Nel secondo dopoguerra l'anarchismo
è andato incontro alla crisi decisiva, con un progressivo esaurirsi
della sua presenza nell'immaginario occidentale. I pensatori
e i militanti hanno reagito in modi diversi. In maggioranza
si sono adeguati alle parole d'ordine della sinistra marxista,
accettandone l'egemonia sul piano intellettuale e conformandosi
alla sua visione manichea del mondo, sia pure con esplicite
divergenze sul piano delle conclusioni. Un esempio rappresentativo
di questo genere di atteggiamento lo troviamo in una delle donne
«forti» del movimento, Maria Luisa Berneri, di cui fu pubblicata,
nel 1952, una raccolta postuma di articoli. Il titolo del libro
era Neither East nor West: l'autrice poneva sullo stesso
identico piano l'Unione Sovietica, con i paesi del socialismo
reale, e l'Occidente capitalista e liberale. L'idea portante
era che entrambi i sistemi fossero egualmente e analogamente
repressivi e inumani. Il fatto che il suo libro potesse esser
pubblicato nel West, dove gli anarchici erano (relativamente)
liberi di far propaganda culturale o di organizzare sindacati,
mentre a East professarsi anarchico voleva dire prenotarsi un
simpatico posto di villeggiatura coatta in Siberia, non toccava
la sostanza del suo argomento. Il socialismo reale e il capitalismo
reale erano due orrori; d'altro canto - e qui assumeva rilevanza
l'influenza della sinistra istituzionale - per il socialismo
"ideale" restava sempre un'ancora di salvezza.
Tra gli anarchici esistevano per fortuna anche altre tendenze
- in Italia ben rappresentate, per esempio, dalla Volontà
di Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria - meno propense a condividere
senza traumi l'immaginario comunistoide. Leggere i vari pamphlet
pubblicati da Luce Fabbri in questo periodo è di fatto un'esperienza
rinfrescante. Ai dogmatismi e alle certezze si sostituisce uno
spirito critico e analitico, insoddisfatto della vulgata corrente,
animato da una costante problematicità e da una prospettiva
culturale non ristretta. Fedele alla radice socialista dell'anarchismo,
la Fabbri è comunque capace di mettere in gioco questa stessa
fede e di ridiscuterla nell'ambito di una riflessione che tiene
conto di nuovi spunti, come l'ascesa della tecnocrazia e l'avvento
del totalitarismo.
I suoi scritti mi sembrano dominati da un'esigenza primaria,
descritta in L'anticomunismo, l'antiimperialismo e la pace
(1949) (d'ora in avanti AAP) nel seguente modo: "Logicamente
facile e netta, la posizione di coloro che lottano per una vera
libertà e una vera giustizia sociale, diventa difficile e quasi
direi tragica in mezzo a quest'assurdo allinearsi di combattenti,
in cui il totalitarismo stalinista eredita la funzione storica
del nazi-fascismo" (p.42). Per la Fabbri il tema del percorso
possibile degli anarchici è centrale. In La strada (1952)
(d'ora in avanti S) lo individua nel "socialismo antistatale"
della linea bakuninista, che potrebbe tornare alla ribalta grazie
alla rinnovata identificazione tra lo stato e "lo sfruttamento
capitalista" (p.7). L'analisi è tutt'altro che semplicistica,
e si inserisce in una concettualizzazione storica (stavo per
scrivere "filosofia della storia") che, se da un lato soffre,
come tutte le operazioni di questo genere, di un eccessivo schematismo
nonché della pretesa di poter "indovinare" il futuro, dall'altro
offre una serie di considerazioni intorno alla natura dell'anarchismo
di indubbio valore e novità.
Tendenze
statolatriche
Già nel secondo dopoguerra la Fabbri era giunta alla conclusione
che la distinzione tradizionale tra destra e sinistra - che
per esempio Norberto Bobbio ritiene ancor oggi valida - era
superata. Non serviva a null'altro che "a coprire di fumo la
strada verso l'avvenire". Con l'avvento dei totalitarismi, la
militarizzazione dell'economia e il nuovo impeto dato alla "statalizzazione"
dagli "adoratori" di Stalin, "l'equazione sinistra = trasformazione
nel senso del progresso perde ogni significato discriminatorio".
La divisione del mondo in due blocchi rischia di semplificare
ingannevolmente la situazione. A parere della Fabbri la terminologia
potrebbe essere ancora recuperata con l'attribuzione di nuovi
significati: a destra fascisti e comunisti, uniti da un comune
programma di "massima oppressione politica, massimo sfruttamento
economico, monopolizzati tanto la prima quanto il secondo dallo
stato e dalla sua casta burocratica"; al centro le "cosiddette
democrazie occidentali", in costante pericolo di pendenza "verso
destra"; a sinistra gli alfieri del socialismo antistatale,
gli antifascisti, i pacifisti, in poche parole i libertari.
Per arrivare a questa "esattezza di vocabolario" occorrerebbe
però "porre in termini chiari il problema del socialismo e quello
dello stato". "E ciò generalmente non si fa", conclude (AAP,
pp. 4-7).
