Rivista Anarchica Online
Storia di Alex
L'ultima volta che ho incontrato il compagno Alex Langer eravamo a Campogrosso, presso il Rifugio
Giuriolo. Ammirando
le vette del Fumante, del Carega, del Sengio Alto avevamo parlato a lungo su vari problemi, sia della tragedia bosniaca che
dell'auspicabile istituzione di un Parco delle Piccole Dolomiti. Dato che quel giorno avevo con me tre cani (prelevati
qualche anno fa dal canile municipale di Borgo Casale due giorni prima dell'esecuzione), avevamo discusso anche dei
diritti degli animali, del rispetto dovuto alle sofferenze di ogni essere vivente e Alex aveva confermato una sua spiccata
sensibilità animalista. In memoria di Alex Langer Non mi è quindi sembrato irriverente dare il
suo nome al vitello recentemente strappato alla morte certa da una stalla del
bellunese. Tutto era cominciato questa estate, mentre trascorrevo vari periodi in una specie di baita «convivendo»
praticamente con un vitellino nato in maggio. Eravamo separati solo da un sottile muro; oltre ai frequenti e lamentosi
muggiti, sentivo ogni suo sbuffo e movimento (o forse dovrei dire: tentativo di movimento, dato che era bloccato da una
cortissima catena e non poteva nemmeno sdraiarsi). Il mio vicino a quattro zampe era l'unico abitante di una serie di stalle
e fienili vuoti posti ai margini di una contrada dell'Alpago. Cavalli e mucche, compresa la madre del vitellino, erano stati
trasportati in malga, per l'alpeggio. Dopo essere stato bruscamente separato dalla madre che lo stava ancora allattando, il
piccolo veniva allevato artificialmente; sempre chiuso, in modo che lontano dalla luce «producesse» carne più
bianca per
la gioia dei palati buongustai. Ricordo che per ottenere la famosa carne bianca viene spesso adottata una dieta priva di ferro
così da rendere i vitelli anemici. Tentativi di comunicazione. Ogni volta che mi
sentiva passare il vitello muggiva; avevo l'impressione che chiamasse, che cercasse di comunicare in
quella sua solitudine. Se entravo nella stalla (dove mettevo al coperto la moto quando pioveva) e mi avvicinavo si calmava,
si appoggiava con la testa al mio fianco e mi leccava la mano con la sua lingua ruvida... Così ogni giorno fino a
stringere
una sorta di amicizia. Probabil-mente, dopo che gli era stata tolta la madre, non aveva altro. Per lui lo stare al mondo era
solo dolore buio, solitudine e silenzio. A conclusione di questo calvario, ai primi di dicembre avrebbe dovuto venire ucciso.
Ricordo bene quello che avrebbe dovuto essere il nostro ultimo incontro. Ero entrato nella stalla con lo zaino già
in spalla
(proprio per non fermarmi troppo e commuovermi pensando al suo infame destino) e avevo già portato fuori la
moto
quando Alex ha cominciato a muggire in modo straziante. Ho dovuto rientrare, carezzarlo sulla testa... e a questo punto
ho preso la decisione che avrei fatto qualcosa per tirarlo fuori da lì. Me lo immaginavo trascinato verso quella che
non so
in che altro modo definire se non esecuzione, mentre lanciava muggiti disperati (ma forse dovrei dire appelli di dolore).
