alex Langer eravamo a Campogrosso, presso il Rifugio Giuriolo. Ammirando le vette del Fumante, del Carega, del Sengio Alto avevamo parlato a lungo su vari problemi, sia della tragedia bosniaca che dell'auspicabile istituzione di un Parco delle Piccole Dolomiti. Dato che quel giorno avevo con me tre cani (prelevati qualche anno fa dal canile municipale di Borgo Casale due giorni prima dell'esecuzione), avevamo discusso anche dei diritti degli animali, del rispetto dovuto alle sofferenze di ogni essere vivente e Alex aveva confermato una sua spiccata sensibilità animalista.
In memoria di Alex Langer
Non mi è quindi sembrato irriverente dare il suo nome al vitello recentemente strappato alla morte certa da una stalla del bellunese. Tutto era cominciato questa estate, mentre trascorrevo vari periodi in una specie di baita «convivendo» praticamente con un vitellino nato in maggio. Eravamo separati solo da un sottile muro; oltre ai frequenti e lamentosi muggiti, sentivo ogni suo sbuffo e movimento (o forse dovrei dire: tentativo di movimento, dato che era bloccato da una cortissima catena e non poteva nemmeno sdraiarsi). Il mio vicino a quattro zampe era l'unico abitante di una serie di stalle e fienili vuoti posti ai margini di una contrada dell'Alpago. Cavalli e mucche, compresa la madre del vitellino, erano stati trasportati in malga, per l'alpeggio. Dopo essere stato bruscamente separato dalla madre che lo stava ancora allattando, il piccolo veniva allevato artificialmente; sempre chiuso, in modo che lontano dalla luce «producesse» carne più bianca per la gioia dei palati buongustai. Ricordo che per ottenere la famosa carne bianca viene spesso adottata una dieta priva di ferro così da rendere i vitelli anemici.
Tentativi di comunicazione.
Ogni volta che mi sentiva passare il vitello muggiva; avevo l'impressione che chiamasse, che cercasse di comunicare in quella sua solitudine. Se entravo nella stalla (dove mettevo al coperto la moto quando pioveva) e mi avvicinavo si calmava, si appoggiava con la testa al mio fianco e mi leccava la mano con la sua lingua ruvida... Così ogni giorno fino a stringere una sorta di amicizia. Probabil-mente, dopo che gli era stata tolta la madre, non aveva altro. Per lui lo stare al mondo era solo dolore buio, solitudine e silenzio. A conclusione di questo calvario, ai primi di dicembre avrebbe dovuto venire ucciso. Ricordo bene quello che avrebbe dovuto essere il nostro ultimo incontro. Ero entrato nella stalla con lo zaino già in spalla (proprio per non fermarmi troppo e commuovermi pensando al suo infame destino) e avevo già portato fuori la moto quando Alex ha cominciato a muggire in modo straziante. Ho dovuto rientrare, carezzarlo sulla testa... e a questo punto ho preso la decisione che avrei fatto qualcosa per tirarlo fuori da lì. Me lo immaginavo trascinato verso quella che non so in che altro modo definire se non esecuzione, mentre lanciava muggiti disperati (ma forse dovrei dire appelli di dolore). Magari, pensavo, in quei momenti si sarebbe ricordato di me; al dolore per la morte si sarebbe aggiunto quello dell'abbandono, vorrei dire quasi del «tradimento» di un'amicizia... Cosa ne sappiamo noi in realtà di quello che provano i tanto disprezzati animali? Sono convinto che in qualche recesso della mia mente, più o meno inconsciamente, agisse anche un altro meccanismo e voglio accennarne anche se sicuramente qualcuno potrà giudicarlo ingenuo o retorico. In quasi trent'anni di militanza (sia pur modesta) a favore di tante «cause perse», ho vissuto molte volte il senso di frustrazione per gli inutili tentativi di salvare qualche prigioniero politico condannato a morte dai regimi di varia natura, il dolore incolmabile per la morte di qualche fratello-compagno vittima della repressione fucilato impiccato o «garrotato». Da Juan Paredes Manot (el «Txiki») a Puig