Rivista Anarchica Online
Elogio dello stupido
di Alfredo Silvio Salerni
Come al solito, i convegni di studi fanno discutere: non solo del tema prescelto per la
discussione, ma anche sul convegno stesso, sulla sua utilità, sulle modalità con le quali è
stato organizzato, sul tipo di relazioni presentate, ecc.. Le recenti giornate di studio
sull'utopia (Milano, 26-27 settembre) non hanno fatto eccezione. Lo testimoniano, tra
l'altro gli scritti che pubblichiamo in queste pagine: si tratta dell'intervento letto dal
compagno Salerni, della redazione di Bounty, nel corso del dibattito, sul tema "rapportarsi
agli stupidi"; e degli stralci da due lettere ferocemente critiche con il convegno stesso,
inviateci all'indomani della sua conclusione. Le due lettere, già dagli stralci
che ne pubblichiamo, ci pare si commentino da sole.
L'intervento di Salerni potrebbe invece offrire lo spunto ad un utile approfondimento del
dibattito sulla più generale questione del rapporto tra anarchici e cultura. A
noi della redazione, francamente, pare che l'intervento di Salerni giochi sull'ambiguità di
fondo di confondere volutamente "stupidità" con "ignoranza" o eccebombismo becero.
Ora, se per quanto riguarda la prima le considerazioni di Salerni possono essere
condivisibili, per quanto concerne la seconda le stesse non sono assolutamente pertinenti, a
meno che non si consideri l'ignoranza rivoluzionaria. Il rischio di finire con il fare della
demagogia a basso prezzo è grosso. Pubblichiamo anche un passo di una
lettera di Gianfranco Bertoli, in merito alla questione
del linguaggio di "A" sollevata da una compagna in una lettera pubblicata sul penultimo
numero. Il dibattito è aperto a tutti, stupidi e sicuri di
sé.
Nella solita assemblea (convegno, congresso e simili), arriva sempre il momento dello stupido. Si
alza, nella insofferenza generale, dice la sua che, nel migliore dei casi, risulta ovvia, banale per i
presenti, nel peggiore incomprensibile, tediosa; una accozzaglia di slogans collegati più o meno
logicamente, rimasticature di interventi già effettuati e reiterati. Il clima che accoglie l'intervento
dello stupido è già di per sé compromesso e prevenuto; fin dall'inizio ci si dibatte in
quell'impotenza malcelata dalla ritualità tipica di questa sorta di incontri fra compagni. La
sensazione di perdere tempo, dell'inutilità degli sforzi, dell'esercizio rituale, svuotato di un
dovere senza sbocchi operativi o di chiarificazioni, viene acuita dalle noiose e sconnesse
espressioni dello stupido.
I più sicuri di sé tra i presenti non fingeranno nemmeno di ascoltare estraniandosi con aria
pacifica, concentrandosi sulla propria pipa, o passeggiando con occhi assorti e meditabondi tra le
file delle sedie o nelle stanze attigue a quella della riunione; gli altri, in preda ad una più o meno
visibile angoscia, si sforzeranno di restare seduti, e attenderanno con crampi allo stomaco ed il
cuore stretto la fine dell'intervento. Lo stupido, imperterrito, continuerà la sua nenia fino al
proprio esaurimento psico-fisico (si sa quanto sia difficile terminare, dare fine, ad un discorso
privo di senso). Il sollievo degli ascoltatori durerà un attimo in quanto il discorso dello stupido
porta sempre con sé una drammatica coda: l'imbarazzo, scorato, avvilito l'interminabile silenzio. Solo
allora uno dei sicuri di sé con un colpo d'ala ad effetto regalerà ai compagni presenti un po'
d'ossigeno: si farà strada fino al palco, fino al microfono, fino all'orecchio degli ascoltatori e
srotolerà un brillante intervento su un argomento qualsiasi, come cominciando da zero, che
naturalmente non terrà affatto conto del patetico intervento che lo ha preceduto. Se non sarà un
argomento nuovo, sarà una mozione d'ordine; se non una mozione almeno una sintesi dei lavori
svolti. Una iniezione di fiducia che scuoterà l'amorfo convegno e gli permetterà di raggiungere
con un minimo di vano ottimismo l'ora delle partenze e dell'abborracciata mozione finale.
