Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 28 nr. 242
febbraio 1998


Rivista Anarchica Online

Prediche di capodanno
di Carlo Oliva

Perché ci convince poco il garantismo che da qualche tempo caratterizza il dibattito politico in Italia

Strane cose succedono, a volte, in questo paese. Il presidente della repubblica, in un'occasione tradizionalmente dedicata all'elencazione di un certo numero di cortesi banalità, qual è il messaggio televisivo per gli auguri per capodanno (un'occasione di carattere non istituzionale, non rientrando nei doveri del capo dello stato quello di fare gli auguri ai cittadini, ma di notevole portata mediatica, che è poi la cosa che conta) si lascia sfuggire ad arte una banalità un po' meno banale delle altre. I magistrati, dice, non devono "abusare" della carcerazione preventiva. Il comportamento di quanti fra di loro minacciano gli indagati con la classica frase "o parli o rimani dentro", oltre a essere, gli si consenta, un sintomo di rozzezza, "non ha spazio nella civiltà giuridica di nessun Paese", anzi, "ha spazio sotto la voce tortura" e "il tintinnio delle manette davanti alla faccia di uno che è interrogato da qualche collaboratore è un sistema abietto". Tutti, naturalmente, il giorno dopo gli daranno ragione: se da un lato è ben noto a chiunque che quel sistema, per rozzo e abietto che sia, è largamente impiegato dagli organi polizieschi e inquirenti di tutto il mondo, Italia compresa, dall'altro il presidente ha avuto la bontà di non fare nomi, di parlare, come si dice, in via generale, e in via generale dargli ragione non costa nulla. Lo stesso procuratore Borrelli, uno che a far tintinnare le manette non ha mai avuto scrupoli particolari, dichiara che il pio Oscar Luigi "ha enunciato una serie di principi generali" dai quali non vede "come sia possibile dissentire".
L'unico che s'incazza, a quanto pare, è il senatore Di Pietro. Forte della sua fama di salvatore del paese per via inquisitoria, costui prende la penna e manda a Scalfaro una bella lettera aperta. Le sue dichiarazioni, scrive, non gli piacciono proprio, soprattutto per la loro vaghezza, che "lascia alla libera interpretazione dei soliti noti la possibilità di adattare le sue parole ai propri interessi". E poi, "a chi e a quale caso" si riferisce il signor Presidente? Quale carcerazione preventiva, per lui, "è stata un eccesso?" Insomma, si creda a lui: carcerare preventivamente si può e si deve fare. L'affermazione, provenendo dal più noto pubblico accusatore della nostra storia recente, ha in sé un che di excusatio non petita, che poi è sempre, come noto, un'accusatio manifesta. Nello specifico, un'autoaccusa, un'autoassunzione del ruolo di Grande Incarceratore. Infatti nei giorni successivi lo scritto di Di Pietro offrirà ampie occasioni di polemica a quanti sostengono che Scalfaro ha parlato pro domo loro, cioé a quegli esponenti del Polo impegnati da un pezzo contro le procure e la loro bizzarra pretesa di sottoporre a processo i Berlusconi e i Previti, e getterà nel più fiero imbarazzo i politici dell'Ulivo, che da un lato si professano amici dei giudici, ma dall'altro devono fare i conti con un certo numero di preclusioni ideologiche garantiste retaggio del loro passato e adesso si trovano in casa uno che dà sulla voce al presidente a proposito della liceità di usare la minaccia del carcere come strumento di pressione. Ben gli sta.

