Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 238
estate 1997


Rivista Anarchica Online

Lasciate che il vento soffi
di Cristina Valenti

La sperimentazione di nuove forme di organizzazione e strategie di sopravvivenza si pone come necessità vitale per il teatro emergente, fra razionalizzazione della spesa pubblica e "normalizzazione" del quadro istituzionale

Ci sono immagini, aneddoti, episodi dall'evidente valore paradigmatico. Ci capita di riconoscerli, ascoltarli, citarli noi stessi, a volte, per rendere più efficace il nostro ragionamento. Poi, d'un tratto, è come se ci parlassero per la prima volta, e così capita che immagini e aneddoti a lungo frequentati acquistino un nuovo riverbero, illuminando di conseguenza il panorama che ci circonda e fornendoci risposte solitamente semplici ed immediate. Come non averle trovate prima?
E' così che mi si è ripresentata l'immagine dei pagliai di Manet, un'immagine che Judith Malina usa di frequente, in senso, per l'appunto, paradigmatico: per rendere più chiaro un racconto che, non a caso, riguarda un momento di illuminazione. Judith Malina e Julian Beck sono giovani meno che ventenni a New York, artisti in cerca della propria strada, pieni di insoddisfazione verso il teatro esistente, e gravidi di domande su quello che non c'è.
Improvvisamente, dice Judith Malina, quello che stavamo cercando ci si è rivelato, come è capitato a Kandinskij osservando i pagliai di Manet, quando capì che il soggetto dell'arte non erano i pagliai, ma la pittura, il modo in cui era stato spalmato il colore, la materia. Beck e Malina compresero allora in che cosa consiste la rottura di una tradizione: nel rimettere al centro la materia della propria arte. Il soggetto è la pittura, ossia il soggetto è il teatro. "Esiste una forma tradizionale e convenzionale da cui apprendiamo ogni cosa, ma quello che dobbiamo fare è superarla, risvegliarci al di fuori di essa, prenderne gli elementi e decostruirli, riorganizzarli".(1)
Mettere al centro la ricerca sui fondamenti dell'arte, al di là delle forme e degli stili in cui la vicenda teatrale si è cristallizzata, così come Manet aveva messo al centro la materia pittorica.
Il teatro, più di ogni altra arte, si fonda sulla trasmissione diretta dell'esperienza. E chi inizia a fare teatro fa riferimento in genere ad esperienze artistiche fondate su particolari modi espressivi, stili, poetiche, ma anche su certe condizioni materiali: spazi, circuiti, strutture economiche ed organizzative.
Una volta compreso che materia del teatro non è solo la ricerca artistica, ma anche la dimensione esistenziale, relazionale, produttiva su cui non di meno si fonda l'esperienza teatrale, è evidente che la riorganizzazione delle forme dovrà investire la complessità di tale materia.
La vicenda di Julian Beck e Judith Malina alla ricerca di un proprio Teatro vivente nella New York della metà anni '40 può servire ancora da guida al nostro ragionamento. Beck e Malina avevano già un'idea abbastanza precisa dei testi che avrebbero voluto rappresentare, ma
soprattutto sapevano che il loro progetto non avrebbe potuto avere luogo all'interno del teatro esistente. Il semplice rinnovamento del repertorio, con l'introduzione di autori contemporanei, non avrebbe realizzato la loro idea di Teatro vivente. Materia del loro progetto non era il solo contenuto dei testi da rappresentare, ma il teatro come processo artistico e insieme di relazioni non ordinarie. Vivente significava già allora, per loro, momento di incontro autentico e necessario fra persone in grado di condividere un'esperienza. Non si trattava di conquistare un accesso a Broadway, ma di costruire il proprio teatro altrove. La storia è nota: dapprima fu nel loro appartamento al 789 di West End Avenue, poi in uno spazio nella 14a Strada, costruito con l'aiuto degli amici del Greenwich: attori poeti scrittori artisti della nascente beat generation. Il teatro aveva un foyer con un chiosco per il caffè e uno per libri e riviste, dove gli spettatori potevano incontrare gli attori durante l'intervallo attorno a una fontana zampillante; la sala teatro era priva di quadro di scena e non prevedeva distinzioni fra palcoscenico e platea, le iniziative ospitate non erano solo teatrali, ma comprendevano reading poetici, letture pubbliche di lavori teatrali, happening, concerti... E' un modello che ci è in qualche modo diventato familiare (anche se non quanto avrebbe potuto) dagli anni Sessanta ad oggi, ma che nel 1959, quando il Living Theatre aprì i battenti, era del tutto innovativo e corrispondeva all'esigenza di sperimentare i modi e le forme del fare teatro in termini necessariamente connessi con i modi e le forme del vivere.