Partiranno tutti con una spina nello stomaco, tranne forse lo stupido, convinto d'essersi fatto
notare e di essere riuscito a nascondere la propria manifesta inferiorità, e tranne forse i sicuri di
sé. Ognuno, o la maggior parte dei presenti, ritornerà al proprio paesello più scoraggiato che
mai,
dopo aver bagnato ancora una volta nell'amara acqua della delusione il proprio già tiepido
entusiasmo. I soddisfatti, sorridenti, pacati, impipati sicuri di sé, staranno un po' meglio degli altri un
po'
perché "lo avevano sempre saputo" un po' perché anche stavolta la loro lucidità era stata
riconosciuta e riverita. A questo punto è opportuno esprimere 4 proposizioni, a contenuto logico
crescente: 1) Lo stupido è; 2) Lo stupido è identificazione
relativa; (2 sensi) 3) Lo stupido è identificazione relativa insopprimibile; (2
sensi) 4) Lo stupido è identificazione relativa insopprimibile cui pertanto occorre
rapportarsi.
Approfondiamo, quindi singolarmente queste proposizioni:
1) Lo stupido è: Lo stupido è e lo stupido esiste. Diamo per ora per postulato
assurdo la completezza della
definizione (l'uomo stupido). La stupidità è una caratteristica dell'individuo, ma l'individuo come
tale deve godere di un rispetto direi assoluto che va al di là delle proprie peculiarità. Da troppo
tempo all'intelligenza si concede più del dovuto. L'individuo stupido è altrettanto sacro (l'unica
sacralità che io accetto) dell'individuo intelligente. Così come l'individuo brutto è altrettanto
sacro dell'individuo bello. Mentre siamo riusciti (dopo "storici" sforzi) ad accettare la seconda
eguaglianza siamo ancora lontani dall'accettare compiutamente e coscientemente la prima. Ma
così come l'individuo brutto, in quanto individuo, non si esaurisce in questa semplice
caratteristica ma appare ricco ed irripetibile, affascinante e grandioso, così anche lo stupido ha la
meravigliosa potenza dell'universo individuale, frastagliato ed inimmaginabile come ogni altro
individuo. Naturalmente io sceglierò forse di guardare il bello, sceglierò forse di farmi
convincere dal genio ma, in ogni caso, il mio interesse, il mio amore, la mia pulsione potrà essere
anche attirata dalla ricchezza interiore del brutto, dalla ricchezza umana dello stupido. Il brutto è.
Lo stupido è. Io sono. Il bello è. L'intelligente è. Tutti siamo individui e come tali regali
rappresentanti dell'umanità vivente.
2) Lo stupido è identificazione relativa: Esiste comunque lo stupido come concetto
assoluto? E se pure esistesse avrebbe una reale
importanza? Il primo concetto che viene in mente è quello di Q.I.: si stabilisce un quoziente
medio e si considera che sotto tale quoziente ci sono i più o meno stupidi. Per il nostro discorso è
per ora valida questa indicazione, estremamente relativa. Ritornando alla nostra ipotetica
assemblea dell'es., via via che il quoziente si alza cadono a capofitto nella congrega degli stupidi,
individui che in altre occasioni, meno proibitive, rimpolpavano lo schieramento dei sicuri di sé o,
quanto meno degli altri più "in mostra", essi fanno la parte degli stupidi vaneggianti solo che il
livello dei presenti salga al di là del loro individuale. La pipa da splendido suggello di superiorità
si trasforma, per questo relativismo che accompagna il concetto di stupidità, a mero oggetto di
futile scimmiottamento dell'uomo veramente sicuro di sé. In sintesi: lo stupido è tale in relazione
(relativismo esterno) all'ambiente in cui opera. La stupidità è un criterio di identificazione
veramente relativo anche nel senso interno citato al
primo punto; esso non è neanche assorbente e totalizzante: non esiste individuo stupido e basta
(relativismo interno), ma soltanto relativamente all'angolo di osservazione delle capacità o
facoltà logico-associative se così si può dire. Tra l'altro, e sia detto come battuta, lo stupido
può
senz'altro arrivare alla conclusione del genio per intuizione o per caso (o per facoltà
parapsicologiche?).
