Rivista Anarchica Online
Se ti ribelli sei matto
di Libero Medina
La funzione repressiva della psichiatria
Due fatti giudiziari recenti hanno portato alla ribalta della cronaca il problema dei
"matti". Primo. Il procuratore della Repubblica di Gorizia ha chiesto l'incriminazione del Prof.
Franco Basaglia,
attualmente primario dell'ospedale psichiatrico di Colorno (Parma), per omicidio colposo. Motivo: nel
settembre del 1968 un anziano contadino Giovanni Miklus, appena dimesso dall'ospedale psichiatrico
di
Gorizia (allora diretto dal Basaglia) uccise la moglie. La richiesta di incriminazione, insolita nel suo
genere, diventa significativa se si pensa che quello di
Gorizia era un ospedale psichiatrico sperimentale di tipo "aperto", con "assemblee" frequenti dei malati,
dei medici, e degli infermieri, spesso allargate anche a parenti, studenti, visitatori. Esclusione drastica
dell'elettroshock e dell'insulinoterapia; riduzione al minimo dell'uso dei farmaci; reparto unico maschile
e femminile; gite, attività artistiche, lavoro... Dunque la richiesta di incriminazione di
Basaglia è un attacco della retroguardia culturale e politica, una
sortita reazionaria, non nuova né infrequente per la magistratura italiana, ma probabilmente
destinata a
rientrare perché non in armonia col processo di razionalizzazione in atto (i ministri e i
sottosegretari della
Sanità e della Giustizia si stanno occupando del caso...). Secondo. Il prof. Edelweiss Cotti
con i suoi assistenti Tesi, Bruni e Tusulin sono stati assolti dal tribunale
di Udine, per intervenuta amnistia, dalle imputazioni di violazione di domicilio, danneggiamento
aggravato, usurpamento di funzione pubblica. I fatti di cui erano imputati si riferivano
all'occupazione del reparto psichiatrico dell'ospedale di Cividale
(Udine) effettuata dal Cotti, dai suoi assistenti e dai suoi malati dal 31 agosto al 2 settembre del 1968,
per
protesta contro la decisione della direzione di chiudere il reparto. Questo era stato condotto sin dalla
sua apertura (gennaio 1968) con criteri di "manicomio aperto" dal
Prof. Cotti e dai suoi assistenti, secondo i criteri già applicati dal Basaglia, nella non lontana
Gorizia. I
pazienti erano liberi di uscire dall'ospedale, di andare nei bar, al cinema... Non v'erano stati incidenti
nel reparto, tranne il suicidio di un paziente che prima di morire aveva detto
al Cotti: "Mi perdoni, dottore, Lei mi ha fatto tanto bene ed io la ricambio così". Eppure la
direzione,
preoccupatissima della terapia "rivoluzionaria", aveva deciso di chiudere il reparto. Il prof. Cotti, che
ora si occupa dei servizi di prevenzione psichiatrica di Bologna, è giunto a conclusioni
sulla psichiatria ancora più estreme e radicali del Basaglia. Egli sostiene infatti paradossalmente
"... la
malattia mentale non esiste e nella mia esperienza non ho riscontrato finora un solo caso che mi
dimostrasse il contrario..."; intendo con questo che tutte le persone, "matti" compresi, sono psichicamente
condizionate dall'ambiente di vita, di studio e di lavoro; che non i matti andrebbero curati ma l'ambiente
assurdo, violento, inumano in cui tutti viviamo e a cui qualcuno non riesce ad ambientarsi. Il
Miklus, causa dell'incriminazione del prof. Basaglia, è un ex-partigiano che non è mai
riuscito ad
accettare il tradimento della Resistenza. Ha combattuto per la rivoluzione, per il socialismo, per una
società più giusta, libera ed egualitaria e si è ritrovato con questa bella
Repubblica. Non è riuscito, come tanti altri, ad inghiottire la sua delusione ed è
diventato "matto". L'hanno rinchiuso in manicomio (era un contadino e non poteva pagarsi "una casa
di cura") e lì la
"terapia" della segregazione e della camicia di forza ha fatto il resto. Chi è "matto", lui o chi
ha accettato il tradimento degli ideali socialisti della Resistenza e di questo si è
fatto magari sgabello per fare carriera e, tradendo ogni giorno la Resistenza e intrallazzando con padroni
e fascisti da 25 anni, ogni giorno va blaterando di Resistenza, di socialismo, di antifascismo? Sul
tema della psichiatria repressiva pubblichiamo un articolo del compagno Libero Medina che si sta
laureando con una tesi sull'argomento.