Memoria e insofferenza
Attualmente è sempre più raro che l'invenzione teatrale significhi anche invenzione di uno spazio speciale e di particolari modi di concepire l'incontro fra artisti e partecipanti. Generalmente, anche le esperienze più innovative prevedono la possibilità di accedere a spazi e contesti "tradizionali". E' sempre meno frequente, per fare un esempio banale, che gli spettacoli a pianta centrale non possano essere allestiti anche su palcoscenico. Eppure, sappiamo bene che il teatro è stato ciclicamente reinventato nel Novecento a partire dai suoi elementi materiali: il lavoro dell'attore e le sue condizioni, il rapporto con lo spettatore, l'invenzione dello spazio, le forme di organizzazione e le strategie di sussistenza. E' una storia che potremmo facilmente riempire di nomi, dai "padri fondatori" della regia di inizio secolo fino ai protagonisti della rivoluzione teatrale degli anni '50 e '60: Living Theatre e Grotowski, Bread and Puppet e Odin Teatret, Peter Brook ed Etienne Decroux e ancora Open Theatre, Teatro Campesino, Tadeusz Kantor... con l'eredità lasciata alla generazione protagonista del grande mutamento del panorama teatrale negli anni '70.
Oggi c'è evidentemente molto rispetto per tutta questa memoria, di cui il nuovo teatro ha comunque ricevuto ed introiettato l'eredità, ma il punto di raccordo con le esperienze precedenti tende ad avvenire al livello degli ultimi anelli delle esperienze (ossia dei teatri realizzati), anziché al livello dei primi, che hanno strappato i progetti alle utopie trasformandoli in pratica. Il problema è che esiste una dimensione in qualche modo istituzionale delle invenzioni teatrali che oggi ricordiamo. Esperienze che sono state di rottura hanno ormai costruito una loro tradizione artistica e una (maggiore o minore) consistenza istituzionale. In genere, i dati di rinnovamento sono recepiti anche dalla miopia del legislatore, che accoglie e riconosce fra il teatro "normato" (o da "normare") quello che a suo tempo è nato fuori dalle norme, dandosi da sé i propri statuti. (Il Living è forse il solo gruppo uscito dalla rivoluzione vincente degli anni Sessanta a non godere minimamente dei risultati ottenuti: unanimemente riconosciuto come esperienza capostipite, non usufruisce di corrispondenti riconoscimenti istituzionali, forse perché riconoscere il Living significherebbe riconoscere la non programmabilità del fatto artistico, almeno in termini di valutazione "aziendale", e questo contraddice lo spirito e la sostanza di ogni legge).
I giovani che attualmente si affacciano al teatro provano, da una parte, una giusta insofferenza rispetto alla storia delle rivoluzioni teatrali: sono stanchi di sentirsi dire che tutto è avvenuto fra gli anni '60 e '70 e che è un gran peccato per loro che sono nati troppo tardi. E, d'altra parte, di quelle rivoluzioni hanno di fronte i frutti ormai consolidati, che costituiscono altrettante realizzazioni di quella "tradizione del nuovo" che ha attraversato il teatro novecentesco imprimendovi cicliche cesure e una sostanziale e diffusa eterogeneità. Così, diventa assai difficile il dialogo fra le generazioni più vecchie (gli artisti in qualche modo affermati, che tuttavia mantengono vivo lo spirito e la memoria della battaglia) e le generazioni più giovani (che delle proprie battaglie conoscono soprattutto le difficoltà, senza intravedere ancora spiragli, neppure di sussistenza). Mi è capitato di recente di partecipare a un incontro sul teatro di ricerca, durante il quale un artista importante, riconosciuto come punto di riferimento particolarmente significativo per tutta l'esperienza del nuovo teatro italiano, continuava con indiscutibile sincerità ad accomunare in un "noi" collettivo gli attuali rappresentanti del teatro d'arte e di ricerca; allora un giovane regista di un piccolo gruppo romagnolo alle prime esperienze si è alzato pregandolo molto garbatamente di voler meglio chiarire i contenuti di quel "noi": "noi chi?", chiedeva in sostanza.
