Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 96
novembre 1981


Rivista Anarchica Online

Elogio dello stupido
di Alfredo Silvio Salerni

Come al solito, i convegni di studi fanno discutere: non solo del tema prescelto per la discussione, ma anche sul convegno stesso, sulla sua utilità, sulle modalità con le quali è stato organizzato, sul tipo di relazioni presentate, ecc.. Le recenti giornate di studio sull'utopia (Milano, 26-27 settembre) non hanno fatto eccezione. Lo testimoniano, tra l'altro gli scritti che pubblichiamo in queste pagine: si tratta dell'intervento letto dal compagno Salerni, della redazione di Bounty, nel corso del dibattito, sul tema "rapportarsi agli stupidi"; e degli stralci da due lettere ferocemente critiche con il convegno stesso, inviateci all'indomani della sua conclusione.
Le due lettere, già dagli stralci che ne pubblichiamo, ci pare si commentino da sole. L'intervento di Salerni potrebbe invece offrire lo spunto ad un utile approfondimento del dibattito sulla più generale questione del rapporto tra anarchici e cultura.
A noi della redazione, francamente, pare che l'intervento di Salerni giochi sull'ambiguità di fondo di confondere volutamente "stupidità" con "ignoranza" o eccebombismo becero. Ora, se per quanto riguarda la prima le considerazioni di Salerni possono essere condivisibili, per quanto concerne la seconda le stesse non sono assolutamente pertinenti, a meno che non si consideri l'ignoranza rivoluzionaria. Il rischio di finire con il fare della demagogia a basso prezzo è grosso.
Pubblichiamo anche un passo di una lettera di Gianfranco Bertoli, in merito alla questione del linguaggio di "A" sollevata da una compagna in una lettera pubblicata sul penultimo numero.
Il dibattito è aperto a tutti, stupidi e sicuri di sé.

Nella solita assemblea (convegno, congresso e simili), arriva sempre il momento dello stupido. Si alza, nella insofferenza generale, dice la sua che, nel migliore dei casi, risulta ovvia, banale per i presenti, nel peggiore incomprensibile, tediosa; una accozzaglia di slogans collegati più o meno logicamente, rimasticature di interventi già effettuati e reiterati. Il clima che accoglie l'intervento dello stupido è già di per sé compromesso e prevenuto; fin dall'inizio ci si dibatte in quell'impotenza malcelata dalla ritualità tipica di questa sorta di incontri fra compagni. La sensazione di perdere tempo, dell'inutilità degli sforzi, dell'esercizio rituale, svuotato di un dovere senza sbocchi operativi o di chiarificazioni, viene acuita dalle noiose e sconnesse espressioni dello stupido.

I più sicuri di sé tra i presenti non fingeranno nemmeno di ascoltare estraniandosi con aria pacifica, concentrandosi sulla propria pipa, o passeggiando con occhi assorti e meditabondi tra le file delle sedie o nelle stanze attigue a quella della riunione; gli altri, in preda ad una più o meno visibile angoscia, si sforzeranno di restare seduti, e attenderanno con crampi allo stomaco ed il cuore stretto la fine dell'intervento. Lo stupido, imperterrito, continuerà la sua nenia fino al proprio esaurimento psico-fisico (si sa quanto sia difficile terminare, dare fine, ad un discorso privo di senso). Il sollievo degli ascoltatori durerà un attimo in quanto il discorso dello stupido porta sempre con sé una drammatica coda: l'imbarazzo, scorato, avvilito l'interminabile silenzio.
Solo allora uno dei sicuri di sé con un colpo d'ala ad effetto regalerà ai compagni presenti un po' d'ossigeno: si farà strada fino al palco, fino al microfono, fino all'orecchio degli ascoltatori e srotolerà un brillante intervento su un argomento qualsiasi, come cominciando da zero, che naturalmente non terrà affatto conto del patetico intervento che lo ha preceduto. Se non sarà un argomento nuovo, sarà una mozione d'ordine; se non una mozione almeno una sintesi dei lavori svolti. Una iniezione di fiducia che scuoterà l'amorfo convegno e gli permetterà di raggiungere con un minimo di vano ottimismo l'ora delle partenze e dell'abborracciata mozione finale. Partiranno tutti con una spina nello stomaco, tranne forse lo stupido, convinto d'essersi fatto notare e di essere riuscito a nascondere la propria manifesta inferiorità, e tranne forse i sicuri di sé. Ognuno, o la maggior parte dei presenti, ritornerà al proprio paesello più scoraggiato che mai, dopo aver bagnato ancora una volta nell'amara acqua della delusione il proprio già tiepido entusiasmo.
I soddisfatti, sorridenti, pacati, impipati sicuri di sé, staranno un po' meglio degli altri un po' perché "lo avevano sempre saputo" un po' perché anche stavolta la loro lucidità era stata riconosciuta e riverita.
A questo punto è opportuno esprimere 4 proposizioni, a contenuto logico crescente:
1) Lo stupido è;
2) Lo stupido è identificazione relativa; (2 sensi)
3) Lo stupido è identificazione relativa insopprimibile; (2 sensi)
4) Lo stupido è identificazione relativa insopprimibile cui pertanto occorre rapportarsi.