3) Lo stupido è identificazione relativa insopprimibile: Potrà mai sparire il
gap del raziocinio? Anche se fosse possibile dovremmo tendere a questo
obiettivo? Io ritengo che nemmeno nell'ipotetica società liberata tutti gli uomini saranno
intelligenti allo stesso modo, non occorre neanche augurarselo; ripetere tutte le argomentazioni
sul "diverso è bello" e sulla potenzialità positiva delle differenze (e quindi della devianza e di una
certa conflittualità) mi pare inutile. La stupidità individuale è insopprimibile in un
doppio senso: essa non può essere eliminata (del
tutto) essa non deve essere eliminata (in quanto se ciò avvenisse sarebbe a scapito di altre
potenzialità dell'individuo); la società futura postrivoluzionaria dovrà consentire a ciascun
individuo di sviluppare al massimo le proprie potenzialità, permettendo che ciascuno possa
realizzare se stesso in piena libertà e nel massimo grado: ma questo massimo grado non è
certamente uguale per tutti (altrimenti si perverrebbe ad un mondo di robot tutti identici,
disperdendo al vento il potenziale della diversità, come prima si accennava), le differenze fra
individuo ed individuo resteranno anche se ciascun individuo potrà contare pienamente su tutte le
proprie potenzialità finalmente realizzate; ma siccome la stupidità (come ogni altra qualità
o
caratteristica) è un concetto relativo, essa persisterà (a livelli certamente superiori rispetto ad
oggi: lo stupido di domani oggi sarebbe un genio), nonostante che l'utopia sia stata avvicinata.
Ognuno avrà modo di espandere le proprie qualità ma, per non arrivare alla grigia
uniformità, e
quindi alla morte, mi pare opportuno credere e sperare, oltre che prevedere, che ognuno abbia
qualità proprie ed in misura diversificata rispetto agli altri (e certo non per fare un discorso di
migliori o peggiori quanto di diversi).
4) Lo stupido è identificazione relativa insopprimibile cui pertanto occorre
rapportarsi: Siamo quindi arrivati all'ultimo punto che come alla fine di un cerchio ci riporta al punto di
partenza: se infatti persino nella società liberata lo stupido continuerà a scorrazzare liberamente
occorre fin da subito elaborare un modo per rapportarsi a lui. Per far sì che noi e lui (o noi stupidi
e i più intelligenti di noi) ci si comprenda (nel senso più lato del termine e non soltanto nel senso
"razionale"). Nel senso cioè di tendere a realizzare qualcosa da costruire insieme e che ci
consenta quella situazione di amplificazione di noi stessi che domandiamo all'utopia. La
rivoluzione va fatta con lo stupido. È inutile quindi l'atteggiamento di superiorità dei sicuri di
sé
per non parlare dell'utilizzo che dello stupido fa il rivoluzionario nell'ideologia marxista-leninista
("la rivoluzione la fa lo stupido noi gli diciamo cosa fare"). Dobbiamo arrivarci insieme: lo
stupido darà ciò che può dare (e talvolta può essere molto di più rispetto
a ciò che dà l'uomo
intelligente; se non in chiarezza, in spinta volitiva, in doti di umanità, in intuizioni, in stimolo, in
sentimento ecc.). Il linguaggio della razionalità restringe il cerchio dei fruitori. Sarà opportuno
elaborare un altro
linguaggio più generale più comprensibile che consente un progresso complessivo e non per
avanguardie ed élites. Un linguaggio molto probabilmente che si dovrà basare sull'armonico
rispetto dell'individuo e che oltre alle parole preveda gesti, atteggiamenti, sentimenti di fraternità,
calore umano, comportamenti leali ed aperti e soprattutto una componente vistosa di rabbia e
sfida contro tutte le barriere che tendono a cristallizzare le differenze in ceti, classi, privilegi, e
contro tutte le aristocrazie razzistiche estetiche ed intellettuali.