Eppure un soggetto plurale esiste, e riguarda la multiforme tradizione del nuovo alla quale abbiamo appena fatto riferimento: una tradizione che ha una sua continuità fatta di rotture e soprassalti, deviazioni e ridefinizioni; un andamento a base ciclica nel quale è possibile riconoscere il processo di riorganizzazione degli elementi artistici di cui parla Judith Malina. Una tradizione multiforme, e perciò non univoca né maggioritaria, che si è trasmessa attraverso il libero rinnovamento degli statuti artistici, anziché la riproduzione "tradizionalista" delle forme. Tale vicenda ha conosciuto una fase particolarmente ricca negli anni Sessanta e Settanta, e mostra oggi una rinnovata vitalità, in un contesto però assai precario, caratterizzato dalla chiusura degli spazi e dai sempre maggiori tagli verso il basso dei finanziamenti. Ed è qui, al livello del sistema teatrale, che il "noi" non funziona più. La ricerca di nuove forme ha disegnato inusitati pagliai, che ora fanno parte del panorama. Ma il gesto della pennellata, la scelta della materia e il modo in cui è stato spalmato il colore è ormai invisibile. Fuor di metafora, i centri e gli spazi destinati alla ricerca sono oggi una realtà consolidata, eppure il movimento teatrale degli anni Settanta li ha conquistati inventandone ex novo la possibilità, e lo ha fatto aprendo brecce inesplorate fra sociale e istituzionale, agendo in un terreno che coniugava pratiche sperimentate nella militanza politica con riferimenti e fermenti culturali di respiro internazionale.
Ma oggi è normale che anche quello che è nato fuori dalla norma finisca col sembrare normale, e perciò non sia più riconoscibile il gesto di rottura originario. Ricordo un altro dibattito, durante il quale il rappresentante di un Centro teatrale dotato oggi di un'indubbia consistenza raccontava (giustamente) la sua esperienza in termini di marginalità, al che una giovane attrice di un nascente gruppo bolognese lo interruppe dicendo (altrettanto giustamente): "Ma come? Noi vi consideriamo più che arrivati: il vostro è il traguardo che anche noi vorremmo raggiungere". Continuando a seguire il filo del ragionamento di Judith Malina, il problema è, come lei dice, che la rottura con la tradizione è "un modo per creare una nuova tradizione" (2). O una ulteriore realizzazione della tradizione del nuovo, per dirla in altri termini. E' a questo livello che si pone il problema - cui accennavo - della dimensione istituzionale, tutt'altro che esterna ai processi artistici, ma anzi estremamente condizionante e per certi versi omologante.

Radici nell'aria
Riprendendo il ragionamento sulla situazione italiana. Il teatro di ricerca è attualmente una realtà consolidata, importante dal punto di vista produttivo, di mercato e, cosa principale, sul piano dei risultati artistici. Se osserviamo la vicenda "biologica" di questo teatro, è come osservare la vita di una pianta epifita (è un'immagine che piaceva tanto a Fabrizio Cruciani). Le sue radici questo teatro non le ha piantate nel terreno esistente: non ha dato l'assalto all'istituzione per conquistarla, non ha bussato alle porte dei vari mausolei del teatro italiano reclamando il rinnovamento delle forme, il ricambio generazionale e imponendo perciò la propria candidatura. Le radici le ha piantate nell'aria, suggendo alimento da certe idee che non avevano reale consistenza, alimentandosi piuttosto di memorie storiche, modelli lontani, utopie (anche non teatrali). Quelle memorie, quei modelli, quelle utopie sono diventati dapprima realtà extraterritoriale, poi, dissodati nuovi terreni, sono diventati territori paralleli, ma con tangenze sempre più frequenti, contaminazioni, salti di frontiera.
In questa storia qualcosa ha funzionato e qualcosa no. Quello che ha funzionato. E' nato effettivamente un nuovo modo di fare e concepire il teatro: si sono inventati percorsi di formazione al di fuori delle scuole e delle accademie, circuiti alternativi, nuove forme di accesso ai finanziamenti, spazi e luoghi teatrali non coincidenti con la geografia storica dei teatri e neanche con la distribuzione centralizzata delle risorse. In assenza di una legge del teatro, le circolari e le normative ministeriali hanno dovuto via via tener conto del nuovo e registrarlo, sancendone l'esistenza e regolamentandola attraverso riconoscimenti sempre inadeguati, tardivi e pieni di incoerenze, ma comunque esistenti. Quel teatro nato per essere altrove è stato riconosciuto nei territori comuni dell'istituzione... e qui sono nati i problemi.