Antich, da Bobby Sands a Benjamin Moloise, da Patsy O'Hara a Franco Serantini, da Jan Palach a Sevillano Martino. Manifestazioni, appelli, volantini e poi quelle interminabili, inutili attese, per tutta la notte, sperando invano che dai primi notiziari arrivasse una smentita, che l'esecuzione fosse stata rinviata o che le richieste fossero state accolte, lo sciopero della fame sospeso. Ma stavolta, mi rendevo conto, potevo salvare una vita, la vita di una povera creatura innocente, ingiustamente condannata a morte. Chissà? Forse nel mio piccolo anch'io ho voluto dire «Ya Basta!» («Ora Basta!» Così cominciava il primo comunicato degli insorti zapatisti del Chiapas, nel gennaio del '94), «mettere un confine alla morte», spezzare almeno per il tempo di un attimo l'implacabile catena del dolore che sembra avvolgere inesorabilmente i viventi. A questo punto la decisione era presa, ma cominciavano i problemi: trovare i soldi necessari convincere il proprietario a vendere, trovare qualcuno disposto ad ospitare il vitello. Non ultimo: portare la cosa fino in fondo sfidando il senso del ridicolo, le idee conformiste consolidate, le inevitabili battute dei «benpensanti», i luoghi comuni... ma a tutto questo ormai ho fatto il callo. Per il trasporto ci vennero in aiuto i fratelli Barbieri dei Cantieri Nord-Est di Bolzano Vicentino, mettendo a disposizione la loro Volvo provvista di gancio, normalmente utilizzata per le barche ma in grado di trascinare anche uno di quei «trailer» che si usano per trasportare i cavalli. Rimaneva sempre il grosso problema dell'alloggio.
Una lettera al il Manifesto
Ad un certo punto, dopo aver consultato le associazioni animaliste e i gruppi vegetariani di mezza Italia, ero veramente disperato. Per fortuna, grazie ad un appello pubblicato da il Manifesto e dopo una mia partecipazione al Costanzo show (dove, ci tengo a precisare, sono stato invitato con insistenza, dato che non ho molta familiarità né simpatia per la «società dello spettacolo»), il vitellino ha trovato ospitalità presso la signora Ebe Dalle Fabbriche, esponente del movimento Una (Uomo/Natura/Animali). Adesso Alex condivide la stalla con una capra (sfuggita alle stragi pasquali) e può circolare liberamente per un pascolo in collina, tra gli alberi. Soprattutto non conoscerà più catene e non finirà mai sulla tavola di qualche commensale. Ha già sofferto abbastanza. Ne ho avuto ulteriore conferma quando siamo andati con Elena di Legambiente e Andrea (camionista provetto che fino a qualche mese fa trasportava viveri e medicinali nelle selve del centroamerica) a prelevarlo. Da maggio a novembre non si era mai mosso dalla catena e non aveva mai visto la luce del sole. Quando l'abbiamo liberato si muoveva in maniera incerta, non ci vedeva ed era molto spaventato. Però quando sentiva la mia voce mi riconosceva e si avvicinava. Il movimento Una, la cui sede si trova a San Piero a Sieve (Firenze), nel Mugello, raggruppa ventisette associazioni protezioniste e animaliste italiane e, come dichiara la sua fondatrice, «da molti anni indirizza i suoi sforzi a difesa dei più deboli, a qualunque specie appartengano». «Ad una società sempre più ingiusta e violenta» ci spiega la signora Ebe, rigorosamente vegetariana «il nostro movimento vuole contrapporre un messaggio operativo di solidarietà e giustizia. Quasi ogni giorno presta la propria voce a chi non ce l'ha, come appunto gli animali, vittime di sfruttamento, crudeltà, prevaricazione». E quelle di Ebe non sono soltanto belle parole: chiunque abbia avuto modo di conoscerla ha potuto constatare come questa signora abbia realmente messo in pratica i suoi principi. Nella sua casa per esempio trovano dignitosa ospitalità persone che altrimenti, in questa società, non avrebbero avuto altra possibilità di sopravvivenza che la reclusione in qualche istituto o l'emarginazione totale...