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REPRESSIONE ISTITUZIONALIZZATA
"Signori, noi ci schiereremo contro il potere - più o meno limitato
- attribuito a degli uomini di sancire con la
reclusione a vita le loro indagini nel campo della psiche. ... Tutti sanno... che gli
ospedali psichiatrici, ben lungi dall'essere tali, sono orride galere, i cui detenuti
forniscono una manodopera gratuita e comoda, in cui le sevizie sono la regola: E VOI TOLLERATE
TUTTO QUESTO. Il manicomio sotto la copertura della scienza e della giustizia, è paragonabile
alla
caserma, alla prigione, al bagno penale." (1) Sono passati quasi cinquanta anni, eppure le
parole di Artaud sono tuttora valide: ma insufficienti.
Nell'attuale stadio del capitalismo (di Stato e non), la razionalizzazione dello sfruttamento in campo
economico impone un maggior controllo della forza-lavoro attraverso più sottili strumenti di
controllo.
Ne consegue che il margine di libertà concesso all'individuo tende a scomparire. Per la classe
dominante, l'esistenza della malattia mentale è un dato di fatto irrefutabile,
oggettivo. Le
cause della malattia sono immediatamente trovate: l'ereditarietà, l'alcolismo, "l'ambiente
familiare", la
razza... Più generalmente, assume il ruolo di malato mentale chiunque trasgredisca a
quell'insieme di
regole e di leggi, scritte o meno, che formano la norma di questo sistema sociale. È
un punto d'onore
della "scienza" attuale quello di guarire tutti i mali: anche la malattia mentale. È per questo che
esistono
dei luoghi di cura "appositamente studiati", dove il malato viene curato, sotto l'attenta guida
del medico
(che in questo caso si chiama psichiatra), al fine di essere reinserito in quel processo produttivo da cui
era stato, magari brevemente, ma certo necessariamente, allontanato. Questa è,
in sintesi, la posizione della classe dominante per quanto riguarda il problema della "malattia
mentale". Ma la realtà è diversa. Nell'organizzazione della società attuale,
che possiamo tranquillamente chiamare organizzazione dello
sfruttamento, la norma è la repressione costante e sistematica di ogni azione che
tenti di abbattere il
sistema, o che, più semplicemente, non sì è integrata nel comune schema
comportamentale. Chiunque
trasgredisce la norma, in una delle sue molteplici accezioni, dal 'comune sentimento del
pudore' alla
classificazione politica più o meno 'ortodossa', è un trasgressore, un
anormale. È diverso, e quindi è un
nemico. E come tale viene trattato per la sua incapacità di rifiutare la propria personalità,
anche chi, pur
subendo passivamente il sistema vigente, non riesce tuttavia ad accettarne la logica. Ogni comportamento
spontaneo, naturale, proprio per il fatto di essere tale, viene subito individuato come diverso e
quindi
anormale. La "malattia" è la sanzione ufficiale della diversità: la pena (la
segregazione) viene espiata nei manicomi,
che il sistema cerca di spacciare come "luoghi deputati alla cura, alla salvaguardia ed al recupero del
malato mentale". Ma cosa sono, in realtà, gli ospedali psichiatrici? E, soprattutto: esiste davvero
la
malattia mentale?
La malattia mentale non esiste
Dovrebbe essere chiaro, da quanto finora detto, che non solo la "malattia" non esiste, ma che - anzi
-
sotto l'etichetta di malattia si nasconde un tipo di esclusione molto sottile e mistificata. "La malattia
mentale o pazzia non esiste. Non si tratta di un fatto individuale, ma collettivo, sostenuto
volontariamente dalle forze che detengono il potere con conseguenze disastrose...
soprattutto... per gli
appartenenti alle classi più povere". "... non si tratta di essere sani o pazzi; siamo
semplicemente uomini per i quali la storia è determinante.
