Semira Adamu è morta a vent’anni.
La vita che l’attendeva è stata brutalmente spezzata da mani
feroci di uomini in divisa, che sul suo corpo hanno brutalmente
impresso il segno delle frontiere di un mondo sempre più diviso
tra chi ha e chi non ha. Chi ha benessere, dignità, potere e
chi non ha neanche il diritto di vivere. Per ben quattro volte
avevano tentato di espellerla dal Belgio, ove aveva invano richiesto
asilo politico. La quinta volta, caricata a forza su un aereo,
legata come un animale, è stata soffocata da un cuscino messole
sul volto per tacitarne le grida di protesta. La sua era una
morte annunciata. Le proteste e le manifestazioni dei gruppi,
delle associazioni e dei singoli che si erano mobilitati in
sua difesa non sono valsi a nulla. La stessa Semira in un’intervista
telefonica in cui narra dei precedenti tentativi di espellerla
ci descrive, anticipandole tragicamente, le circostanze della
sua morte.
“Hanno provato ad espellermi quattro volte.
La prima volta, non hanno usato la forza. Mi hanno portata all’aeroporto.
Li mi hanno chiesto se accettavo l’espulsione. Ho detto di no
e mi hanno riportata nel centro.
La seconda volta si è svolta in modo identico, ma mi hanno assicurato
che la volta successiva, sarebbero stati molto più duri.
La terza volta, mi hanno preparata per andare all’aeroporto
e all’ultimo momento non siamo partiti. Mi hanno detto che avevano
dimenticato di prenotare un posto sul volo. Suppongo che avessero
paura delle manifestazioni di solidarietà in mio favore…
La quarta volta è stato terribile. Sono stata svegliata alle
6.30 da una del centro chi mi ha annunciato che dovevo tornare
nel mio paese e che avevo 20 minuti per preparare le mie valige.
Non ho avuto neanche il tempo di fare la doccia e ho dimenticato
delle cose mie nella precipitazione della partenza.
Finalmente ero pronta, mi hanno scortata fino alla porta di
uscita e mi hanno fatto salire nel furgone per raggiungere l’aeroporto.
All’arrivo, mi hanno legato braccia e gambe a due livelli diversi.
Poi mi hanno chiusa in una cella di isolamento, ci sono rimasta
dalle 7.00 alle 10.30. Sono venuti a riprendermi, mi hanno portata
verso l’aereo e alle 11.15 e mi hanno fatto salire. Una volta
dentro, mi sono messa a urlare e a piangere. Subito otto uomini
mi hanno circondata: due guardiani della Sabena e sei poliziotti.
I due guardiani della Sabena hanno usato la forza: facevano
pressione sul mio corpo e uno dei due mi ha applicato un cuscino
sul viso. Per poco mi soffocava... Poi i passeggeri sono intervenuti
e hanno detto che volevano lasciare l’aereo se non fossi stata
liberata.”
Oppressione femminile
Semira era nata in Nigeria: nel suo paese aveva un destino
segnato. La sua famiglia, suo padre o i suoi fratelli avevano
deciso per lei: doveva sposare un uomo di 68 anni, già marito
di altre mogli, un uomo per il quale sarebbe stata una proprietà
tra le altre. Semira ha detto no ed è fuggita. E’ fuggita e,
dopo lunghe peripezie, è giunta in Belgio, dove ha chiesto asilo.
Il governo belga ha detto no. Semira non aveva diritto all’asilo
politico: la sua era una vicenda personale, la sua vita non
correva pericolo. Essere privata della libertà non era un motivo
sufficiente. La sua condizione di donna che in quanto tale era
privata della facoltà di decidere della propria vita non bastava
a giustificare una richiesta d’asilo politico. L’oppressione
femminile non è una questione politica, una questione che investe
un ambito pubblico: è e deve restare, in Nigeria come in Belgio,
una faccenda “privata”, una faccenda per la quale non è il caso
di reclamare diritti, per la quale non è il caso di scomodare
il “Diritto”.
Ai ragazzi e alle ragazze d’Europa insegnano a scuola che i
loro sono paesi civili, in cui non esiste discriminazione, in
cui i diritti delle donne sono tutelati. I ragazzi e le ragazze
della civile Europa pensano che un enorme divario culturale
separi i luoghi in cui sono nati da quei paesi ove le donne
non hanno diritti, dignità, libertà. Una bella favola. Una favola
alla quale deve aver creduto anche Semira che in Belgio pensava
di poter vivere una vita scelta da lei. Semira ha pagato con
la vita questo sogno folle, quest’aspirazione esagerata per
chi come lei era nata nel posto “sbagliato”.
Lunghe linee del dolore
Le frontiere tra nord e sud del mondo sono lunghe linee del
dolore sulle quali si infrangono i sogni, le aspirazioni e le
stesse vite di migliaia e migliaia di esseri umani. Esseri umani
braccati come delinquenti, perché “clandestini”, “stranieri
illegali”, “extracomunitari”, “sans papiers”. L’espressione
francese è forse la più efficace, perché riducendo la questione
ai suoi più crudi termini burocratici ce ne mostra a pieno l’assurda
brutalità: non puoi stare qui, non puoi abitare, lavorare, amare,
giocare perché non hai “le carte”, sei uno senza carte. Se non
hai le carte non esisti, non devi esistere, devi andartene da
un’altra parte, perché a te, che non hai le carte, non è concesso
di sederti alla nostra tavola nemmeno per raccoglierne quegli
avanzi che non si negano neppure ai gatti randagi del cortile
sotto casa. Non hai le carte e quindi ti cacciamo. Ti cacciamo
con le buone se accetti con condiscendenza il nostro verdetto,
altrimenti useremo la forza. Il diritto è dalla nostra parte.