Approfondiamo, quindi singolarmente queste proposizioni:

1) Lo stupido è:
Lo stupido è e lo stupido esiste. Diamo per ora per postulato assurdo la completezza della definizione (l'uomo stupido). La stupidità è una caratteristica dell'individuo, ma l'individuo come tale deve godere di un rispetto direi assoluto che va al di là delle proprie peculiarità. Da troppo tempo all'intelligenza si concede più del dovuto. L'individuo stupido è altrettanto sacro (l'unica sacralità che io accetto) dell'individuo intelligente. Così come l'individuo brutto è altrettanto sacro dell'individuo bello. Mentre siamo riusciti (dopo "storici" sforzi) ad accettare la seconda eguaglianza siamo ancora lontani dall'accettare compiutamente e coscientemente la prima. Ma così come l'individuo brutto, in quanto individuo, non si esaurisce in questa semplice caratteristica ma appare ricco ed irripetibile, affascinante e grandioso, così anche lo stupido ha la meravigliosa potenza dell'universo individuale, frastagliato ed inimmaginabile come ogni altro individuo. Naturalmente io sceglierò forse di guardare il bello, sceglierò forse di farmi convincere dal genio ma, in ogni caso, il mio interesse, il mio amore, la mia pulsione potrà essere anche attirata dalla ricchezza interiore del brutto, dalla ricchezza umana dello stupido. Il brutto è. Lo stupido è. Io sono. Il bello è. L'intelligente è. Tutti siamo individui e come tali regali rappresentanti dell'umanità vivente.

2) Lo stupido è identificazione relativa:
Esiste comunque lo stupido come concetto assoluto? E se pure esistesse avrebbe una reale importanza? Il primo concetto che viene in mente è quello di Q.I.: si stabilisce un quoziente medio e si considera che sotto tale quoziente ci sono i più o meno stupidi. Per il nostro discorso è per ora valida questa indicazione, estremamente relativa. Ritornando alla nostra ipotetica assemblea dell'es., via via che il quoziente si alza cadono a capofitto nella congrega degli stupidi, individui che in altre occasioni, meno proibitive, rimpolpavano lo schieramento dei sicuri di sé o, quanto meno degli altri più "in mostra", essi fanno la parte degli stupidi vaneggianti solo che il livello dei presenti salga al di là del loro individuale. La pipa da splendido suggello di superiorità si trasforma, per questo relativismo che accompagna il concetto di stupidità, a mero oggetto di futile scimmiottamento dell'uomo veramente sicuro di sé. In sintesi: lo stupido è tale in relazione (relativismo esterno) all'ambiente in cui opera.
La stupidità è un criterio di identificazione veramente relativo anche nel senso interno citato al primo punto; esso non è neanche assorbente e totalizzante: non esiste individuo stupido e basta (relativismo interno), ma soltanto relativamente all'angolo di osservazione delle capacità o facoltà logico-associative se così si può dire. Tra l'altro, e sia detto come battuta, lo stupido può senz'altro arrivare alla conclusione del genio per intuizione o per caso (o per facoltà parapsicologiche?).

3) Lo stupido è identificazione relativa insopprimibile:
Potrà mai sparire il gap del raziocinio? Anche se fosse possibile dovremmo tendere a questo obiettivo? Io ritengo che nemmeno nell'ipotetica società liberata tutti gli uomini saranno intelligenti allo stesso modo, non occorre neanche augurarselo; ripetere tutte le argomentazioni sul "diverso è bello" e sulla potenzialità positiva delle differenze (e quindi della devianza e di una certa conflittualità) mi pare inutile.
La stupidità individuale è insopprimibile in un doppio senso: essa non può essere eliminata (del tutto) essa non deve essere eliminata (in quanto se ciò avvenisse sarebbe a scapito di altre potenzialità dell'individuo); la società futura postrivoluzionaria dovrà consentire a ciascun individuo di sviluppare al massimo le proprie potenzialità, permettendo che ciascuno possa realizzare se stesso in piena libertà e nel massimo grado: ma questo massimo grado non è certamente uguale per tutti (altrimenti si perverrebbe ad un mondo di robot tutti identici, disperdendo al vento il potenziale della diversità, come prima si accennava), le differenze fra individuo ed individuo resteranno anche se ciascun individuo potrà contare pienamente su tutte le proprie potenzialità finalmente realizzate; ma siccome la stupidità (come ogni altra qualità o caratteristica) è un concetto relativo, essa persisterà (a livelli certamente superiori rispetto ad oggi: lo stupido di domani oggi sarebbe un genio), nonostante che l'utopia sia stata avvicinata. Ognuno avrà modo di espandere le proprie qualità ma, per non arrivare alla grigia uniformità, e quindi alla morte, mi pare opportuno credere e sperare, oltre che prevedere, che ognuno abbia qualità proprie ed in misura diversificata rispetto agli altri (e certo non per fare un discorso di migliori o peggiori quanto di diversi).