Agli inizi degli anni cinquanta l'obiettivo della Fabbri stava
quindi nel ridisegnamento del vocabolario della politica. Nell'ambito
di questa operazione offerse una serie di suggerimenti sulla
natura dell'anarchismo stesso. Anche la riflessione su di esso
subiva i nefasti effetti dell' "innegabile influenza marxista
su tutti i movimenti italiani (e, possiamo dire, europei)" (Sotto
la minaccia totalitaria, 1955, p. 13, d'ora in avanti MT).
Questa aveva prodotto, per quanto riguardava l'anarchismo (e
gli anarchici), la sottovalutazione programmatica dell'eredità
liberale. Il termine "liberalismo" aveva assunto una accezione
"spregiativa" grazie all'azione congiunta dei marxisti e dei
partiti conservatori che, "per il fatto di averlo sulla loro
bandiera, se ne considerano proprietari" (MT, pp. 45-46). Al
contrario, il modo migliore per intendere l'anarchismo era di
considerarlo "alla confluenza di due linee evolutive, quella
del liberalismo e quella del socialismo"(MT, p. 18). Accettando
l'istanza egualitaria del secondo e l'insistenza sui principi
della libertà e dell'autonomia del primo, le tendenze statolatriche
presenti in entrambe le tradizioni si sarebbero neutralizzate
a vicenda: "Tanto il liberalismo quanto il socialismo sono stati
falsati, deviati dalla fame del potere: il liberale non ha vacillato
a rendere schiavi gli uomini impadronendosi del loro pane; il
socialista oggi tende alla tirannia politica attraverso la statizzazione
della proprietà. La lotta tra il falso liberalismo (blocco occidentale)
e il falso socialismo (blocco orientale) è una lotta nel vuoto"
(S, p. 10).
Lo sforzo maggiore era ovviamente rivolto a chiarire il ruolo
del liberalismo, sul quale sembravano esserci dubbi maggiori.
Inserendosi nel solco delle elaborazioni liberalsocialiste,
a loro volta eredi della distinzione crociana tra liberalismo
come metodo e liberismo come politica economica, la Fabbri sostenne
che il primo aveva "avuto solo applicazioni pratiche parziali
e uno sviluppo tronco come dottrina" (S, p. 8). L'idea che esso,
in quanto dottrina individualista, fosse la dottrina cardine
del capitalismo era profondamente errata, e questo per due motivi.
In primo luogo, "il capitalismo non è mai stato individualista"
(S, p. 8); nella ricostruzione storica della Fabbri, il "preteso
individualismo" dei capitani d'industria dell'Ottocento non
era altro che "l'espressione del desiderio di limitare l'autorità
dello stato in materia economica". Le prime battute d'arresto
del capitalismo industriale spingeranno infatti i "padroni"
verso cartelli e trusts, istituzioni che costituiscono
in se stesse una palese negazione del cosiddetto individualismo
originario. Di conseguenza il mondo imprenditoriale non si orienta
affatto verso i valori dei "mercati e dei prezzi", ma piuttosto
verso la tutela statale prima e verso il controllo diretto dello
stato poi (MT, p. 25). Ed è questo il secondo motivo dell'inconciliabilità
tra liberalismo e capitalismo: facendo tesoro dell'esperienza
nazista, la Fabbri afferma che lo sviluppo più naturale del
secondo lo porterà in altra direzione: i capitalisti "lasceranno
cadere il loro liberalismo per conciliarsi con i nuovi regimi
più o meno totalitari in formazione, che salvano la gerarchia
sociale, creando una casta superiore e privilegiata di funzionari"
(S, p. 9).
Federalismo
libertario
Quale liberalismo, quindi? Un liberalismo di carattere soprattutto
etico, incentrato in primo luogo"sulla difesa della personalità
individuale" (MT, p. l9). Ed è proprio nello sviluppo di questo
concetto che la Fabbri crede di scoprire il momento della confluenza
con il socialismo. I liberali non sono riusciti a risolvere
il problema reale del dominio dell'uomo sull'uomo, accontentandosi
di una pura teoria della politica: "la lotta per la libertà
dell'uomo non può essere diretta solo contro la tirannia politica,
ma deve essere combattuta nello stesso tempo contro il controllo
della vita economica da parte d'una casta privilegiata, sia
essa composta da capitalisti privati o dai burocrati dello stato
proprietario" (S, p. 17). In altri termini, il liberalismo -
inteso come metodo di convivenza civile fondato sul libero sviluppo
dei singoli - potrà dirsi compiuto quando avrà eliminato i presupposti
del dominio economico: secondo la Fabbri, la libera impresa
e la proprietà privata. _ in questo senso che la tradizione
liberale, nel suo momento più alto, non potrà che confluire
nel socialismo, accettando l'idea di una proprietà socializzata
e di una libera "associazione che moltiplica all'infinito le
proiezioni dello sforzo individuale" (S, p. l3). Questo percorso
non è poi molto diverso da quello del liberalismo radicale alla
Gobetti e del socialismo liberale alla Rosselli - esperienze
sulle quali si sofferma con palese simpatia (AAP, p. 41, MT,
pp. 29-30, 42, 44) - con la differenza che, laddove i due insistono
sulla razionalizzazione da un lato, e la diminuzione dall'altro,
del potere di intervento dello stato nella vita degli uomini,
la Fabbri postula, seguendo da presso uno degli interlocutori
anarchici privilegiati dei due "martiri", Camillo Berneri, un
metodo liberale all'interno di una società senza stato basata
sui principi del federalismo libertario.
