rivista anarchica
anno 29 n.251
febbraio 1999


Il fronte del dialogo
di Maria Matteo

La parabola istituzionale di una parte dei Centri sociali evidenzia un progetto di tipo socialdemocratico in veste dimessa.

 

Nel 1998 Centri Sociali, Posti Occupati, Squatt sono stati a lungo al centro delle cronache dei media. Non accadeva dalla fine degli anni ’80 quando lo sgombero del Leoncavallo divenne un caso di rilevanza nazionale. Elemento detonatore di tale rinnovato interesse è stata sicuramente la lunga primavera torinese, in cui lo scontro tra Squatt, Centri Sociali e Posti Occupati da un lato e Magistratura, Forze dell’ordine e Governo della città dall’altro è stato particolarmente aspro, raggiungendo il proprio apice dopo il suicidio in carcere di Edoardo Massari. Ho a suo tempo lungamente descritto e analizzato tali eventi sulle pagine di "A" e non ci torno quindi sopra. Mi limito pertanto a ricordare solo alcuni fatti della successiva estate che a mio avviso sono stati decisivi nel determinare il quadro attuale. In luglio il suicidio di Soledad Rosas pare riaccendere la rabbia a Torino e in altre città, ma l’estate che sopraggiunge, nonché l’eco delle polemiche tra squatter e insurrezionalisti sulle scelte operate in aprile spengono rapidamente i "fuochi della rivolta".
A ciel sereno, in agosto, mani sconosciute ma sicuramente animate da una strana fiducia nelle Poste Italiane spediscono alcuni pacchi bomba che a varie ondate arrivano a sei tra magistrati, funzionari, giudici e politici. E colpiscono nel segno. I sei destinatari dei pacchi ne escono illesi ma la convergenza sia pure faticosa realizzata in primavera tra squatter, Centri Sociali facenti riferimento all’area dell’Autonomia di Classe e Leoncavallo va rapidamente in frantumi.
I mass media con l’acume che spesso li contraddistingue escono con titoli di rara stupidità parlando più o meno esplicitamente di "Bombe Squatter". I comunicati che a caldo e a freddo vengono emessi segnalano una divaricazione di posizioni notevole tra chi simpatizza con gli improvvisati postini, chi prende le distanze, chi sospetta la mano dei Servizi e chi, come gli squatter, definisce la faccenda come "grande spettacolo politico" e sceglie di non stare al gioco.
Ma alla fin fine i comunicati hanno poca importanza: quel che conta è che, immediatamente Leoncavallo, Melting dei Centri Sociali del Nord Est, Cortocircuito di Roma, Talpa e l’orologio di Imperia, e alcuni altri Centri in Liguria e Marche prendono l’iniziativa cercando di spostare verso lidi più tranquilli l’asse politico che pareva essersi sbilanciato - e non solo geograficamente - verso Torino.
Da questo momento la parabola dei Centri Sociali assume un’interessante e forse inedita curvatura della quale vi erano sì alcuni indizi ma che certo in pochi avrebbero scommesso svilupparsi con tanta rapidità.
L’asse che per comodità chiameremo Leoncavallo & C. gioca una partita complessa la cui posta in gioco è l’egemonia sui movimenti di opposizione sociale ed il ruolo di interlocutore privilegiato verso quei settori istituzionali che per ovvia opportunità politica si mostrano più sensibili al "dialogo".

 

Quattro anni luce

A Milano vengono convocate conferenze stampa con tanto di interfaccia istituzionali e dal Leoncavallo parte la proposta di una manifestazione contro la repressione per il 26 settembre. Il pretesto lo dà l’imminente processo (poi conclusosi con l’assoluzione per gran parte degli imputati o con piccole condanne per reati minori) per i fatti del 10 settembre 1994, quando il minacciato sgombero del Leoncavallo portò ad una manifestazione di piazza in cui si verificarono scontri e cariche molto violenti. Ma come è subito chiaro tra il ’94 e il ’98 sono passati quattro anni luce.
La manifestazione del 26 si presenta come la manifestazione di quelli che accettano e propongono il dialogo in opposizione a coloro che lo rifiutano. I "dialoganti" che in primavera parevano limitarsi all’area dei Centri Sociali del Nord Est, il cui portavoce si era distinto per le sue esplicite distinzioni tra Centri Sociali "buoni" e squatter "cattivi", prendono l’iniziativa aprendo una vera e propria vertenza che si snoda intorno a quattro punti fondamentali: amnistia per i detenuti politici degli anni del terrorismo e per i reati connessi alla pratica dell’occupazione, liberalizzazione delle droghe leggere, chiusura dei centri di detenzione temporanea per immigrati, scarcerazione dei malati gravi e dei malati di AIDS.
Siamo alla cosiddetta "Carta di Milano", un documento di tre paginette con il quale Leoncavallo & C. si candidano alla rappresentanza dell’opposizione sociale in Italia e, soprattutto, al ruolo di mediazione tra le istanze sociali emergenti e i settori istituzionali della sinistra interessati ad attingere ad un serbatoio di consenso (e di voti) in apparenza refrattario alle seduzioni della "compatibilità".
La manifestazione del 26 settembre a Milano doveva rappresentare anche in piazza l’area "dialogante" in opposizione al ribellismo nichilista degli squatter, un modo per riprendere l’iniziativa dopo la manifestazione del 4 aprile a Torino.
In effetti l’operazione è riuscita solo parzialmente, perché se, come era prevedibile, l’area dei posti occupati anarchici non ha partecipato alla manifestazione, i centri sociali facenti riferimento all’Autonomia di classe, che da anni tenta di costituirsi in partito e, pur sensibile ad un rapporto con Rifondazione, pare meno disponibile a farsi esplicitamente interprete di un progetto di segno neosocialdemocratico, vi hanno preso parte in modo del tutto critico. Il 26 settembre a Milano si è pertanto evidenziata una spaccatura sulla cui portata non è ancora possibile trarre conclusioni ma che certo non pare lieve.
Nonostante la poco brillante riuscita della manifestazione del 26 settembre il "Fronte del dialogo" pare in questi ultimi mesi aver impresso una decisa accelerazione al proprio progetto sia sul piano propriamente politico/mediatico dell’incontro e del confronto con i ministri di polizia e degli affari sociali sia all’interno delle piazze.
Naturalmente qualcuno potrebbe obbiettare che alla fin fine i quattro punti indicati dalla carta di Milano rappresentano questioni importanti e che l’atteggiamento di velleitaria estraneità espresso sia pure in modo molto differente dai Centri Sociali autonomi e dagli squatter finisce paradossalmente con l’avere a sua volta una valenza meramente spettacolare. Ma in tal modo non si coglie il dato essenziale dell’operazione in corso, il cui profilo si è venuto lentamente delineando negli ultimi anni e che oggi giunge ad un punto decisivo della propria parabola. Leoncavallo & C. si propongono come filtro tra sempre crescenti aree di disagio sociale e le istituzioni con un modus operandi che si colloca a metà tra lo stile del volontariato cattolico, (con il quale non a caso intessono stretti rapporti) quello di un sindacato abituato alla concertazione e quello degli autonomi che non disdegnano lo scontro di piazza.