Magari, pensavo, in quei momenti si sarebbe ricordato di me; al dolore per la morte si sarebbe aggiunto quello
dell'abbandono, vorrei dire quasi del «tradimento» di un'amicizia... Cosa ne sappiamo noi in realtà di quello che
provano
i tanto disprezzati animali? Sono convinto che in qualche recesso della mia mente, più o meno inconsciamente,
agisse anche
un altro meccanismo e voglio accennarne anche se sicuramente qualcuno potrà giudicarlo ingenuo o retorico. In
quasi
trent'anni di militanza (sia pur modesta) a favore di tante «cause perse», ho vissuto molte volte il senso di frustrazione per
gli inutili tentativi di salvare qualche prigioniero politico condannato a morte dai regimi di varia natura, il dolore
incolmabile per la morte di qualche fratello-compagno vittima della repressione fucilato impiccato o «garrotato». Da Juan
Paredes Manot (el «Txiki») a Puig Antich, da Bobby Sands a Benjamin Moloise, da Patsy O'Hara a Franco Serantini, da
Jan Palach a Sevillano Martino. Manifestazioni, appelli, volantini e poi quelle interminabili, inutili attese, per tutta la notte,
sperando invano che dai primi notiziari arrivasse una smentita, che l'esecuzione fosse stata rinviata o che le richieste
fossero state accolte, lo sciopero della fame sospeso. Ma stavolta, mi rendevo conto, potevo salvare una vita, la vita di una
povera creatura innocente, ingiustamente condannata a morte. Chissà? Forse nel mio piccolo anch'io ho voluto dire
«Ya
Basta!» («Ora Basta!» Così cominciava il primo comunicato degli insorti zapatisti del Chiapas, nel gennaio del
'94),
«mettere un confine alla morte», spezzare almeno per il tempo di un attimo l'implacabile catena del dolore che sembra
avvolgere inesorabilmente i viventi. A questo punto la decisione era presa, ma cominciavano i problemi: trovare i soldi
necessari convincere il proprietario a vendere, trovare qualcuno disposto ad ospitare il vitello. Non ultimo: portare la cosa
fino in fondo sfidando il senso del ridicolo, le idee conformiste consolidate, le inevitabili battute dei «benpensanti», i
luoghi
comuni... ma a tutto questo ormai ho fatto il callo. Per il trasporto ci vennero in aiuto i fratelli Barbieri dei Cantieri
Nord-Est di Bolzano Vicentino, mettendo a disposizione la loro Volvo provvista di gancio, normalmente utilizzata per le
barche
ma in grado di trascinare anche uno di quei «trailer» che si usano per trasportare i cavalli. Rimaneva sempre il grosso
problema dell'alloggio. Una lettera al il Manifesto Ad un
certo punto, dopo aver consultato le associazioni animaliste e i gruppi vegetariani di mezza Italia, ero veramente
disperato. Per fortuna, grazie ad un appello pubblicato da il Manifesto e dopo una mia partecipazione al
Costanzo show
(dove, ci tengo a precisare, sono stato invitato con insistenza, dato che non ho molta familiarità né simpatia
per la «società
dello spettacolo»), il vitellino ha trovato ospitalità presso la signora Ebe Dalle Fabbriche, esponente del movimento
Una
(Uomo/Natura/Animali). Adesso Alex condivide la stalla con una capra (sfuggita alle stragi pasquali) e può
circolare
liberamente per un pascolo in collina, tra gli alberi. Soprattutto non conoscerà più catene e non
finirà mai sulla tavola di
qualche commensale. Ha già sofferto abbastanza. Ne ho avuto ulteriore conferma quando siamo andati con Elena
di
Legambiente e Andrea (camionista provetto che fino a qualche mese fa trasportava viveri e medicinali nelle selve del
centroamerica) a prelevarlo. Da maggio a novembre non si era mai mosso dalla catena e non aveva mai visto la luce del
sole. Quando l'abbiamo liberato si muoveva in maniera incerta, non ci vedeva ed era molto spaventato. Però quando
sentiva
la mia voce mi riconosceva e si avvicinava. Il movimento Una, la cui sede si trova a San Piero a Sieve
(Firenze), nel
Mugello, raggruppa ventisette associazioni protezioniste e animaliste italiane e, come dichiara la sua fondatrice, «da molti
anni indirizza i suoi sforzi a difesa dei più deboli, a qualunque specie appartengano». «Ad una società
sempre più ingiusta
e violenta» ci spiega la signora Ebe, rigorosamente vegetariana «il nostro movimento vuole contrapporre un messaggio
operativo di solidarietà e giustizia. Quasi ogni giorno presta la propria voce a chi non ce l'ha, come appunto gli
animali,
vittime di sfruttamento, crudeltà, prevaricazione». E quelle di Ebe non sono soltanto belle parole: chiunque abbia
avuto
modo di conoscerla ha potuto constatare come questa signora abbia realmente messo in pratica i suoi principi. Nella sua
casa per esempio trovano dignitosa ospitalità persone che altrimenti, in questa società, non avrebbero avuto
altra possibilità
di sopravvivenza che la reclusione in qualche istituto o l'emarginazione totale... Il problema
rimane. Naturalmente il «lieto fine» di questa vicenda (restano «solo» i debiti da saldare per il
sottoscritto) non ci può esimere dal
ricordare che ogni anno in Italia vengono allevati e macellati milioni di animali per accontentare il sempre maggiore
consumo di carne della popolazione. Negli ultimi venti anni tale consumo è quasi raddoppiato, passando da 50 kg.