L'equivoco sul liberalismo nasce storicamente dagli sviluppi
ottocenteschi del conflitto tra la società borghese e il socialismo.
Il "contenuto classista" dell'azione di riscossa dei movimenti
operai non poteva non provocare un "urto" decisivo: ma "tale
contenuto è, secondo me, circostanziale" (MT, p. 24), preciserà,
accollandone la sopravvivenza soprattutto al perdurare dell'influenza
marxista. Tra le due tradizioni restano comunque significative
differenze. "Ci sono parole che sentiamo nostre come "socialismo"",
scriverà nel 1955, e altre, come "liberalismo", "che stanno
a significare solo una eredità da raccogliere e da continuare"
(MT, p. 9). Il cuore di Luce è tutto dentro la tradizione socialista;
ma non è difficile scorgere, all'interno dei suoi pamphlet scritti
tra la fine dei Quaranta e l'inizio dei Cinquanta, un significativo
slittamento di enfasi e tono. La frase sopra citata prosegue
con un chiarimento: il liberalismo è "una parentela più remota,
che diventa importante ora, perché ci aiuta a combattere da
un punto di vista attuale lo stato, dato che oggi capitalismo
e assolutismo burocratico convergono" (MT, p. 9). ln altre parole,
è stata la riflessione sul ruolo e la portata del totalitarismo
a portare la Fabbri a ciò che lei stessa ha descritto come "la
valorizzazione della tradizione liberale" (MT, p. 8). In questo
senso la sua riflessione giunge a cogliere con grande chiarezza
ciò che molti anarchici del Novecento, presi nella rete della
vulgata marxista, non hanno spesso compreso, cioè che l'anarchismo
non è in sé l'antitesi del capitalismo, quanto piuttosto del
totalitarismo: "guardando al passato, vediamo che, facendo della
libertà il centro delle loro aspirazioni, gli anarchici si sono
trovati fin da principio sulle posizioni che sono oggi diametralmente
opposte a quelle totalitarie" (MT, p. 46). Il confronto con
i regimi nazisti e comunisti ha sbalzato in primo piano ciò
che i precedenti conflitti di matrice classista avevano occultato,
rivelando la centralità dell'ethos liberale: "il carattere liberale,
in senso ampio, dell'anarchismo, risalta assai più oggi, alla
luce dell'esperienza totalitaria" (MT, p. 46).
Riflessione
incompiuta
Luce Fabbri ha quindi colto alcuni dei più importanti elementi
dell'anarchismo contemporaneo. D'altro canto il suo schema interpretativo
soffre di alcune rigidità, o, volendo usare i suoi termini,
della presenza di "un groviglio di falsi idoli, di dilemmi artificiali,
di assiomi accettati universalmente" (S, p. 26). Nel caso si
tratta - mi pare - della fedeltà a oltranza al modello del comunismo
libertario alla Kropotkin, con i suoi corollari dell'avversione
verso la proprietà privata e l'insufficiente concettualizzazione
degli effetti della cosiddetta" proprietà socializzata". Tuttavia,
più che in una sorta di "idolatria" intellettuale, i limiti
della proposta fabbriana - che considero ovviamente secondari
rispetto agli evidenti pregi - mi sembrano fondarsi soprattutto
su due elementi interrelati, il mito della perversione stalinista
e una riflessione incompiuta sul totalitarismo. E' usuale distinguere
tra i momenti iniziali della rivoluzione bolscevica - i soviet,
la socializzazione, la democrazia consiliare, eccetera - e le
successive perversioni accentratrici del leninismo e dello stalinismo.
Così facendo si perdono di vista le linee di continuità nel
bolscevismo e la qualità giacobino-totalitaria del complesso
della sua vicenda. _ nei dogmi e nei fondamenti dell'ideologia
marxista stessa che si annidano i germi dell'antiindividualismo
radicale e della "società-massa": l'eliminazione della proprietà
privata è solo una delle strategie di fondo del totalitarismo.
Luce si è concentrata sugli effetti devastanti della proprietà
privata nell'accezione capitalista del termine, proponendo di
recidere il male alla radice. E tuttavia il nesso tra collettivizzazione
e società totalitaria non è affatto unidirezionale, e neppure
casuale.
In altri termini, la lezione del Novecento insegna non solo
che il totalitarismo tende di fatto a" socializzare" la proprietà,
ma anche che il livellamento della proprietà tende inesorabilmente
a incoraggiare forme totalitarie di organizzazione della vita
sociale. Trascurare questo elemento ha forse portato la Fabbri
a sottovalutare altri elementi dell'ethos liberale -
per esempio, una concettualizzazione garantista e "difensiva"
della proprietà stessa - che potrebbero trovare una degna collocazione
nell'anarchismo stesso.
Pietro Adamo
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