Storia che è funzione dell'ambiente. Ambiente che è funzione della società
(2). Anche l'ignoranza, per gli psichiatri, può esser una malattia: chi infatti non sia al corrente
delle forme di
comportamento di un determinato ambiente, potrà comportarsi in modo tale da essere
considerato
anormale o almeno un isolato un disadattato. Guai inoltre a chi ricorda le guerre in tempo di pace, a chi
non crede nel benessere della società dei consumi, a chi teme che l'insaziabilità del
capitalismo possa
condurci ad una nuova guerra: gli psichiatri potrebbero accusarlo di soffrire di delirio di
persecuzione. E viene internato: la "società del benessere" ha tanto paura che sia conosciuto
il suo vero volto, da
individuare come segno di 'malattia' l'avere coscienza del proprio sfruttamento. Se il sistema ha
paura dei pazzi, vuol dire però che i pazzi in qualche modo devono essere pericolosi, e
sono infatti pericolosi non perché violenti, non perché imprevedibili, ma perché
essi sono coloro che non
possono o non vogliono stare al gioco di una società fondata sulla competizione e sulla violenza...
pazzo
è l'operaio che sopraffatto dalla fatica minaccia il suicidio, pazzo è l'aviatore americano
che dopo aver
lanciato la bomba atomica ha il torto di pensare di avere delle gravi responsabilità, e non si sente
un eroe,
come il suo governo pretenderebbe... Si rinchiudono oggi queste persone nei manicomi come si fucilano
durante la guerra quelli che mostrano sfiducia nella vittoria e che criticano la violenza. I secondi
debilitano
il morale delle truppe, i primi mettono in crisi i falsi valori di una società disumana. Ma ci
sono altre categorie di persone che vanno ad ingrossare le fila degli internati. "I rapidi cambiamenti
nell'economia di intere regioni, dovuti agli interessi delle grandi industrie, sono un'altra causa più
o meno
diretta dell'esclusione manicomiale. Le zone agricole in via di spopolamento lasciano nei manicomi un
numero notevole di persone inadatte all'emigrazione. Altri clienti degli ospedali psichiatrici
verranno
reclutati tra quegli emigrati che nella loro nuova sede incontreranno difficoltà di lavoro, di
alloggio e di
ambientamento impreviste o, anche se previste, non facilmente superabili... Inoltre, idee di qualunque
genere, se non conformi alla retorica del sistema possono essere esaminate come deliri insensati e
soprattutto privi di qualunque possibilità di comunicazione.
L'internato e l'istituzione
Il problema della "pazzia" è quindi il problema del che cosa fare
delle persone non integrate o che
comunque sono "fuori". La problematica del manicomio rientra in quella delle istituzioni che Goffman
(3) chiama "totali", quali le carceri, l'esercito, i monasteri, la scuola, i ricoveri per vecchi, gli orfanotrofi,
ecc. Tutte queste istituzioni sanciscono l'esclusione di quanti vi si trovano dal resto del mondo, e la loro
storia è una storia di sopraffazione e di violenza. Emanazione della classe dominante, di questa
fanno
propri i "valori base", e tendono a ricreare nella loro organizzazione interna i rapporti tipici della
società
esterna. Questo significa divisione dei ruoli, non intercambiabilità delle funzioni,
settorializzazione,
repressione dei comportamenti anomali. Create ad immagine e somiglianza di una società
autoritaria e
sfruttatrice, di questa riflettono (in scala minore, e quindi in maniera più evidente) le
contraddizioni. Create con una duplice funzione, di custodi e di cura, gli ospedali psichiatrici si
battono tra questi due
"estremi", avvicinandosi all'uno o all'altro secondo che il direttore dell'ospedale sia più o meno
"democratico". Dal momento del suo ingresso nell'ospedale psichiatrico, l'internato è fatto
segno di una serie
interminabile di sevizie, sia sul piano fisico che su quello mentale; tanto da fare dire, a psichiatri che
rifiutano il concetto (e quindi l'esistenza) di una malattia mentale, che una lunga permanenza in tale
"luogo di cura" produce danni difficilmente riparabili. In un ospedale di tipo "chiuso", a carattere
custodialistico-repressivo, il primo passo
dell'istituzionalizzazione è la spoliazione dell'individuo: privato di tutti gli "effetti
personali", rapato a
zero, vestito con una divisa che lo consegna alla vergogna dell'esclusione e all'anonimato di un numero,
l'internato passa attraverso vari sistemi "curativi". Viene sottoposto all'elettroshock, allo shock insulinico,
all'ergoterapia... viene rinchiuso nelle camicie di contenzione, sottoposto all'azione di massicce dosi di
