Che la chiesa cattolica si intrattenga
con accanimento sul terreno politico utilizzando la giustificazione
spirituale non è certo cosa inconsueta. Può avere un qualche
interesse, tuttavia, osservare, alcuni degli “snodi” più attuali
dell’esercizio dell’egemonia vaticana; un esempio importante
e relativamente nuovo è costituito, in questo senso, dalla valorizzazione
dello stato e, segnatamente, dalla attribuzione al medesimo
di una funzione etica, basata su una curiosa visione “cesarista”
dello stato come difensore del diritto dei popoli contro lo
strapotere dell’economia di mercato.
Siamo, dunque, nell’ambito della campagna di antiglobalizzazione
che il Vaticano sta, a suo modo, conducendo, sul terreno politico,
servendosi efficacemente dell’ecumenismo come passe partout
spirituale.
La Chiesa è fortemente impegnata sul fronte ecumenico per
affermare il proprio primato sulle altre religioni monoteiste.
Questa riaffermazione teologica, etica e culturale è fondamentale
in un momento in cui anche i paesi di tradizione cattolica tendono
ad assumere caratteristiche multietniche e multireligiose, con
la conseguente moltiplicazione di culti ed il rischio che ne
deriva per l’egemonia della chiesa di Roma. Da qui una posizione
critica della chiesa nei confronti dei processi di globalizzazione
culturale, a cui si accompagna, in parallelo, la critica contro
la globalizzazione economica e le degenerazioni del capitalismo
che ha preso le mosse dall’enciclica “centesimus annus” del
‘91 e che è venuta a strutturarsi radicalmente in quest’ultimo
periodo.
Vanno segnalate, dunque, a questo proposito, le recenti prese
di posizione sul ruolo dello stato e sul ruolo del potere economico
finanziario, che vedono la Chiesa impegnata nell’affermare con
forza il primato etico del potere politico sul potere economico.
La posizione della chiesa è, in sintesi questa : il potere finanziario
sta riducendo il potere politico degli stati nazionali, che
sono per definizione preposti al bene comune.
Si tratta di un assunto stridente con la tradizionale posizione
della chiesa cattolica, che storicamente ha sempre opposto il
proprio carattere universale a quello dello stato nazionale
sovrano.
Il progetto di fondo, che del resto si esplicita chiaramente,
è il seguente: promuovere la costituzione di un forte controllo
politico su scala mondiale genericamente finalizzato a correggere
le degenerazioni del capitalismo e della globalizzazione economica;
affermare, come requisito ideologico del progetto, il primato
spirituale della politica e dei poteri degli stati sulle attività
economiche.
La Chiesa dunque, procedendo alla valorizzazione etica del ruolo
dello stato, si candida a rivestire una funzione politica sovranazionale,
per aprire frontiere di dominio non solo religioso e teologico,
ma anche più diffusamente culturale all’interno delle ideologie
di massa.
Lo scenario politico che può consentire un’operazione di questo
genere è quello venuto a configurarsi in questi ultimi anni,
anche con il contributo fondamentale di Wojtila, e, parallelamente,
con il pervasivo dilagare della mitologia ideologica corrente
(crollo delle ideologie, affermazione del pensiero unico etc.)
Dopo la condanna alla teologia della liberazione in America
Latina nell’84, dopo le operazioni politiche concertate che
hanno determinato il crollo dei regimi comunisti d’Europa nel
‘91, la Chiesa denuncia il vuoto ideologico venuto a crearsi
e afferma la volontà di ricoprire questo spazio. A fronte di
un lungo e non facile lavoro di evangelizzazione in zone con
radicata tradizione islamica e ortodossa, che viene sostenuto
dalla politica ecumenica con interventi talora maldestri (si
veda la polemica della scorsa estate con il patriarca di Mosca
che denunciava la eccessiva ingerenza della chiesa cattolica),
il pragmatismo e la realpolitik della santa sede trovano irresistibile
la scorciatoia rappresentata dalla possibilità di occupare uno
spazio più genericamente (ma anche più diffusamente) ideologico.
Oltretutto, questa operazione ha il vantaggio di poter essere
esportata su larga scala e divenire, con le opportune modifiche,
un’operazione complessiva.
Ecco dunque che, ormai esaurita la crociata anticomunista, si
aprono, per la chiesa cattolica, le possibilità offerte dalla
crociata contro le degenerazioni del capitalismo, ovvero la
capacità di porsi come caposaldo ideologico nel polo occidentale,
accelerando anche in questo caso un percorso che sotto il profilo
religioso-ecumenico si configura lungo e difficoltoso, soprattutto
per il confronto con le chiese protestanti e riformate.
