Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Né dalla psicoanalisi, né dal marxismo
Accade che Woody Allen, fino ad oggi convinto di quanto la psicoanalisi lo abbia aiutato "ad essere
produttivo"
senza lasciarsi trascinare dalla "depressione", ora, invece, dica che "finché la gente non arriverà
a dare un senso
compiuto, interiore, alla propria esistenza, al senso o anche al non senso della vita, tutte le teorie psicoanalitiche
di questa terra, tutte le rivoluzioni sociali, tutti i cambi di governo non daranno risposta ai loro bisogni e ai loro
perché". Dalla corporazione, risponde subito Silvia Vegetti Finzi che gli rinfaccia "supina adesione
alle mode imperanti".
"Tra queste l'abbandono di due grandi prospettive del Novecento: cambiare sé stessi, cambiare la
società. Vale
a dire psicoanalisi e marxismo". Dubito delle ragioni di entrambi. "Hanno la stampa, hanno la Borsa, ora
hanno anche il subconscio !", diceva Kraus già all'epoca, ovvero fra il
1909 e il 1919, riferendosi alle classi dominanti. E, sostenendo che la psicoanalisi fosse "quella malattia di cui
ritiene di essere la terapia", auspicava "una scienza dell'anima che, quando uno parla di sesso, gli sveli che in
realtà si riferisce all'arte", dicendosi già contento "se si riuscisse a provare a uno che parla di
psicologia che il suo
inconscio in realtà intendeva dire un'altra cosa". Kraus andava al fondo del problema prima e meglio di
quanto
poi avrebbero fatto i riduttivi critici della pretesa "scientificità" della psicoanalisi. Per esempio, Popper,
per il
quale la disciplina non sarebbe scientifica perché non confutabile fattualmente (e l'avverbio va considerato
un
armadio zeppo di cadaveri); o per esempio Nagel, il quale fa notare che, nella teoria freudiana, "le metafore
vengono usate senza norme" (e fa il caso di "energia" e di "livello di eccitazione" che, in quanto metafore, "non
hanno alcun contenuto specifico, e possono essere riempite a piacere"). A dire il vero, il bersaglio di costoro non
era affatto immotivato, perché è noto che Freud ambiva, per la propria creatura, ad uno statuto
di scienza
"naturale" ed a ritrovare nel cervello, in termini di funzionamenti, quanto ipotizzava in termini di funzioni (la
stessa pretesa che sarà poi condivisa dal suo "angelo ribelle", Wilhelm Reich). Di ragioni per dubitare
che la psicoanalisi possa essere una delle grandi prospettive del Novecento, dunque, ce
ne sarebbero a iosa: non sta granché in piedi ed è tutt'altro che rivoluzionaria. Scusandomi della
fretta, vado oltre,
al bersaglio più grosso. Sui difetti del marxismo si sono rovesciati fiumi d'inchiostro - anche nel
tentativo di fare una bella macchia che
occultasse il più possibile. È stato notato quanto oscura restasse la metafora di quella "dialettica
" che, come
metodo "sicuro" di conoscenza, pretendeva di poter costruire tramite una negazione. È stato notato come
la
famosa "dittatura del proletariato" si traducesse in una "dittatura degli intellettuali" riproducendo tutte le
disparità
che si avrebbe voluto far sparire. È stato anche notato che le pronosticate e meccaniche "fasi di
transizione", o
"vie di passaggio", al socialismo non sono che, quando va bene, pie illusioni. Soprattutto, già a Marx
prima ancora che al marxismo, a mio avviso, andrebbe imputata la carenza critica nei
confronti del sapere che, alla divisione in classi, ha da sempre, in un modo o nell'altro, fornito giustificazioni.
Marx i conti con la filosofia li lascia a mezz'aria. Ne La miseria della filosofia (scritta fra il dicembre
del 1846
e il giugno del 1847), Marx se la prende con il Système des contradictions économiques
to Philosophie de la
misère appena pubblicato di fresco da Proudhon e sforna una tesi importante ma ottimisticamente
monca: "Gli
economisti sono i rappresentanti scientifici della classe borghese. Alla filosofia in quanto tale, alla sua teoria della
conoscenza, dedica, al massimo, un buffetto: le rimprovera semplicemente di "annegare" quello che lui chiama
"il mondo reale" nelle "astrazioni". Berkeley, Hume e Kant - per rimanere a tre pensatori cui avrebbe potuto
avere facile accesso -, pur rimanendo ben dentro la greppia filosofica, erano stati più radicali. Non a caso,
il
marxista Lenin, più tardi, in Materialismo e empiriocriticismo (1909), muoverà all
attacco di Mach, Avenarius
e, questione per lui immediatamente più cara, di Bogdanov e compagni della sinistra bolscevica, in nome
del
realismo - cioè di uno dei capisaldi della tradizione filosofica ed autentico "cane da guardia " della cultura
del
padrone di ogni tempo e di ogni paese. Dunque, neppure il marxismo aveva le carte in regola per "cambiare
la società". E i risultati conseguiti dalla
cultura marxista giunta al potere, fatta la debita tara delle circostanze, non possono essere considerati
accidentali. Il Novecento (ammesso e non concesso che questa collocazione sia sensata), allora, non ha offerto
poi quel
granché. O, almeno, quel granché di rivoluzionario, non ci è arrivato né dal
marxismo né tantomeno dalla
psicoanalisi. Né, tantomeno, ci potrà arrivare dai neo-misticismi di Woody Allen. E il fatto stesso
di tirare in ballo
due discipline, o due punti di vista, per poter rovesciare un sistema di valori che, curiosamente, viene segmentato
in due cose distinte - la persona e la società in cui vive - dovrebbe indurre a gravi sospetti.
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