psico-farmaci... tutti rimedi che sono ormai, provatamente, peggiori del "male". Costretto ad uniformarsi
ad una norma costantemente presente, imposta con la logica del sistema dei reparti, dei premi e delle
punizioni, costretto a rinunciare ai propri valori, l'internato viene rilasciato solo quando è riuscito
a
dimostrare ai suoi 'curatori' di essersi perfettamente uniformato alla logica dominante, e di avere
definitivamente rinunciato alla propria personalità... L'istituzione tenta, in pratica, di
"colonizzare" l'internato, utilizzando gli stessi sistemi che l'imperialismo
ha adottato per sottomettere ed inglobare nel proprio sistema economico i "paesi sottosviluppati":
innanzitutto, l'internato non viene considerato persona, ma oggetto; non
soggetto raziocinante, ma corpo
malato. Privato di uno spazio suo, del territorio minimo necessario a qualunque uomo per
conservare un
sé autonomo; sottoposto, mediante ininterrotti atti di oltraggio, ad un incessante
lavaggio del cervello,
l'internato può finire per assumere "... su di sè l'istituzione stessa come proprio corpo,
incorporando
l'immagine di sé che l'istituzione gli impone...; si trova ad aderire ad un corpo che è
quello
dell'istituzione... egli diventa corpo vissuto nell'istituzione, per l'istituzione, tanto da essere
considerato
come parte delle sue stesse strutture fisiche...; corpo indifeso cui viene impedita la possibilità di
costruirsi
un corpo proprio" (4). Ma la condizione reale del 'malato' non è
l'oggettivazione, che esiste soltanto all'interno del rapporto fra
il malato e la società, che delega al medico la cura e la tutela del 'malato'.
Gli ospedali aperti
E quando anche il "medico" se ne rende conto, si rende conto anche della contraddizione che il
sistema
gli impone; deve curare, e deve tutelare. Deve curare i "malati" ed impedire che, "pazzi" come sono,
danneggino i "sani": sotto tutela non sono i "pazzi", ma i "sani", che ne hanno paura. Non è una
contraddizione di facile risoluzione, perché il medico non può aiutare il
pazzo e, contemporaneamente,
assumere un atteggiamento di tutela rispetto ai "sani": non può, perché così
facendo si pone in una
posizione falsa, che rende "non terapeutiche" le sue azioni. Deve perciò scegliere fra il ruolo
"custodialistico" e quello "terapeutico". Se sceglie la seconda alternativa, la sua azione lo porta ad
ipotizzare "ospedali di tipo aperto". In un ospedale di tipo "aperto", l'internato viene trattato da "pari a
pari" da medici che non portano più il camice, che gli stringono la mano (!) e che vogliono
aiutarlo a
prendere coscienza del suo stato di non-malato. L'ospedale di tipo aperto, estremamente liberalizzato,
senza inferriate e senza elettroshock, ottiene dei notevoli risultati, a livello "terapeutico", e riesce a
"restituire alla società" un gran numero di internati. Solo che la società non sa cosa
farsene, di gente
giunta ad un tale livello di esclusione: per cui l'unico "sbocco" che spesso rimane all'ex-internato
è
ritornare nell'ospedale da cui è appena uscito. Lo psichiatra, appaltatore di violenza,
finalmente consapevole di essere usato dal sistema-padrone nel
ruolo di oppressore e di "gestore dell'esclusione", arriva talora a conoscere il suo ruolo, che è
quello, per
usare le parole del Basaglia, "... di mistificare - attraverso il tecnicismo - la violenza, senza tuttavia
modificarne la natura; facendo sì che l'oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è
oggetto, senza
mai arrivare a prenderne coscienza, e poter diventare, a sua volta, soggetto di violenza reale contro
ciò
che lo violenta". La conseguenza logica di questa presa di coscienza da parte del medico è,
"... la negazione... il rifiuto
dell'atto terapeutico come risolutivo di conflitti sociali, che non possono essere superati attraverso
l'adattamento di chi li subisce". Questo in teoria. In pratica, chi metteva in guardia contro il pericolo
di "continuare ad applicare l'ideologia
dell'oggettivazione, attraverso un perfezionamento della stessa", oggi continua tranquillamente a gestire
un ospedale: aperto, liberalizzato, quasi un non-ospedale: quasi... Eppure ormai dovrebbe
essere chiaro
a tutti che un sistema planetario di sfruttamento, come quello in cui ci troviamo giocoforza inseriti, non
dà spazio alle isole. La legge internazionale del potere non tollera "isole" in cui non si rispettano
i valori
dominanti, la norma: a seconda dei casi, reprime o
recupera.