Da qui la necessità, per la Chiesa, di affermare la funzione
etica dello stato, in previsione della propria autocandidatura
a stato sovranazionale, garante dei valori morali in quanto
depositario dei valori dell’antropologia cristiana, nonché regolatore
(etico, equo, solidale etc...) del mercato e dei traffici internazionali.
Rilancio
clericale
Secondo gli orientamenti del Concilio Vaticano II, ormai risalente
a una trentina di anni fa, la Chiesa avrebbe dovuto progressivamente
ridurre il proprio ruolo politico, in favore di un’azione diplomatica
“deconfessionalizzata”, vale a dire meno “missionaria” in senso
classico, ma molto più presente e determinante in ambito sociale.
Venivano così fondati i presupposti per quella specializzazione
di ruolo, nell’ambito della dottrina sociale, che l’intervento
vaticano ha via via assunto negli anni successivi, culminata
nelle prese di posizione in occasione delle grandi conferenze
delle Nazioni Unite (Conferenze di Rio sull’ambiente, del Cairo
sulla popolazione, di Pechino sulle donne) e nella costruzione,
appunto, della campagna contro la globalizzazione.
Attualmente, dunque, la chiesa cattolica, con la pretesa di
compensare una situazione di vuoto ideologico e morale, si propone
come punto di riferimento privilegiato per le società esposte
alle leggi del profitto e del mercato, alle degenerazioni del
liberalismo e del capitalismo.
L’azione della Chiesa nel campo della dottrina sociale presenta
un quadro sapientemente articolato. Gli interventi, normalmente
affidati al sinodo, ma anche all’episcopato locale, vengono
talora svolti da altre istituzioni vaticane, come ad esempio
il pontificio Consiglio Iustitia et Pax, recentemente insediato
anche a Cuba. In altre occasioni l’intervento viene addirittura
affidato ad associazioni , come nel caso della Caritas, del
Movimento dei Focolari o della Comunità di S. Egidio, un’associazione
canonica laicale, a cui sono stati affidati ruoli di mediazione
politica e diplomatica importantissimi, evitando al Vaticano
un coinvolgimento troppo evidente in questioni che di pastorale
avevano ben poco. E’ il caso, ad esempio, dell’operazione Hipc
(acronimo che sta per Paesi Poveri Fortemente Indebitati), che
ha visto una concertazione tra Banca Mondiale e Vaticano sul
problema del debito del terzo mondo; esclusa l’ipotesi di una
cancellazione del debito, il programma stabilito prevede di
permettere a 21 dei 41 paesi totali, di raggiungere la sostenibilità
del debito attraverso complesse operazioni finanziarie (tra
cui l’accesso a un fondo fiduciario di creditori multilaterali)
finalizzate , in sostanza, alla perpetuazione del debito, e
a larghissime speculazioni di ordine politico oltre che economico.
È solo un esempio di quel ruolo sociale ed umanitario che la
Chiesa, quale depositaria dell’ordine etico,vuole rivestire
per divenire l’interlocutore di maggioranza di fronte al nuovo
ordine economico.
Ovviamente, per condurre questa operazione, è necessario un
grosso rilancio clericale da condurre all’insegna dell’ecumenismo,
cioè di quella volontà egemonica, all’interno delle varie religioni
monoteiste, che trova il cardine nell’ affermazione storica
del primato della Chiesa di Roma, fondato sul dogma della infallibilità
del Papa, tratto distintivo della religione cattolica.
Gli interventi “etici” in difesa del diritto dei popoli non
si fermano, del resto, a dichiarazioni di principio. La volontà
egemonica della Chiesa si esplicita, in ambito internazionale,
con l’intervento nel settore sociale-umanitario, su tematiche
quali i diritti umani, l’ecologia, il disarmo nucleare, la produzione
di armi, la fame, l’immigrazione, senza trascurare punti-cardine
come la sessualità, la famiglia, la scuola.
Le pressioni esercitate dai settori vaticani per la revoca dell’embargo
a Cuba, all’Iraq, alla Libia e persino alla Serbia sono servite
per evidenziare la capacità della Chiesa di forzare le regole
del diritto internazionale e di assumere le funzioni di stato
etico sovranazionale.
E’ evidente, del resto, che la campagna vaticana contro la globalizzazione,
oltre la facciata umanitaria, presenti ben altre motivazioni.