Quali agende politiche

Vale la pena a questo punto di citare un breve, ma decisamente pregnante, passo della "Carta di Milano": "Non riconosciamo questo diritto finché questo diritto non riconoscerà noi! Questo ‘diritto’ non ci appartiene perché non è più (il corsivo è mio) adeguato ad interpretare le condizioni sociali prodotte dalle profonde trasformazioni che stanno attraversando questo paese. La sanzione penale di comportamenti sociali causati da un modello di sviluppo che garantisce solo precarietà ed esclusione in un’assenza totale di prospettive per il futuro, è la dimostrazione di quanto sia ormai tramontata la cultura giuridica di questo paese. Si discute di ‘svolte’, ci si divide su come affrontare la grave situazione sociale ed occupazionale che investe ormai ampi settori di popolazione ma al tempo stesso si sanziona pesantemente l’espressione sociale di questo stato di cose. L’effetto immediato di questo meccanismo è di comprimere la manifestazione del dissenso impedendo che esploda definitivamente la crisi di questa strumentazione giuridica." Siamo di fronte ad un’autentica chicca, un piccolo capolavoro di trasformismo politico. In apparenza una dichiarazione di estraneità al sistema, in realtà un bussare prepotentemente alla porta delle istituzioni dello stato per reclamare riconoscimenti e diritti. Infatti alla bellicosa dichiarazione di apertura: "Non riconosciamo questo diritto finché questo diritto non riconoscerà noi!" segue immediatamente la spiegazione: "Questo ‘diritto’ non ci appartiene perché non è più adeguato ad interpretare le condizioni sociali prodotte dalle profonde trasformazioni che stanno attraversando questo paese." Questa frase rappresenta la negazione esplicita di ogni posizione extrasistemica, di ogni tentativo di trasformazione sociale radicale.
Colpisce nelle parole della "Carta" l’affermazione che il diritto sia non più adeguato all’oggi: dal che parrebbe potersi dedurre che in passato questo diritto era invece del tutto adeguato ad interpretare le condizioni sociali. Uno spiritello maligno mi indurrebbe a chiedermi se ciò valga anche per la legislazione emergenziale scaturita dagli anni del terrorismo e della quale Leoncavallo & C. chiedono oggi con insistenza la fine. Ma sono una persona di buon cuore e quindi mi astengo. Non posso tuttavia astenermi dal chiedermi in cosa consista la rivendicazione che "fin da subito un ‘nuovo diritto’ sia messo all’ordine del giorno delle agende politiche attuali". Le agende politiche di chi? Dubitando che si tratti di un appello allo sparso universo dell’opposizione sociale perché insorga contro l’ordine esistente, non resta che concludere che i prodi della Leoncavallo & C. si stiano rivolgendo al governo ed al parlamento di questo paese. Fantascienza? Mica tanto se in tema di centri sociali i nostri si collocano "dal punto di vista di una legislazione attualmente inadeguata che deve saper riconoscere la peculiarità della dimensione autogestionaria e ne salvaguardi l’indipendenza e l’autonomia politica, gestionale, amministrativa". Come ogni buon politico che si rispetti i nostri (si fa per dire) chiedono con insistenza che li si lasci lavorare in pace.
A cosa? Qual è l’obbiettivo qualificante che oggi attraversa quest’area al di là delle rivendicazioni immediate prima citate? Il termine adottato, invero un po’ nebuloso, è quello di "riforma conflittuale del welfare" che si suppone giocata prevalentemente sul terreno della richiesta di tutela per coloro che sono privi di reddito, attraverso quello che viene definito "reddito di cittadinanza". Quindi al fondo del barile, al di là della studiata magniloquenza verbale, anche al di là del rituale suonare dei tamburi di guerra, non troviamo che un progetto socialdemocratico in veste dimessa con piccole ambizioni da sindacatino dalle scarse pretese, modeste aspirazioni da patronato degli sfigati, i Centri Sociali come parrocchie laiche per tenere i ragazzi lontani dalle strade e magari, per qualcuno, la via spianata verso qualche poltrona o poltroncina nelle amministrazioni o, perché no, nel parlamento nazionale.

 

Maria Matteo