annui
pro capite a 85 Kg. con ripercussioni non certo positive sulla salute dell'uomo (visti i metodi di allevamento: diete prive
di ferro, somministrazioni di farmaci, immobilità assoluta...). Per esempio si calcola che in Italia vengano uccisi
circa 5,5
milioni di agnellini ogni anno, soprattutto nelle ricorrenze pasquali. Agli allevamenti tradizionali si devono ora aggiungere
quelli di animali esotici come gli struzzi. La maggior parte degli animali da macello viene allevata in piccoli spazi per un
maggiore utile economico: l'alta mortalità è ampiamente compensata dal maggior numero di animali
stabulati. La capienza
dei box è misurata in relazione allo spazio di ingombro dell'animale e non allo spazio necessario al suo movimento.
Gli
animali sono praticamente accatastati gli uni sugli altri senza possibilità di voltarsi, pulirsi, stendere gli arti,
riposare
comodamente. Negli animali vengono indotte forzature produttive con gravi alterazioni dei ritmi biologici. Inoltre è
in uso
la pratica di castrare gran parte degli animali che devono servire all'alimentazione perché raggiungano pesi e volumi
maggiori: così a milioni di bovini, ovini, suini, cavalli, galletti ecc... vengono strappati i testicoli senza anestesia.
Per
risolvere il problema del cannibalismo, inesistente in natura e causato dal sovraffollamento, spesso ai polli viene tagliato
il becco (che ha una sensibilità paragonabile ai nostri denti), ai suini la coda. Anche queste operazioni avvengono
senza
anestesia. Ed il prossimo futuro ci riserva ulteriori aberrazioni a scopo di profitto. Sto parlando dei cosiddetti animali
transgenici, ottenuti con l'introduzione di materiale genetico estraneo (ad esempio suini con geni della crescita umana),
degli «animali mosaico», frutto della fusione di più embrioni anche di specie diverse (ad esempio la caprecora)
oppure degli
animali prodotti in scala attraverso il taglio chirurgico degli embrioni. Molto spesso durante il trasporto gli animali vengono
stipati nei convogli o in casse per giorni, al freddo o al caldo più soffocante, senza cibo né acqua. Diversi
animali si
feriscono o addirittura muoiono in queste condizioni. Nella fase di carico e scarico molti suini per lo stress muoiono di
infarto, i vitelli non avendo mai camminato (era il caso di Alex) vengono trascinati a forza e bastonati. Gli animali vengono
spinti nel tunnel della morte del mattatoio con scariche elettriche erogate da speciali apparecchi. Anche la macellazione
è tutt'altro che indolore. Gran parte delle sofferenze inflitte nei mattatoi sono una conseguenza del ritmo frenetico
in cui
deve operare la catena delle uccisioni. La storia di Alex in cui molta gente di ogni parte d'Italia si è identificata (ho
ricevuto
decine di lettere e telefonate), ha rappresentato un , per quanto modesto, momento visibile di quel mondo di sofferenza
sommerso e nascosto. Come scrive Roberto Marchesini nel suo libro Oltre il Muro: «L'animale domestico
è una vittima
dell'uomo già al momento della nascita perché ha scritto nei cromosomi il suo destino di cattività.
Occorre pertanto
riportare all'uomo la responsabilità di quello che ha fatto.» Anche nel Piccolo Principe di
Saint-Exupery è riportata una
frase, costruita apposta per noi umani che esprime un concetto simile: «tu diventi responsabile per sempre di quello che
hai addomesticato».
Gianni Sartori (Vicenza)
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