Non si può non considerare, infatti, la necessità, per la Chiesa
cattolica, di affermarsi in Europa in un momento in cui l’Europa
si appresta a conquistare un’identità economica e politica tale
da situarla tra i blocchi mondiali. La posizione della Chiesa
cattolica in Europa è debole, infatti, soprattutto nel settore
settentrionale, economicamente più significativo, dove deve
fare i conti con le chiese protestanti e riformate, oltre che
con il colosso Germania. Per consolidare la propria posizione
sullo scenario europeo la Chiesa ha dunque la necessità di mettere
in discussione il modello economico americano, con cui il modello
tedesco è in competizione.
La critica al modello di sviluppo capitalistico, espressa per
la prima volta, dal punto di vista dottrinario, nell’enciclica
del ‘91 sopra richiamata, è in realtà assai blanda. Mentre il
socialismo era sempre stato condannato dal punto di vista ideologico
e strutturale, l’enciclica si limita infatti a condannare le
degenerazioni e gli abusi del capitalismo.
La costruzione della “nuova” identità della Chiesa come stato
etico sovranazionale passa necessariamente da una riaffermazione
dello stato e della sua funzione.
Il cesarismo della politica vaticana è, del resto, ben riconoscibile
nella rete delle relazioni internazionali con gli stati, soprattutto
in quei settori che presentano maggiore problematicità anche
dal punto di vista religioso.
Un esempio, in questo senso, ci viene offerto dalle relazioni
intercorse tra santa Sede e Islam. Da qualche tempo la Chiesa
sta cercando di compensare con l’intervento diplomatico e i
rapporti istituzionali la scarsa presenza cattolica negli stati
islamici. Col pretesto di favorire il dialogo interreligioso
tra islam e cristianesimo, sono state avviate relazioni con
stati musulmani asiatici (Pakistan, Indonesia), africani (Sudan;
Nigeria..), mediterranei e mediorientali(Turchia, Egitto, Marocco,
Iran, Iraq, Algeria), arrivando, nel ‘97, anche a relazioni
con la Libia. E’ interessante segnalare che, paradossalmente,
l’insediamento diplomatico vaticano ha significato l’avvio della
costruzione di un modello sociale di separazione tra religione
e stato che potremmo definire “laico”, in quanto contrapposto
ai modelli confessionali e integralisti propri dell’Islam. La
chiesa cattolica cerca di conquistare nell’Islam uno spazio
che non le appartiene storicamente attraverso la rivendicazione
di una sorta di “par condicio”, ibrido tra pluralismo e di ecumenismo,che
prevede, in quella sede geografica, l’abiura di un principio
fondamentale come quello della religione di stato, che altrove,
basti pensare all’Italia, è regolatore fondamentale dell’ordine
politico.
La filibusta vaticana
Significative, a questo proposito, appaiono anche le relazioni
tra Vaticano e Chiesa Ortodossa, altro fronte nevralgico per
un cattolicesimo alla ricerca di egemonia su scala internazionale.
Dopo il crollo dei regimi comunisti, l’azione del Vaticano si
è rivolta alla espansione delle rappresentanze diplomatiche
nelle regioni della ex Unione Sovietica, aprendosi la strada
ad interventi estremamente disinvolti nelle relazioni con le
istituzioni statali.
In alcuni stati, infatti, il Vati-cano ha condotto una politica
sistematica di recupero dei beni ecclesiastici che erano stati
confiscati dai regimi comunisti, riuscendo, tra l’altro, ad
ottenere condizioni vantaggiose per l’assistenza religiosa nelle
carceri, negli ospedali e nelle caserme, corsi di religione
nelle scuole, nonché programmi religiosi nei palinsesti dei
media. Per rendere permanenti e durature queste acquisizioni
il Vaticano ha stipulato dei veri e propri concordati con alcuni
stati , guadagnandosi un ruolo istituzionale essenziale per
il proprio rilancio in questa zona.
Dure critiche sono arrivate, ovviamente, dal clero ortodosso,
la cui denuncia nei confronti del proselitismo sfrenato della
chiesa cattolica romana in Russia è culminata, nell’estate ‘97,
nella crisi delle relazioni tra Vaticano e patriarcato di Mosca
che ha indotto la Duma ad approvare una legge fortemente restrittiva
delle libertà religiose al di fuori della religione ortodossa.
D’altra parte, le contestazioni al pesante intervento politico
del Vaticano sono arrivate anche dall’interno, se si considera
la posizione dissidente del vescovo cattolico di Kiev, il quale
ha sostenuto che la Chiesa , sotto il comunismo, aveva avuto
il grande vantaggio di trovare una dimensione di purificante
spiritualismo, identificandosi, nella sua alterità al potere,
come chiesa delle origini.
Relativamente incurante di un versante religioso ancora problematico,
il Vaticano interviene dunque, per ora, sul piano della propria
affermazione istituzionale e statuale.