Il solito bla bla
Sabato 25, ore 19.55, sul treno che ci porterà alla nostra città: Verona. A Venezia, al
convegno
sull'autogestione, un relatore fece un elogio della città come modello ideale per la realizzazione
del "piccolo è bello"; forse domani a Milano qualcuno dirà che, in fondo, anche a Milano si vive
una quotidiana utopia e bla bla bla. Non so se sia per obblighi di riconoscenza verso la città
ospite o per concreta convinzione. Non mi interessa come non mi interessa partecipare più ad un
altro convegno. Sabato, oggi, c'ero anch'io; sabato, oggi, volevo parlare ma per limiti di tempo
(alle 19 tutti a casa) sono costretto a riportare in lettera ciò che mi premeva dire (...). E
a Milano com'è stato? Come a Venezia, mi verrebbe da rispondere. Relazioni impeccabili,
interventi stimolanti, sorrisi, consensi, piccole contestazioni: e l'autogestione, l'utopia? Chi le ha
viste. A Venezia l'unico momento di "velleitarismo giovanile" (conosciuto da noi anarchici come
azione diretta) è stata la autoriduzione (esproprio) in mensa senza relatori. A Milano, mi
dispiace, non ho retto. Ma stiamo scherzando? Ma era un convegno di anarchici o
di repubblicani? Con tutto quello che si può fare noi ci perdiamo dietro alla questione del
secolo: Crespi è - si considera anarchico o non lo è. Chi se ne frega! In tutto il pomeriggio non
ho sentito una parolaccia, una bestemmia, una nota fuori posto (intendiamoci bene: non voglio
dire che siano elementi fondamentali o che il compagno senza il "cazzo" facile sia meno
compagno, ma, si sa, anche l'orecchio vuole la sua parte) che mi allontanassero l'impressione di
essere in un salotto, dove si insegnano le buone maniere e il gentile eloquio. (...) È
possibile che anche noi siamo caduti nell'equivoco-errore di credere che esista il momento
della teoria e quello della pratica; la persona che pensa (intellettuale-relatore) e quella che
agisce (ascoltatore-militante)? Perché autogestione e utopia senza vivere né l'autogestione né
l'utopia? Che senso ha solo parlarne? Sarebbe come parlare di un sogno senza averlo sognato.
Mi interessa studiare, ascoltare, leggere e perché no, anche sottilizzare sul significato di
dominio e potere, ma solamente quando so che leggo, studio, ascolto per applicare,
possibilmente subito, tutto ciò che apprendo e che voglio. E se non lo facciamo quelle poche
volte che ci si ritrova, se almeno quelle poche volte non cerchiamo di concretizzare, di
scontrarci, di verificare anche quanto ognuno di noi è disposto a rischiare sulla sua pelle, "a
quando la rivoluzione"? (...) Saluti anarchici (da chi? a chi?).
Giulio e Achille Saletti
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Ma Einstein...