4) Lo stupido è identificazione relativa insopprimibile cui pertanto occorre rapportarsi:
Siamo quindi arrivati all'ultimo punto che come alla fine di un cerchio ci riporta al punto di partenza: se infatti persino nella società liberata lo stupido continuerà a scorrazzare liberamente occorre fin da subito elaborare un modo per rapportarsi a lui. Per far sì che noi e lui (o noi stupidi e i più intelligenti di noi) ci si comprenda (nel senso più lato del termine e non soltanto nel senso "razionale"). Nel senso cioè di tendere a realizzare qualcosa da costruire insieme e che ci consenta quella situazione di amplificazione di noi stessi che domandiamo all'utopia. La rivoluzione va fatta con lo stupido. È inutile quindi l'atteggiamento di superiorità dei sicuri di sé per non parlare dell'utilizzo che dello stupido fa il rivoluzionario nell'ideologia marxista-leninista ("la rivoluzione la fa lo stupido noi gli diciamo cosa fare"). Dobbiamo arrivarci insieme: lo stupido darà ciò che può dare (e talvolta può essere molto di più rispetto a ciò che dà l'uomo intelligente; se non in chiarezza, in spinta volitiva, in doti di umanità, in intuizioni, in stimolo, in sentimento ecc.).
Il linguaggio della razionalità restringe il cerchio dei fruitori. Sarà opportuno elaborare un altro linguaggio più generale più comprensibile che consente un progresso complessivo e non per avanguardie ed élites. Un linguaggio molto probabilmente che si dovrà basare sull'armonico rispetto dell'individuo e che oltre alle parole preveda gesti, atteggiamenti, sentimenti di fraternità, calore umano, comportamenti leali ed aperti e soprattutto una componente vistosa di rabbia e sfida contro tutte le barriere che tendono a cristallizzare le differenze in ceti, classi, privilegi, e contro tutte le aristocrazie razzistiche estetiche ed intellettuali.

Il solito bla bla

Sabato 25, ore 19.55, sul treno che ci porterà alla nostra città: Verona. A Venezia, al convegno sull'autogestione, un relatore fece un elogio della città come modello ideale per la realizzazione del "piccolo è bello"; forse domani a Milano qualcuno dirà che, in fondo, anche a Milano si vive una quotidiana utopia e bla bla bla. Non so se sia per obblighi di riconoscenza verso la città ospite o per concreta convinzione. Non mi interessa come non mi interessa partecipare più ad un altro convegno. Sabato, oggi, c'ero anch'io; sabato, oggi, volevo parlare ma per limiti di tempo (alle 19 tutti a casa) sono costretto a riportare in lettera ciò che mi premeva dire (...).
E a Milano com'è stato? Come a Venezia, mi verrebbe da rispondere. Relazioni impeccabili, interventi stimolanti, sorrisi, consensi, piccole contestazioni: e l'autogestione, l'utopia? Chi le ha viste. A Venezia l'unico momento di "velleitarismo giovanile" (conosciuto da noi anarchici come azione diretta) è stata la autoriduzione (esproprio) in mensa senza relatori.
A Milano, mi dispiace, non ho retto. Ma stiamo scherzando? Ma era un convegno di anarchici o di repubblicani? Con tutto quello che si può fare noi ci perdiamo dietro alla questione del secolo: Crespi è - si considera anarchico o non lo è. Chi se ne frega! In tutto il pomeriggio non ho sentito una parolaccia, una bestemmia, una nota fuori posto (intendiamoci bene: non voglio dire che siano elementi fondamentali o che il compagno senza il "cazzo" facile sia meno compagno, ma, si sa, anche l'orecchio vuole la sua parte) che mi allontanassero l'impressione di essere in un salotto, dove si insegnano le buone maniere e il gentile eloquio. (...)
È possibile che anche noi siamo caduti nell'equivoco-errore di credere che esista il momento della teoria e quello della pratica; la persona che pensa (intellettuale-relatore) e quella che agisce (ascoltatore-militante)? Perché autogestione e utopia senza vivere né l'autogestione né l'utopia? Che senso ha solo parlarne? Sarebbe come parlare di un sogno senza averlo sognato. Mi interessa studiare, ascoltare, leggere e perché no, anche sottilizzare sul significato di dominio e potere, ma solamente quando so che leggo, studio, ascolto per applicare, possibilmente subito, tutto ciò che apprendo e che voglio. E se non lo facciamo quelle poche volte che ci si ritrova, se almeno quelle poche volte non cerchiamo di concretizzare, di scontrarci, di verificare anche quanto ognuno di noi è disposto a rischiare sulla sua pelle, "a quando la rivoluzione"? (...)
Saluti anarchici (da chi? a chi?).