Sullo scenario internazionale assitiamo così alle duplici strategie
di arrembaggio della filibusta vaticana: da una parte l’ingerenza
umanitaria e la presunta assunzione dei diritti dei popoli;
dall’altra l’accordo con gli stati e la stipula di concordati
che riproducono, quando fa comodo, il principio di Westfalia:
“cuius regio ius religio”.
In altri settori, anch’essi di difficile dominio per la chiesa
cattolica, come quello di Israele, l’azione di ingerenza vaticana
ha assunto ancora altre caratteristiche.
Nel ‘93 è stato firmato un accordo tra S.Sede e Israele che
ha portato alla costituzione di uno statuto tale da poter consentire,
ad ogni cittadino che lo voglia, una sorta di “doppia tessera”:
poter essere, cioè, a pieno titolo, cattolico e israeliano.
La questione è stata perfezionata giuridicamente nel novembre
‘97: lo stato di Israele ha riconosciuto l’esistenza, sul proprio
territorio, di uno spazio istituzionale derivante da una fonte
di legittimità diversa dalla propria, costituita dal diritto
canonico della Chiesa cattolica. Affermando un potere giuridico
originario, è stato così ricavato uno spazio istituzionale.
Per le ambizioni statuali del Vaticano, impegnato contemporaneamente
anche sul fronte delle relazioni palestinesi, si è trattato
di una conquista determinante, che ha già prodotto alcuni passaggi
politici di rilievo, come la rivendicazione di uno statuto internazionale
per Gerusalemme; ne’ va trascurato che il riconoscimento diplomatico
di Israele da parte del Vaticano è avvenuto su basi “laiche”,
escludendo l’accettazione del valore religioso del legame tra
popolo e territorio. Un’operazione diplomatica abilissima, che,
giustificandosi con l’affermazione ecumenica della libertà religiosa,
ricava uno spazio istituzionale importante in un distretto di
fondamentale valore strategico, fino a poco tempo fa interdetto
all’ingerenza vaticana.
La fregola egemonica della Santa sede, come si vede, risponde
ad una esigenza di affermazione che rivela, sullo scenario internazionale,
la presenza di ampie zone che si sottraggono, proprio per la
tradizione dei popoli, al dominio cattolico. Come dire che la
diffusione su scala mondiale della religione cattolica apostolica
romana è in larga parte millantata ed è comunque inferiore a
quel che serve, in termini di requisiti d’accesso, ad una religione
che afferma il primato di Pietro e coltiva ambizioni di stato
etico sovranazionale, regolatore, su scala mondiale, di traffici
economici, oltre che di coscienze.
Oltre ai settori cui abbiamo accennato sopra, la Chiesa cattolica
si trova in difficoltà anche in Asia, dove, se si escludone
le Filippine, ha una presenza irrisoria, proprio in una zona
che presenta la massima concentrazione demografica mondiale.
Da qui l’impegno concentrato, soprattutto, nel settore cinese,
particolarmente problematico anche per le tensioni interne alla
stessa chiesa cattolica, visti i contrasti che spesso hanno
opposto la santa sede alla chiesa patriottica cinese (missionari
che hanno cercato di conciliare cristianesimo e confucianesimo),
adesso in via di ecumenico quanto opportunistico superamento.
Altri problemi sono rappresentati, inoltre, da alcuni spunti
di posizioni riconducibili alla teologia della liberazione,
che per ora sono stati decisamente repressi a colpi di scomunica.
E difficoltà di rilievo si riscontrano anche in Africa, un settore
di fondamentale importanza, se si considerano, con l’incremento
demografico previsto per i prossimi 25 anni, le tensioni di
ordine sociale e politico che si avranno su questo fronte e
la necessità, per la Chiesa cattolica, di difendere una posizione
di prestigio conquistata nel continente, ma pressoché limitata,
in termini egemonici, alla sola Nigeria. Proprio per prepararsi
a fronteggiare il colosso dell’Islam, la Chiesa, con modalità
che abbiamo già visto altrove, sta appoggiando con forza, contro
le opposte pressioni musulmane, il mantenimento della costituzione
“laica” della Federazione musulmana, la cui clausola d’indipendenza
prevede che il governo della federazione e dello stato che ne
fa parte non adottino alcuna religione di stato.
Con Castro, per esempio
Concludiamo con il caso Cuba, recentemente balzato all’attenzione
per la visita-evento di Woytila, che costituisce un “exemplum”
della ricerca di reciproci vantaggi per Chiesa e Stato, sapientemente
costruita nel tempo, dando ragione del legame di necessità che
lega due apparati di dominio, aldilà della loro presunta conformazione
ideologica.