E allora?
Sulle caratteristiche dell'azione che l'internato dovrebbe intraprendere, una volta resosi conto che
l'atto
terapeutico tende principalmente a mitigare la sua aggressività nei confronti del potere che lo
esclude, non
si possono avere dubbi: restituire - moltiplicata - alla classe degli sfruttatori tutta la violenza sopportata
(durante la degenza, ma anche prima, nella vita di ogni giorno); annullare, nella aggressione ai propri
aggressori, l'esclusione di secoli: quella che ieri vedeva gli schiavi costruire le piramidi, e che oggi vede
nei manicomi solo i proletari, gli schiavi di oggi. Il migliore modo per curare una malattia è
prevenirla, eliminandone le cause; la "malattia mentale",
copertura ideologica dell'esclusione elevata a sistema, si può eliminare in un solo modo:
abbattendo il
principio di autorità, cui si informa il meccanismo dello sfruttamento. Come dice Fanon: (5) "Per
il negro
che lavora nelle piantagioni di canna di Robert non c'è che una soluzione: la lotta. Egli
intraprenderà e
condurrà quella lotta non dopo un'analisi marxista o idealista, ma semplicemente perché
non potrà
concepire la propria esistenza che sotto la specie di una battaglia condotta contro lo sfruttamento, la
miseria, la fame".
Libero Medina
(1) Antonin Artaud, "Lettre aux médecins-chefs des asiles des fous",
1925. (2) Cotti-Vigevani, "Contro la psichiatria", 1970. (3) Erving
Goffman, "Asylums", 1968. (4) Franco Basaglia, "L'istituzione negata",
1968. (5) Frantz Fanon, "Il negro e l'altro", 1965.
U.R.S.S. - I ribelli in manicomio
Pubblichiamo un breve elenco di "ribelli" internati in manicomio dal regime sovietico, come esempio
dell'uso repressivo della psichiatria. Questi sono solo alcuni dei numerosi "matti" politici
dell'U.R.S.S. dove, da quando sono stati aboliti o
quasi i campi di concentramento staliniani, è costume fare internare in manicomio i
refrattari. Gli oppositori, i contestatori, la gente che vuole ragionare con la propria testa, deve essere
rinchiusa in
ospedali psichiatrici, dove oltre ad essere privati della libertà devono subire veri e propri lavaggi
del
cervello per essere "riadattati" alla società dello sfruttamento. VLADIMIR GUERCHOUNI,
nipote del fondatore del Partito Socialista Rivoluzionario di Russia, è stato
arrestato e internato in una "clinica" psichiatrica perché aveva firmato una lettera indirizzata
all'ONU per
protestare contro la repressione sugli intellettuali contrari al regime. VALERIA NOVODVERSKA,
studentessa, è stata ricoverata in un ospedale speciale per alienati, a
Kazan, (diretto dalla polizia) perché aveva distribuito davanti al Palazzo dei Congressi dei
volantini di
protesta contro l'occupazione della Cecoslovacchia. YVAN YAKIMOVITCH, presidente di un
kolkoz, è stato dichiarato sofferente di malattia mentale da
un tribunale di Riga. È stato ricoverato in una "clinica" speciale in Lettonia. Egli aveva protestato
contro
l'occupazione della Cecoslovacchia. La poetessa NATALIA GORBANEVSKA è stata
condannata in contumacia, essendo già ricoverata in
un "ospedale" per la sua partecipazione alla manifestazione di Mosca, del 25 agosto 1968. La
studentessa di venti anni OLGA YOFFE' e due suoi amici sono stati ricoverati in uno stabilimento per
"alienati". Il biologo MEDVEDEV è stato dichiarato sofferente di malattia mentale e
internato in un ospedale
psichiatrico in seguito alla pubblicazione all'estero di due suoi libri, in uno dei quali si critica Lissenko
(pseudo scienziato, protetto di Stalin). È stato liberato solo grazie alle forti pressioni esercitate
da
numerosi scienziati.
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