A causa di impegni ho potuto assistere solo all'ultima giornata del convegno, ma già da questa
ho tratto delle riflessioni che sono facilmente generalizzabili. La prima cosa che ho notato è
stato il tentativo di fondere due piani distinti quali il "tecnicismo" e la "divulgazione". C'è una
ovvia necessità politica in questa mediazione, ma c'è anche il pericolo insito in ogni
volgarizzazione e cioè la distorsione storica e scientifica. Come esempio riporto il tentativo fatto
per spiegare la relatività einsteiniana con le quattro operazioni. Questa azione "culturale", più
che "positiva" sotto l'aspetto di nutrire il popolo di scienza facile facendogli così intendere di
esserne padrone e di poterla gestire (basta l'illusione), ha aspetti più appariscentemente
negativi: a) trasformando il complesso edificio matematico della relatività in operazioni
aritmetiche, solo
apparentemente banali, si salta a piè pari la relazione fondamentale teoria fisica-teoria
matematica. Ma soprattutto si perde il significato fisico, nel senso più immediato del termine,
che la formalizzazione matematica acquista quando diventa teoria fisica, nel senso della materia
che studia le leggi della natura; b) schematizzando, per semplificare, il percorso che ha portato
Einstein alla creazione della sua
teoria si appiattisce e linearizza la storia reale trasformando l'uomo Einstein in un novello
profeta che ha ricevuto per intercessione divina le leggi relativistiche del mondo. Questo bisogno,
strettamente collegato alla superficialità della società in cui viviamo (si pensi
all'enorme numero di riviste di divulgazione scientifica uscite in questi ultimi tempi), è fomentato
da chi ha il monopolio del sapere e che non avendo né voglia né tempo di renderlo di pubblico
dominio nella forma originaria sfrutta la "democratica divulgazione". Il negativo di tale
situazione sta anche nel fatto che essa è ben accettata dai compagni che, troppo presi da
problemi e bisogni fittizi (riflusso, coppia aperta,...) risolvibili più con l'azione (il vivere) che con
la stasi (il lasciarsi vivere), non hanno tempo e volontà per impadronirsi di quegli strumenti
concettuali utili per capire la realtà. Con questo non è che mi schieri in favore del
vuoto barocchismo linguistico o della
iperspecializzazione narcisistica di qualche intellettuale italiano, ma ritengo sia necessario
chiarire, per ritornare a noi, che i fini di un convegno di studio sono la discussione e
l'elaborazione teorica e non un compromesso tra ciò ed il populistico desiderio di renderlo
accessibile a tutti, così al massimo si ottengono risultati mediocri. Produrre elaborazioni
teoriche non è facile e per poterlo fare, oltre ad avere capacità creative,
bisogna essere dei virtuosi nel campo in cui si opera (sia quello scientifico, artistico o
filosofico). Ciò porta necessariamente alla specializzazione; a questo proposito bisogna
ricordarsi che se Leonardo da Vinci poteva occuparsi di tutti i campi dello scibile era perché a
quell'epoca il sapere era limitato, ma ora che la conoscenza, vera o falsa che sia, è aumentata in
un modo enorme ciò è impossibile (si pensi alle difficoltà che un endocrinologo incontra
nel
leggere un articolo di neurologia). La vera Utopia sta allora nel credere di abbattere la
specializzazione, nel pensare di unire il lavoro manuale a quello intellettuale, nel pensare che si
possa avere tutto (il sapere) e subito (senza sforzo). A questo punto noi anarchici siamo ad un
bivio: a) o lavorare per costruire un pensiero teorico che può anche distaccarsi dai
presupposti dai
quali è partito (ma allora si fanno dei convegni di "studio vero"); b) o ritenere l'anarchismo
solo un modo di vivere e pensare un po' romantico (ma allora si
abbandonano le velleità che giacciono sotto l'organizzazione dei convegni e si organizzano
invece delle discussioni collettive sui bisogni individuali). (...) Voglio concludere queste note con
una esortazione alla serietà: o il movimento anarchico vuole
crescere qualitativamente, anche forse sconfinando nell'eresia, o è inevitabile che finisca nel
patetico. È indubbio, come diceva un congressuale, che il movimento anarchico abbia qualcosa
di nobile, ma è pure indubbio che la furia iconoclasta di tanti nostri antenati ideologici si sia
stemperata nell'apatia contemporanea, non solo dal punto di vista della militanza, ma anche da
quello dell'elaborazione teorica.
Nanni Boniolo
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