Nel ‘59 il PEC, Partito comunista cubano, si proclamava ateo.
L’ateismo, comunque, più che come dichiarazione di principio,
veniva affermato per motivi politico congiunturali dovuti al
legame tra Chiesa cattolica e oppositori del regime esiliati.
Sta di fatto che, in quel periodo, la posizione della chiesa
locale si era indebolita, soprattutto c’era stato un abbattimento
del numero del clero e delle scuole cattoliche. Sono sempre
stati tenuti, tuttavia, rapporti con la santa sede, sia pure
a vario livello.
Nel’69 avviene la prima “svolta” di rilievo nelle relazioni
Chiesa-Stato: l’episcopato locale prende le distanze dal radicalismo
degli esiliati. Castro, conseguentemente, procede verso una
revisione dell’ateismo, affermando che non esiste contraddizione
tra adesione alla rivoluzione e fede religiosa. Ha inizio a
partire da questi anni il dialogo con il teologo brasiliano
della liberazione Frei Betto (autore del libro Fidel y religion)
e, successivamente, l’apertura verso i settori cattolici più
coinvolti nella rivoluzione sandinista in Nicaragua e Salvador.
Nell’ 85 il Partito comunista cubano ridefinisce ufficialmente
la propria linea, affermando che la discriminante non è quella
antireligiosa, ma quella rigorosamente marxista -leninista.
L’abbandono ufficiale dell’ateismo imprime un’accelerazione
alla evoluzione dei rapporti Stato-Chiesa.
Nell’ ‘86 la Chiesa cattolica organizza l’incontro nazionale
ecclesiale cubano. In questa occasione viene riconosciuto il
“contributo che anche il socialismo può dare alla fede” , individuando
alcuni valori comuni: l’apprezzamento del lavoro, la solidarietà,
la percezione dell’esigenza di cambiamenti strutturali (solo
la percezione); infine, elemento assai interessante, la coscienza
della dimensione sociale del peccato.
Nel ‘91 Castro abolisce ufficialmente la discriminante religiosa
dall’adesione al partito.
Nel ‘92 alcune modifiche costituzionali iniziano ad attribuire
alla Chiesa un ruolo istituzionale che l’ episcopato locale
non esita ad assumere, prendendo posizione contro l’embargo
e, contemporaneamente, facendo un appello al dialogo con gli
esiliati. La Chiesa dunque, valorizzando immediatamente la propria
funzione istituzionale, che rappresenta l’essenza del clericalismo,
si propone come agente del processo di riconciliazione.
Il potere istituzionale della Chiesa è enormemente aumentato
con la visita del papa a Cuba, in occasione della quale il vescovo
Ortega è stato nominato cardinale e sono stati fondati il movimento
degli universitari cattolici, l’Unione della stampa e una sezione
della Commissione Iustitia et pax.
D’altra parte lo stato cubano riceve da tutto questo la propria
dose di utile. Vista la posizione isolata su uno scenario internazionale
che ha assitito alla progressiva scomparsa dei regimi comunisti,
è evidente la necessità di consensi e di rilegittimazione. Che
ciò provenga proprio dal Papa, da questo papa, non rappresenta,
evidentemente, per Castro, un problema: Woytila ha ormai portato
a termine la crociata anticomunista degli anni’ 80, così come
quella contro la teologia della liberazione; anzi, l’inizio
della “opposta” campagna di critica al capitalismo e la presa
di posizione contro l’embargo rendono il Vaticano molto rispettabile
agli occhi della rivoluzione, nonostante le posizioni oscurantiste
costantemente ribadite in tutti i campi, dalla morale sessuale,
alla famiglia, fino alla rinnovata condanna del darwinismo.
D’altra parte ogni imperatore che si rispetti, sia pure in disarmo,
ha sempre ricercato l’investitura papale e il novello medioevo
che viviamo non fa che riproporre il ruolo pervasivo del clericalismo.
Già è stato osservato da alcuni politologi che la Chiesa “umanitaria”
potrebbe addirittura essere la candidata più probabile per offrire
al regime castrista una transizione che possa incorporare alcune
conquiste rivoluzionarie. Ovviamente, questo presuppone che
quel che resta del comunismo cubano debba assumere necessariamente
alcuni valori religiosi cattolici apostolici e romani; poco
importa se questo contrasta con le esigenze e le tradizioni
di una popolazione di origine prevalentemente africana, per
la quale la religione cattolica è stata storicamente solo uno
strumento del potere coloniale spagnolo. L’importante è, comunque,
che la campagna rottamazione sia benedetta da uno sponsor d’eccezione.
Patrizia Nesti
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