Giulio e Achille Saletti

 

Ma Einstein...

A causa di impegni ho potuto assistere solo all'ultima giornata del convegno, ma già da questa ho tratto delle riflessioni che sono facilmente generalizzabili. La prima cosa che ho notato è stato il tentativo di fondere due piani distinti quali il "tecnicismo" e la "divulgazione". C'è una ovvia necessità politica in questa mediazione, ma c'è anche il pericolo insito in ogni volgarizzazione e cioè la distorsione storica e scientifica. Come esempio riporto il tentativo fatto per spiegare la relatività einsteiniana con le quattro operazioni. Questa azione "culturale", più che "positiva" sotto l'aspetto di nutrire il popolo di scienza facile facendogli così intendere di esserne padrone e di poterla gestire (basta l'illusione), ha aspetti più appariscentemente negativi:
a) trasformando il complesso edificio matematico della relatività in operazioni aritmetiche, solo apparentemente banali, si salta a piè pari la relazione fondamentale teoria fisica-teoria matematica. Ma soprattutto si perde il significato fisico, nel senso più immediato del termine, che la formalizzazione matematica acquista quando diventa teoria fisica, nel senso della materia che studia le leggi della natura;
b) schematizzando, per semplificare, il percorso che ha portato Einstein alla creazione della sua teoria si appiattisce e linearizza la storia reale trasformando l'uomo Einstein in un novello profeta che ha ricevuto per intercessione divina le leggi relativistiche del mondo.
Questo bisogno, strettamente collegato alla superficialità della società in cui viviamo (si pensi all'enorme numero di riviste di divulgazione scientifica uscite in questi ultimi tempi), è fomentato da chi ha il monopolio del sapere e che non avendo né voglia né tempo di renderlo di pubblico dominio nella forma originaria sfrutta la "democratica divulgazione". Il negativo di tale situazione sta anche nel fatto che essa è ben accettata dai compagni che, troppo presi da problemi e bisogni fittizi (riflusso, coppia aperta,...) risolvibili più con l'azione (il vivere) che con la stasi (il lasciarsi vivere), non hanno tempo e volontà per impadronirsi di quegli strumenti concettuali utili per capire la realtà.
Con questo non è che mi schieri in favore del vuoto barocchismo linguistico o della iperspecializzazione narcisistica di qualche intellettuale italiano, ma ritengo sia necessario chiarire, per ritornare a noi, che i fini di un convegno di studio sono la discussione e l'elaborazione teorica e non un compromesso tra ciò ed il populistico desiderio di renderlo accessibile a tutti, così al massimo si ottengono risultati mediocri.
Produrre elaborazioni teoriche non è facile e per poterlo fare, oltre ad avere capacità creative, bisogna essere dei virtuosi nel campo in cui si opera (sia quello scientifico, artistico o filosofico). Ciò porta necessariamente alla specializzazione; a questo proposito bisogna ricordarsi che se Leonardo da Vinci poteva occuparsi di tutti i campi dello scibile era perché a quell'epoca il sapere era limitato, ma ora che la conoscenza, vera o falsa che sia, è aumentata in un modo enorme ciò è impossibile (si pensi alle difficoltà che un endocrinologo incontra nel leggere un articolo di neurologia). La vera Utopia sta allora nel credere di abbattere la specializzazione, nel pensare di unire il lavoro manuale a quello intellettuale, nel pensare che si possa avere tutto (il sapere) e subito (senza sforzo).
A questo punto noi anarchici siamo ad un bivio:
a) o lavorare per costruire un pensiero teorico che può anche distaccarsi dai presupposti dai quali è partito (ma allora si fanno dei convegni di "studio vero");
b) o ritenere l'anarchismo solo un modo di vivere e pensare un po' romantico (ma allora si abbandonano le velleità che giacciono sotto l'organizzazione dei convegni e si organizzano invece delle discussioni collettive sui bisogni individuali). (...)
Voglio concludere queste note con una esortazione alla serietà: o il movimento anarchico vuole crescere qualitativamente, anche forse sconfinando nell'eresia, o è inevitabile che finisca nel patetico. È indubbio, come diceva un congressuale, che il movimento anarchico abbia qualcosa di nobile, ma è pure indubbio che la furia iconoclasta di tanti nostri antenati ideologici si sia stemperata nell'apatia contemporanea, non solo dal punto di vista della militanza, ma anche da quello dell'elaborazione teorica.

Nanni Boniolo