Le norme, una volta scritte, richiedono adeguamenti a catena. E lo sforzo maggiore del nuovo teatro è diventato, da un certo momento in poi, quel lo di regolamentarsi inseguendo i criteri di riconoscibilità previsti dal balletto delle circolari che si sono succedute negli anni. Nella congerie burocratica che investe il nostro paese, alle norme che regolano i finanziamenti si aggiungono quelle riguardanti l'agibilità degli spazi. Nel 1994 la Societas Raffaello Sanzio, dopo essersi vista cancellata dal novero delle compagnie finanziate in base all'art. 20 (teatro di ricerca), organizzò un convegno dedicato provocatoriamente alla censura teatrale. Il nesso con la propria vicenda era evidente. In una sistema legislativo e di mercato in cui il teatro non può esistere se non sovvenzionato, la nuova censura risiede nei criteri di erogazione dei finanziamenti, e anche nelle norme che decidono dell'agibilità degli spazi: e quest'ultima è una censura di censo (aprire uno spazio realmente a norma comporterebbe costi pressoché impossibili, non solo per il teatro di ricerca) ma anche una censura artistica: "Se tutte le norme fossero rispettate, tutti i teatri sarebbero identici", faceva osservare Claudia Castellucci in quell'occasione, aggiungendo: "attenzione, perché le norme creano un'estetica". Ricordo che molti anni fa, precisamente durante il Festival di Santarcan-gelo del 1982, un critico teatrale allora assai poco allineato, sostenne pubblicamente che la particolare vitalità del teatro di ricerca in Italia, e la ragione per cui nel nostro paese avevano trovato particolare e prolungata accoglienza tanti gruppi internazionali, si spiegavano con l'organizzazione sostanzialmente anarchica del settore.
Mi colpì (e per questo ancora ricordo) l'uso pressoché appropriato del termine: ad indicare la felice libertà di iniziativa extra-istituzionale (o ai margini dell'istituzione) di cui il teatro di ricerca aveva goduto fra le maglie larghe della scarsa regolamentazione. Erano gli anni in cui, grazie alle sovvenzioni "marginali" delle municipalità e degli enti locali, si era disegnato un circuito alternativo e parallelo rispetto al teatro ufficiale, sovvenzionato dallo stato. Il risultato, è il panorama teatrale diversificato che è sotto gli occhi di tutti (un panorama, però - va pur detto -difficilmente dilatabile nella situazione attuale, e soprattutto non in grado di assorbire le nuove emergenze). E' un fatto, comunque, che in tutti questi anni, quanti lamentavano l'inadeguatezza degli spazi e delle risorse per il teatro vedevano come un miraggio la prospettiva di una legge, da sempre attesa nel nostro paese. Oggi che di questa legge l'efficiente vicepresidente Veltroni ha presentato un disegno, credo sia quanto mai evidente che lo sforzo del nuovo teatro debba essere quello di costruirsi una nuova extraterritorialità. Il disegno di legge (che non è comunque questa la sede per analizzare a fondo) prevede in particolare una serie di steccati fra ambiti e tipologie teatrali nonché precise distinzioni di competenze fra Stato, Regioni e Comuni, il che porrà certamente dei limiti sempre più invalicabili a quella situazione di dialogo diretto ed estemporaneo che negli anni migliori ha potuto realizzarsi fra la nascita (o l'arrivo in Italia) delle nuove esperienze e l'attivazione di risorse locali e decentrate.

Vita nomade
Una delle parole chiave del disegno di legge Veltroni è programmazione, un'altra è progetto, una terza è stabilità. Tre parole in netto contrasto con la vita dell'arte teatrale, per sua natura incontrollabile, sensibile al divenire e capace costantemente di sorprendere, anticipando i tempi e ponendo la pratica prima della teoria. E' persino superfluo spiegare che l'atteggiamento di controllo del legislatore è quanto di più lontano si possa immaginare dalla biologia della cultura teatrale, soprattutto laddove si intende demandare a un nascituro Centro Nazionale del Teatro organizzato in forma di Società per Azioni l'erogazione dei finanziamenti, sulla base di progetti triennali da valutare a priori.
