Rivista Anarchica Online
Gli anni della rivolta: 1968 - 1977
di Guido Barroero
Preziosa e intelligente è stata l'iniziativa della Biblioteca Franco Serantini,
del Circolo Agorà di Pisa e del Centro
di Documentazione di Pistoia di dedicare una giornata di studi agli "anni della rivolta", ovvero al decennio
1968-1977. Anni che, al di là di ogni retorica, hanno segnato in profondità il modo stesso di
concepire la politica
come pratica collettiva, rompendo e superando gli schemi consolidati dei tradizionali rapporti tra ceto politico
(di qualunque colore esso fosse) e masse popolari e proletarie. L'irruzione sulla scena dello scontro sociale, nei
paesi occidentali industrializzati, di centinaia di migliaia di giovani (dapprima solo studenti, ma in seguito, in
Italia e Francia soprattutto, anche operai) sconvolse i riti della politica fondati sulla delega e la rappresentazione
mistificata dei rapporti di forza. Protagonismo e assemblearismo, fantasia e immaginazione furono il primo
portato di un'esplosione di ribellismo giovanile che trascese presto - in coscienza e consapevolezza - i limiti della
conflittualità generazionale. La dura repressione dei poteri statuali e borghesi fece il resto e, nella
radicalizzazione
delle lotte e dei movimenti, traghettò molti verso il riconoscimento maturo della necessità di
riaprire duramente
e reinterpretare quello scontro di classe che la cappa stalinista e l'ambiguità togliattiana avevano
derubricato a
"tenzone democratica" all'interno delle regole del sistema. Per molti giovani della mia generazione - compresi
quelli che come me già facevano politica nella FGCI - quel movimento ebbe una funzione maieutica di
emancipazione coscienziale dalle ambiguità di un'azione politica di piccolo cabotaggio, appena scossa
dalle prime
manifestazioni per il Vietnam. Per la verità - come ho scritto in un sintetico commento per
Umanità Nova - mi sono recato a Pisa vagamente
perplesso e leggermente preoccupato. Temevo amarcord di militanti dai capelli grigi (troppi ce ne hanno
già
elargiti giornali, TV e anche certa pubblicistica di estrema sinistra, in merito alla vicenda Sofri). Temevo anche
il paternalismo nei confronti degli eventuali giovani presenti (il '68 ve lo racconto io che c'ero) e, di converso,
un atteggiamento di bonario compatimento (tipo quello che si ha per i vecchi parenti noiosi) di questi ultimi,
magari alla ricerca di materiali per tesi o dissertazioni. I miei timori sono risultati eccessivi e debbo dire
ingiustificati alla prova dei fatti. Praticamente tutte le relazioni
sono riuscite nel non facile compito di contestualizzare esperienze, movimenti e avvenimenti, di storicizzarli
(coglierli dunque nella loro causalità) e recuperarne dunque "l'attualità". Compito quest'ultimo
non certo facile
perché ogni "attualizzazione" corre il rischio di trasformarsi in una supposta riproposività delle
situazioni o in una
meccanica considerazione di continuità dei processi economico-politico-sociali, entrambi frutti malsani
delle
ideologizzazioni. A meno che non si parta dalla considerazione che lotte, sconfitte, errori, fughe in avanti,
elaborazioni, strategie, analisi, illusioni di cui sono costellati i grandi eventi sono, non parte, ma, in senso stretto,
il processo stesso con cui il corpo sociale, diacronicamente, si scontra con la ragnatela di "abitudini" (rapporti
economici, politici e sociali istituzionalizzati, introiettati e cristalizzati) che esso stesso ha secreto. Ritornando
a Pisa e al corpus delle relazioni presentate, queste si potrebbero raggruppare in almeno quattro filoni
di indagine: il primo concernente singole esperienze - più o meno specifiche, sia dal punto di vista della
territorialità che da quello della connotazione politica e sociale -costituito, con buona approssimazione,
dalle
relazioni di Cesare Bermani (L'esperienza del Circolo R. Luxemburg a Novara nel 1969), di Giorgio
Sacchetti
(Il '68 aretino: la provincia italiana negli anni della rivolta), di Cosimo Scarinzi
("Collegamenti per
l'organizzazione diretta di classe": un esempio di rivista militante fuori dalle linee) e, in parte, di Pina
Sardella
(Verso il '77. Il ruolo del movimento femminista nelle vicende politiche degli anni '70) e di Franco
Schirone
(L'anarchismo italiano dal '68 al '77); il secondo inerente le radici culturali e politiche degli "anni
della rivolta":
Luciano Della Mea (Le radici della contestazione. Culture e movimenti), Roberto Niccolai
(Quando la Cina era
vicina: l'influenza del pensiero di Mao sulla sinistra rivoluzionaria degli anni '60 e '70), Gianfranco Marelli
(Non lavorare mai. Come la critica situazionista all'esistente influenzò i movimenti radicali degli
anni '70),
Diego Giachetti ("Dal movimento ai gruppi": dal Manifesto al Potere Operaio i gruppi dell'estrema sinistra
tra
gli anni '60 e '70); il terzo inerente il dibattito e la ricerca storiografica sugli anni '70: Oscar Mazzoleni
(Il '77
nella storiografia dell'Italia repubblicana) e Attilio Mangano (Il dibattito storico sugli anni '70. La
stagione dei
movimenti); e infine il quarto orientato a definire i «connotati» politici e gli esiti organizzativi dei
movimenti
anche in rapporto alla rottura dell'egemonia del PCI: ancora Giachetti e Schirone, Sergio Dalmasso (La
politica
della sinistra storica nei confronti dei movimenti della "contestazione") e Marco Scavino (La piazza
e la forza.