La solita comparsata
Il bello è che, per una volta, il ragionamento di Di Pietro è ineccepibile. In fondo ha semplicemente invitato Scalfaro a entrare nei particolari, a fare i nomi. Perché una cosa è dire che una tale azione non si deve fare perché non sta bene, così, in astratto, e un'altra è dichiarare che il tale l'ha commessa, in quella specifica circostanza, con quegli specifici risultati. Nel primo caso siamo di fronte a una predica, nel secondo a una denuncia circostanziata, ed è ovvio che non di prediche, ma di denunce quanto più circostanziate possibile il paese ha bisogno. Ma, in fondo, anche Di Pietro è ricaduto nell'errore che rimprovera al suo interlocutore, perché si è guardato bene dall'entrare nei particolari che lo riguardano. Ha fatto capire che minacciare di incarcerazione qualcuno per farlo parlare non è poi una cosa così abietta, quando lo richiede il bene del paese, ma si è ben guardato dal dichiarare "Ebbene sì, io quel tal giorno ho prospettato l'idea di un lungo soggiorno in prigione al Tale e al Talaltro, ricavandone piena ammissione di responsabilità e larga denuncia dei corresponsabili e me ne vanto". Ci mancherebbe altro. Ormai è un politico anche lui e maneggia da maestro l'arte, politica quant'altra mai, della comunicazione traversale.
Insomma, i cittadini, ancora esausti dalle fatiche natalizie [nota per Tobia Imperato: questa è una battuta, non sottintendo che tutti i cittadini debbano festeggiare il Natale], si sono trovati di fronte alla solita comparsata, in cui due aspiranti, rispettivamente, alla permamenza e al subentro in carica hanno cercato di sfruttare a vantaggio della propria immagine due linee ideologiche che variamente s'intersecano nella pubblica opinione: il compiacimento per l'opera di una magistratura che, quali che siano stati i suoi metodi, ha ostensibilmente eliminato una certa quantità di politici corrotti e la preoccupazione che quei metodi prendano (o abbiano preso) un po' troppo piede, con grave danno per le guarentige di libertà personale. E lo hanno fatto entrambi tenendosi accuratamente nel vago, guardandosi bene dall'entrare nei problemi concreti. Tra i quali, come si sa, il principale è quello rappresentato dalla pretesa della destra di condizionare il proprio assenso alle "riforme" istituzionali a suo tempo concordate alla concessione di un'ampia amnistia a tutti i rei di corruzione, condannati, indagati o in corso di indagine, a partire, ovviamente, dall'on. Berlusconi e dai suoi collaboratori più stretti. Pretesa a cui sembra di poter dedurre che Scalfaro, con quel suo modo caratteristicamente tortuoso, ha, questo capodanno, conferito un po' di peso in più (ma questa è solo un'impressione di chi scrive e staremo a vedere).
Di questa pretesa, naturalmente, non varrebbe neanche la pena di parlare (chiunque, ovviamente, ambisce a non pagare il fio delle sue eventuali malefatte ed è disposto, a tal fine, a ricorrere a tutti i mezzi a sua disposizione), se non si incrociasse con almeno un paio di problemi più seri. Il primo è che, in un modo o nell'altro, si è riusciti a legare impropriamente il problema dell'amnistia per i corruttori e i corrotti (meglio noto come "uscita da Tangentopoli") con quello, ormai, vetusto dell' "uscita dagli anni di piombo", ovvero della eliminazione, mediante indulto o per altra via, delle conseguenze abnormi della legislazione d'emergenza sul destino carcerario di un certo numero di detenuti per fatti variamente legati alla lotta armata negli anni '70. Si è capito, ormai, che una certa parte politica non è disposta a consentire che si risolva il secondo problema se prima l'altra parte non avrà ceduto sul primo.
Ora, non è il caso di ritornare oggi su un argomento che ho avuto fin troppo spesso occasione di trattare per i lettori di "A", ma è evidente che la contrapposizione, oltre che artificiale, è del tutto impropria. Sono pronto a concedere che, forse, una certa percentuale degli indagati per corruzione e affini può avere a proprio favore delle ragioni che meritano di essere valutate e non auguro comunque a nessuno di loro di finire in galera (nemmeno all'on. Previti, che non penso comunque ci finirà), ma l'equivalenza tra le due categorie non si può proprio fare. Considerazioni di pericolosità sociale a parte (e sono ben più pericolosi certi corruttori e concussori socialmente potenti che non gli sconfitti di una lotta chiusasi più di vent'anni fa), resta indubitabile che i duecento ex militanti della lotta armati e presunti tali ancora in carcere o in esilio scontano o devono scontare una serie di condanne ormai definitive, che hanno esaurito un iter giudiziario che ha presumibilmente chiarito tutto quanto c'era da chiarire, mentre i processi ai vari indagati di "Mani pulite" sono ancora, in gran parte, tutti da celebrare e la verità giudiziaria sul loro conto è ben lungi dall'essere definita. La differenza, checché possa pensarne l'on. Berlusconi, non è di poco conto.

Giustizia di classe
L'altro problema è ancora più grave. È che non possiamo far finta di non capire che l'ondata di garantismo che da qualche tempo caratterizza il dibattito sui problemi della giustizia in Italia si è avviata da quando, per un motivo o per l'altro, nel mirino delle pubbliche accuse sono finiti personaggi di un certo peso sociale e politico. Da quando, per una serie di complicazioni bizzarre e probabilmente tutt'altro che volute, il rischio di finire in galera, o comunque di perdere i propri privilegi e il proprio potere, lo corrono certi "distinti" esponenti della classe dirigente.
Non è la prima volta che Scalfaro, che ha un lontano passato di magistrato alle spalle, parla degli "eccessi" dei pubblici ministeri (ha cominciato, se non erro, nel 1993, nel corso di una visita di stato in Spagna, e Di Pietro, che allora era solo un magistrato in carriera, sia pure illustre, dichiarò di essere perfettamente d'accordo), ma, sarà un caso, lo ha fatto soprattutto in relazione esplicita o implicita con episodi di questo livello. E in fondo anche le "vittime" dei vari Di Pietro, salvo un paio di casi esemplari, in galera ci sono soltanto passate di striscio. Hanno incassato le loro brave accuse, hanno detto quello che dovevano dire e sono usciti tutti di gran carriera. Mentre sappiamo tutti che la prassi giudiziaria italiana è piena di poveri cristi che dietro le sbarre ci finiscono subito e poi si vedrà, che parlino o che non parlino, di malcapitati socialmente trascurabili su cui il sistema si accanisce con meccanica impersonalità e le cui vicende non fanno neanche cronaca. Che la giustizia, in Italia come in tutti gli altri paesi, ha certe caratterizzazioni "di classe" di cui non è di moda parlare, ma che lasciano assai perplessi quando si sente parlare del suo funzionamento come se fosse socialmente neutrale.
Di tutto questo, comunque, sarà difficile sentir parlare nelle prossime prediche di capodanno.