Figuriamoci se mai una delle esperienze che hanno contrassegnato la storia del teatro avrebbe potuto essere programmata o riconosciuta e promossa preventivamente dagli amministratori! Per non parlare del progetto di istituire due Teatri Nazionali, nonché della straordinaria attenzione data alla drammaturgia italiana contemporanea, definizione che esaurisce lo spazio dedicato al nuovo e alla ricerca - il che d'altro canto non deve stupire, avendo la legge come oggetto il teatro di prosa, come se il secolo che volge al termine non avesse ampiamente infranto le distinzioni fra i generi, rendendo definitivamente obsoleta tale formulazione. Ma tant'è: il teatro - come abbiamo letto nell'ultimo numero di Teatri di vita - "è da un'altra parte" (3).
E mentre la nuova legge fa passi da gigante verso l'approvazione, un altro miraggio prende sempre maggiore consistenza: quello delle "case del teatro". E qui farò una parte di autocritica, in quanto mi è capitato di appoggiare e dare il mio contributo alla formulazione di progetti che portano questo nome (perché è in particolare ai significati veicolati dal nome che si appunta la mia critica). A fronte delle sempre più pressanti richieste di spazi per i giovani artisti e gruppi teatrali, in molte città stanno nascendo soluzioni definite "case del teatro", che rischiano di nascere già vecchie, come la legge.
Intanto, il concetto di casa contiene un significato di stanzialità e presuppone inoltre l'esistenza di un padrone di casa, un ospite. Ma la vita del teatro è sostanzialmente nomade e poco inquadrabile in ritmi e regole "casalinghi". Il teatro vivente delle città ha bisogno di spazi che gli assomiglino, con caratteristiche di modificabilità, dove l'invenzione artistica possa andare di pari passo con l'invenzione dell'ambiente, inteso come struttura fisica ma anche come insieme delle relazioni umane.
Ora, è pur vero che ci sarà (e già c'è) chi riuscirà a coniugare la stanzialità istituzionale con il rischio del teatro, ma noi riteniamo che artisti, organizzatori ed amministratori dovrebbero piuttosto dimostrare una più esplicita vocazione a lavorare nello spazio dell'imprevedibilità, concependo luoghi dove il vento del nuovo sia libero di soffiare. "Lasciate che il vento soffi", chiedeva John Cage, giocando col doppio significato della frase per dire dello strumento a fiato in particolare e dell'arte in generale. Eppure in tante città si chiudono spazi aperti al libero incrociarsi dei venti (spazi recuperati in fabbriche in disuso, o in edifici non teatrali, come è avvenuto recentemente a Bologna) e si aprono "case", che presuppongono - almeno nell'idea - porte e finestre ben attrezzate contro gli spifferi. Judith Malina ha continuato a chiamare "teatro" anche l'ultimo spazio aperto a New York. Non di meno, la notte, era meta dei senza tetto del quartiere che vi trovavano riparo.
All'idea di casa del teatro fa in qualche modo riscontro il concetto di residenza contenuto nel nuovo disegno legge. E' uno dei punti accolti con maggiore favore, anche da quanti ne sottolineano la sostanziale ambiguità fra opportunità di apertura a progetti internazionali e lavoro stanziale sul "territorio". Ma anche in questo caso, credo sia la scelta del termine a doverci rendere sospettosi. In altri anni non si sarebbe mai parlato di residenza teatrale (o di un teatro residente) per riferirsi a un insediamento "radicale" destinato a produrre nuove esperienze, sia in rapporto alla ricerca artistica sia in rapporto al territorio. Si sarebbe parlato di laboratorio, di teatro laboratoriale, parole ormai desuete, e che forse in passato non hanno esaudito del tutto le premesse, ma che sarebbe il caso di rilanciare in nome di un recuperato atteggiamento sperimentale. A significare luoghi ed esperienze artistiche intesi come verifica pratica di orizzonti futuri. Ma in che senso dirigere tale verifica e quali orizzonti è pensabile prospettare?
Arriverò qui alla parte propositiva del mio ragionamento, che è in gran parte frutto delle riflessioni che hanno avuto come prima occasione la tavola rotonda sul teatro nell'ambito della 3a Fiera dell'Autogestione di Marina di Pietrasanta (6 settembre 1996). Credo che l'alternativa al teatro regolamentato e accasato si ponga quanto mai oggi all'insegna della necessità: necessità di sperimentare forme diverse in termini di organizzazione sociale ed economica, oltre che sul piano creativo ed artistico. Ritengo che, per i giovani che cercano oggi la possibilità di realizzare un proprio teatro, un atteggiamento di attesa rispetto alle istituzioni rischi di essere perdente. Da una parte, l'esistenza di una legge tenderà a restringere inevitabilmente gli spazi "imprevisti" sui quali hanno potuto agire con inventiva i giovani di un ventennio fa; e d'altra parte il ridimensionamento dello stato sociale, con gli inevitabili tagli alle spese per i servizi culturali, già prelude ampiamente a una logica di razionalizzazione delle risorse per il teatro decisamente poco favorevole al teatro giovanile. Si tratterà allora, per chi non abita case né territori garantiti, di trasformare l'extraterritorialità in risorsa, ossia in condizione di sperimentazione positiva. La vera utopia (nel senso corrente del termine) sarebbe oggi pensare che l'istituzione possa essere in grado di accogliere l'emergenza teatrale (nei due sensi, di teatro in via di affermazione e di teatro in condizione di precarietà di mezzi) e dare risposte.