In questi anni l’attività dei legislatori dei paesi del Nord
e dell’Europa in particolare è stata frenetica: occorreva al
più presto adeguare le norme per impedire l’accesso a stranieri
indesiderabili, per fermare “l’invasione degli straccioni”,
per limitare il diritto d’asilo, per far sì che le espulsioni
avvenissero a norma di legge. La legge del più forte. Sancita
dai democratici parlamenti dei paesi civili. La civiltà d’Europa
si misura nella capacità di tenere lontani i “barbari”, gli
stranieri appunto.
Terre d’Europa, che erano state a lungo terre d’asilo per i
profughi ed i perseguitati si sono trasformate in luoghi di
frontiera. Una frontiera lungo la quale uomini armati affrontano
esseri umani che la miseria, le persecuzioni, le guerre sospingono
lontano dai loro paesi. Uomini, donne e bambini che affrontano
ogni sorta di disagi e peripezie per entrare in Europa o negli
Stati Uniti. Molti muoiono per lungo la via: soffocati nelle
intercapedini dei camion, affogati nell’Adriatico, schiacciati
nelle gallerie ferroviarie, uccisi sulle rive del Rio Grande
dalle guardie di frontiera, ingannati e truffati dai tanti malavitosi
che si arricchiscono grazie al trasporto di questa merce umana.
Non si può più parlare di emigrazione, di singoli che decidono
di partire, poiché sempre più marcatamente quello cui assistiamo
è un vero fenomeno migratorio, che vede muoversi interi gruppi
sociali o etnici. Il presumibile acuirsi del divario tra Nord
e Sud non potrà che mettere in movimento masse sempre maggiori
di persone.
Così un po’ ovunque sono cominciati a sorgere campi di detenzione
per stranieri illegali. In Francia i centri più importanti,
dotati di filo spinato, torrette di guardia e truppe dell’esercito,
somigliano a dei veri lager. D’altro canto la Francia ha accumulato
ormai una lunga esperienza in materia: i campi di internamento
di Argeles e di Rivesaltes per gli antifascisti spagnoli negli
anni 30; i campi di concentramento di Drancy e Pithiviers, vere
anticamere dello sterminio nazista, negli anni 40; i campi di
lavoro per gli operai immigrati negli anni 50; i campi di prigionia
per gli indipendentisti algerini negli anni ‘60. In Italia le
vicende dell’ultima estate mostrano come amministratori, politici,
poliziotti e giudici sopperiscano con molta applicazione e buona
volontà alla mancanza di esperienza.
Il
destino dei “senza carte”
Negli anni ’30 Ben Traven, autore oggi forse ricordato solo
in virtù delle trascrizioni cinematografiche dei suoi romanzi
- ricordiamo tra tutti “Il tesoro della Sierra Madre” - descrisse
con grande efficacia narrativa e straordinaria lucidità critica
la tragedia, di un san papier, di un uomo senza le carte. Dietro
lo pseudonimo di Ben Traven si celava Ret Maahrut, un anarchico
tedesco esule in Messico e certo nel romanzo v’è il riflesso
di un’esperienza vissuta in prima persona.
Ne “La nave morta” il protagonista, un marinaio apolide, viene
respinto da ogni paese, non ha la possibilità di fermarsi in
nessun posto, non può trovare imbarco regolare su nessuna nave
che non sia una “nave morta”, una nave destinata ad affondare
con il suo carico umano per consentire ai proprietari un risarcimento
assicurativo. Quella nave è l’emblema del destino riservato
a tanti anonimi “senza carte” nei “civili” paesi del Nord del
mondo: vivere nascosti, lavorando in nero, senza diritto ad
un alloggio decente, all’assicurazione in caso di malattia o
infortunio, alla pensione o magari divenendo la comoda manovalenza
per il racket della droga e della prostituzione. Questo per
chi ha la fortuna di non morire per strada o di essere cacciato
a forza. Chi poi, come Semira, ha il coraggio di levare alta
la propria voce, di non accettare in silenzio l’ingiustizia
e la sopraffazione, può incontrare solerti funzionari che, applicando
le normative, soffochino per sempre le sue grida.
Dopo l’assassinio di Semira, migliaia di persone hanno manifestato
in tutt’Europa: in Belgio diecimila persone sono sfilate davanti
al campo di internamento di Vottem, presso Liegi e analoghe
manifestazioni, grandi e piccole si sono svolte un po’ ovunque:
a Parigi, Londra, Stoccolma, Genova, Vienna... Mentre scrivo
sull’onda dell’indignazione per questa morte ingiusta e terribile
altre iniziative stanno prendendo corpo. All’impegno di ciascuno
che questa sia un’onda lunga...
Maria Matteo
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