Il problema rimane.
Naturalmente il «lieto fine» di questa vicenda (restano «solo» i debiti da saldare per il sottoscritto) non ci può esimere dal ricordare che ogni anno in Italia vengono allevati e macellati milioni di animali per accontentare il sempre maggiore consumo di carne della popolazione. Negli ultimi venti anni tale consumo è quasi raddoppiato, passando da 50 kg. annui pro capite a 85 Kg. con ripercussioni non certo positive sulla salute dell'uomo (visti i metodi di allevamento: diete prive di ferro, somministrazioni di farmaci, immobilità assoluta...). Per esempio si calcola che in Italia vengano uccisi circa 5,5 milioni di agnellini ogni anno, soprattutto nelle ricorrenze pasquali. Agli allevamenti tradizionali si devono ora aggiungere quelli di animali esotici come gli struzzi. La maggior parte degli animali da macello viene allevata in piccoli spazi per un maggiore utile economico: l'alta mortalità è ampiamente compensata dal maggior numero di animali stabulati. La capienza dei box è misurata in relazione allo spazio di ingombro dell'animale e non allo spazio necessario al suo movimento. Gli animali sono praticamente accatastati gli uni sugli altri senza possibilità di voltarsi, pulirsi, stendere gli arti, riposare comodamente. Negli animali vengono indotte forzature produttive con gravi alterazioni dei ritmi biologici. Inoltre è in uso la pratica di castrare gran parte degli animali che devono servire all'alimentazione perché raggiungano pesi e volumi maggiori: così a milioni di bovini, ovini, suini, cavalli, galletti ecc... vengono strappati i testicoli senza anestesia. Per risolvere il problema del cannibalismo, inesistente in natura e causato dal sovraffollamento, spesso ai polli viene tagliato il becco (che ha una sensibilità paragonabile ai nostri denti), ai suini la coda. Anche queste operazioni avvengono senza anestesia. Ed il prossimo futuro ci riserva ulteriori aberrazioni a scopo di profitto. Sto parlando dei cosiddetti animali transgenici, ottenuti con l'introduzione di materiale genetico estraneo (ad esempio suini con geni della crescita umana), degli «animali mosaico», frutto della fusione di più embrioni anche di specie diverse (ad esempio la caprecora) oppure degli animali prodotti in scala attraverso il taglio chirurgico degli embrioni. Molto spesso durante il trasporto gli animali vengono stipati nei convogli o in casse per giorni, al freddo o al caldo più soffocante, senza cibo né acqua. Diversi animali si feriscono o addirittura muoiono in queste condizioni. Nella fase di carico e scarico molti suini per lo stress muoiono di infarto, i vitelli non avendo mai camminato (era il caso di Alex) vengono trascinati a forza e bastonati. Gli animali vengono spinti nel tunnel della morte del mattatoio con scariche elettriche erogate da speciali apparecchi. Anche la macellazione è tutt'altro che indolore. Gran parte delle sofferenze inflitte nei mattatoi sono una conseguenza del ritmo frenetico in cui deve operare la catena delle uccisioni. La storia di Alex in cui molta gente di ogni parte d'Italia si è identificata (ho ricevuto decine di lettere e telefonate), ha rappresentato un , per quanto modesto, momento visibile di quel mondo di sofferenza sommerso e nascosto. Come scrive Roberto Marchesini nel suo libro Oltre il Muro: «L'animale domestico è una vittima dell'uomo già al momento della nascita perché ha scritto nei cromosomi il suo destino di cattività. Occorre pertanto riportare all'uomo la responsabilità di quello che ha fatto.» Anche nel Piccolo Principe di Saint-Exupery è riportata una frase, costruita apposta per noi umani che esprime un concetto simile: «tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato».

Gianni Sartori (Vicenza)