Il 1975 punto di svolta della sinistra rivoluzionaria). In realtà questa quadripartizione risulta
abbastanza arbitraria perché quasi tutte le relazioni e gli interventi hanno
spaziato ad ampio raggio su più d'una delle problematiche che abbiamo elencato, ma serve a dar conto
dell'ampia
articolazione del corpus relazionale. Alcuni temi affrontati tuttavia, a mio avviso, hanno dimostrato una maggior
pregnanza e sollevato problemi rilevanti. Ne cito almeno tre: Il primo è stato quello degli esiti
organizzativi del movimento del '68, che si è delineato all'incirca nei termini
di una potenziale alternativa: la "sedimentazione gruppettara" che ha seguito le prime imponenti lotte studentesche
e operaie ha rappresento la cristallizzazione di una spontaneità antagonista, e in nuce rivoluzionaria,
degna di ben
altre sorti o è stata il portato «necessario» e tutto sommato benefico di una pluralità di opzioni
strategico-organizzative tese a incidere con più efficacia nello scontro di classe? Le risposte degli
intervenuti si
sono ovviamente diversamente articolate lungo lo spettro definito dalle due ipotesi e non a caso si sono spesso
avvertiti gli echi della questione, storicamente irrisolta, del rapporto tra movimenti e organizzazione, tra lotte e
prospettive strategiche, tra masse e partito. Il secondo è stato quello della contrapposizione - usata
prevalentemente in ambito storiografico, ma anche della
riflessione politica - che si tende a fare tra un '68 "buono", solare, denso di speranze e di immaginazione e un '77
"cattivo", cupo, foriero di scontri duri e violenti, l'anticamera degli "anni di piombo". A questo proposito è
stato
da più d'uno rilevato come la metà degli anni '70 abbia rappresentato un punto critico, di rottura
e di presa di
consapevolezza definitiva da parte di molti militanti di classe della tenuta e delle capacità di controllo
del potere
borghese. L'immaginazione non andava al potere e una risata non avrebbe seppellito un bel nulla come
ottimisticamente recitavano gli slogan del Joli Mai francese. Si andava ad una radicalizzazione dello scontro le
cui premesse tuttavia erano in un certo senso già scritte nella portata e nell'ampiezza degli eventi. Il
terzo è stato quello del rapporto tra i movimenti di quegli anni e gli esiti organizzativi e politici che se
ne
determinarono e l'humus culturale e politico, il filo rosso, sul quale si innestarono: dalle tradizioni storiche del
movimento operaio (l'anarchismo) agli eretismi marxisti vecchi e nuovi (bordighismo, trotskismo, maoismo) per
finire al proto-operaismo della sinistra socialista. Direttamente collegata a questa problematica è la
geografia delle
organizzazioni che furono protagoniste dei primi anni '70 (da Lotta Continua a Potere Operaio, passando per
Avanguardia Operaia, il Manifesto, ecc.), la loro forza, le loro strategie e la loro crisi, dalla quale generarono, su
filoni divergenti, l'Autonomia Operaia e la galassia del lottarmatismo. Nel complesso quella di Pisa è
stata una giornata di studio e di discussione vivace e proficua, connotati che non
è sempre facile trovare associati. Per concludere questo resoconto, un piccolo rilievo e un auspicio.
Il rilievo è che, almeno dal mio punto di vista,
sarebbe stato interessante dedicare più spazio al rapporto tra il movimento anarchico e i movimenti degli
"anni
della rivolta", non fosse altro perché vi fu un'interazione fortissima che travasò da una parte e
dall'altra cultura,
idee, vivacità, immaginazione. L'auspicio è invece che gli organizzatori - nella loro dimostrata
efficienza
organizzativa - mettano presto a disposizione gli atti completi del convegno, perché i percorsi della
riflessione
critica debbono trarre nuovo stimolo da occasioni come questa per poter essere socializzati come patrimonio
collettivo.
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