Teatro e case
Occorre che il teatro faccia propria la riflessione che, proprio in tempi di crisi del welfare state, sta dando nuovo vigore al movimento autogestionario nei suoi vari ambiti. Come creare il nuovo nel guscio del vecchio, questo è il progetto da darsi nell'immediato, dice Judith Malina. E, fuori di metafora, come creare momenti di autonomia dall'istituzione, nel contesto di un sistema teatrale basato su logiche di mercato, attraversato da criteri di valore sempre più aziendalistici e governato da una burocratizzazione sempre più folle. Parafrasando una riflessione di Maria Matteo,(4) credo si tratti di creare una sfera teatrale pubblica non istituzionale. Non nicchie di sopravvivenza, ma proposte capaci di allargarsi al corpo sociale e pervarderlo, coinvolgendo la partecipazione diretta dei cittadini, ossia del pubblico, da rendere parte integrante del proprio progetto. Un modo per realizzare l'obiettivo invocato da tanto teatro di ricerca, di fare dello spettatore non un utente ma un soggetto sociale e culturale attivo e partecipe, da coinvolgere nel progetto e nel reperimento delle risorse. E occorrerà inoltre pensare a forme di economia integrate, per creare condizioni di autofinanziamento che consentano uno svincolamento (almeno parziale) dall'erogazione dei contributi pubblici. In questo senso, almeno inizialmente, la dimensione ridotta può garantire la sperimentazione.
Esistono esempi di tutto questo, per il momento decisamente limitati (penso al centro culturale Espace Noir nel Giura svizzero, ma (5) anche alla comune Urupia, nel Salento, che ha in programma l'apertura di una serie di attività teatrali).
Vorrei citare una sola esperienza, significativa nella sua marginalità. Vicino a Bologna, in località Castello di Serravalle, è stato di recente realizzato un progetto chiamato "A teatro nelle case", ideato e organizzato da due piccole associazioni culturali, Il Baule e il Teatro delle Ariette (che ha anche un'attività agrituristica). Il progetto, completamente autogestito e autofinanziato, ha portato nelle case di quanti hanno offerto la loro disponibilità una serie di spettacoli, che sono stati pagati dal contributo libero e volontario degli spettatori. L'anomalia del progetto ha consentito fra l'altro la realizzazione di eventi altrettanto anomali, come l'incontro con Gino Venturi, un sopravvissuto dai campi di concentramento nazisti, che ha fatto rivivere la sua memoria di fronte a un pubblico di adulti e bambini. Nel suo complesso, trovo che l'esperienza sia stata significativa perché ha dimostrato diverse cose: che il teatro può entrare in case private e trasformarle in luoghi pubblici non istituzionali; che la sperimentazione di forme alternative ha maggiore possibilità di successo se condivisa e presa in carico, a livello progettuale e organizzativo, da attori e spettatori insieme; e infine che nella situazione attuale è necessario rimettere al centro le ragioni fondamentali del teatro, lavorare nelle zone che sono in grado di esprimere un bisogno reale e un'adesione autentica, e farlo attraverso una pratica di sperimentazione a tutto campo, che investa allo stesso modo la ricerca artistica, le forme di organizzazione e le strategie di sopravvivenza.

1. C. Valenti, Conversazioni con Judith Malina, Milano, Elèuthera, 1995, p. 86.
2. Idem, p. 89.
3. La legge del desiderio, in Teatri di vita, Bologna, ed. riflessi, a. III, num. 5/6 (maggio/giugno 1997), p. 1.
4. Autogestione e cooperazione sociale, in "A" 218.
5. Cfr. Arcipelago. Bollettino di collegamento delle agenzie/laboratorio per l'autogestione, a. I, num. 0, estate 1996, p. 8.