Nel 1998 Centri Sociali, Posti
Occupati, Squatt sono stati a lungo al centro delle cronache
dei media. Non accadeva dalla fine degli anni ’80 quando lo
sgombero del Leoncavallo divenne un caso di rilevanza nazionale.
Elemento detonatore di tale rinnovato interesse è stata
sicuramente la lunga primavera torinese, in cui lo scontro tra
Squatt, Centri Sociali e Posti Occupati da un lato e Magistratura,
Forze dell’ordine e Governo della città dall’altro è
stato particolarmente aspro, raggiungendo il proprio apice dopo
il suicidio in carcere di Edoardo Massari. Ho a suo tempo lungamente
descritto e analizzato tali eventi sulle pagine di "A"
e non ci torno quindi sopra. Mi limito pertanto a ricordare
solo alcuni fatti della successiva estate che a mio avviso sono
stati decisivi nel determinare il quadro attuale. In luglio
il suicidio di Soledad Rosas pare riaccendere la rabbia a Torino
e in altre città, ma l’estate che sopraggiunge, nonché
l’eco delle polemiche tra squatter e insurrezionalisti sulle
scelte operate in aprile spengono rapidamente i "fuochi
della rivolta".
A ciel sereno, in agosto, mani sconosciute ma sicuramente
animate da una strana fiducia nelle Poste Italiane spediscono
alcuni pacchi bomba che a varie ondate arrivano a sei tra magistrati,
funzionari, giudici e politici. E colpiscono nel segno. I sei
destinatari dei pacchi ne escono illesi ma la convergenza sia
pure faticosa realizzata in primavera tra squatter, Centri Sociali
facenti riferimento all’area dell’Autonomia di Classe e Leoncavallo
va rapidamente in frantumi.
I mass media con l’acume che spesso li contraddistingue
escono con titoli di rara stupidità parlando più
o meno esplicitamente di "Bombe Squatter". I comunicati
che a caldo e a freddo vengono emessi segnalano una divaricazione
di posizioni notevole tra chi simpatizza con gli improvvisati
postini, chi prende le distanze, chi sospetta la mano dei Servizi
e chi, come gli squatter, definisce la faccenda come "grande
spettacolo politico" e sceglie di non stare al gioco.
Ma alla fin fine i comunicati hanno poca importanza: quel
che conta è che, immediatamente Leoncavallo, Melting
dei Centri Sociali del Nord Est, Cortocircuito di Roma, Talpa
e l’orologio di Imperia, e alcuni altri Centri in Liguria e
Marche prendono l’iniziativa cercando di spostare verso lidi
più tranquilli l’asse politico che pareva essersi sbilanciato
- e non solo geograficamente - verso Torino.
Da questo momento la parabola dei Centri Sociali assume
un’interessante e forse inedita curvatura della quale vi erano
sì alcuni indizi ma che certo in pochi avrebbero scommesso
svilupparsi con tanta rapidità.
L’asse che per comodità chiameremo Leoncavallo &
C. gioca una partita complessa la cui posta in gioco è
l’egemonia sui movimenti di opposizione sociale ed il ruolo
di interlocutore privilegiato verso quei settori istituzionali
che per ovvia opportunità politica si mostrano più
sensibili al "dialogo".
Quattro
anni luce
A Milano vengono convocate conferenze stampa con tanto
di interfaccia istituzionali e dal Leoncavallo parte la proposta
di una manifestazione contro la repressione per il 26 settembre.
Il pretesto lo dà l’imminente processo (poi conclusosi
con l’assoluzione per gran parte degli imputati o con piccole
condanne per reati minori) per i fatti del 10 settembre 1994,
quando il minacciato sgombero del Leoncavallo portò ad
una manifestazione di piazza in cui si verificarono scontri
e cariche molto violenti. Ma come è subito chiaro tra
il ’94 e il ’98 sono passati quattro anni luce.
La manifestazione del 26 si presenta come la manifestazione
di quelli che accettano e propongono il dialogo in opposizione
a coloro che lo rifiutano. I "dialoganti" che in primavera
parevano limitarsi all’area dei Centri Sociali del Nord Est,
il cui portavoce si era distinto per le sue esplicite distinzioni
tra Centri Sociali "buoni" e squatter "cattivi",
prendono l’iniziativa aprendo una vera e propria vertenza che
si snoda intorno a quattro punti fondamentali: amnistia per
i detenuti politici degli anni del terrorismo e per i reati
connessi alla pratica dell’occupazione, liberalizzazione delle
droghe leggere, chiusura dei centri di detenzione temporanea
per immigrati, scarcerazione dei malati gravi e dei malati di
AIDS.
Siamo alla cosiddetta "Carta di Milano", un documento
di tre paginette con il quale Leoncavallo & C. si candidano
alla rappresentanza dell’opposizione sociale in Italia e, soprattutto,
al ruolo di mediazione tra le istanze sociali emergenti e i
settori istituzionali della sinistra interessati ad attingere
ad un serbatoio di consenso (e di voti) in apparenza refrattario
alle seduzioni della "compatibilità".
La manifestazione del 26 settembre a Milano doveva rappresentare
anche in piazza l’area "dialogante" in opposizione
al ribellismo nichilista degli squatter, un modo per riprendere
l’iniziativa dopo la manifestazione del 4 aprile a Torino.
In effetti l’operazione è riuscita solo parzialmente,
perché se, come era prevedibile, l’area dei posti occupati
anarchici non ha partecipato alla manifestazione, i centri sociali
facenti riferimento all’Autonomia di classe, che da anni tenta
di costituirsi in partito e, pur sensibile ad un rapporto con
Rifondazione, pare meno disponibile a farsi esplicitamente interprete
di un progetto di segno neosocialdemocratico, vi hanno preso
parte in modo del tutto critico. Il 26 settembre a Milano si
è pertanto evidenziata una spaccatura sulla cui portata
non è ancora possibile trarre conclusioni ma che certo
non pare lieve.
Nonostante la poco brillante riuscita della manifestazione
del 26 settembre il "Fronte del dialogo" pare in questi
ultimi mesi aver impresso una decisa accelerazione al proprio
progetto sia sul piano propriamente politico/mediatico dell’incontro
e del confronto con i ministri di polizia e degli affari sociali
sia all’interno delle piazze.
Naturalmente qualcuno potrebbe obbiettare che alla fin fine
i quattro punti indicati dalla carta di Milano rappresentano
questioni importanti e che l’atteggiamento di velleitaria estraneità
espresso sia pure in modo molto differente dai Centri Sociali
autonomi e dagli squatter finisce paradossalmente con l’avere
a sua volta una valenza meramente spettacolare. Ma in tal modo
non si coglie il dato essenziale dell’operazione in corso, il
cui profilo si è venuto lentamente delineando negli ultimi
anni e che oggi giunge ad un punto decisivo della propria parabola.
Leoncavallo & C. si propongono come filtro tra sempre crescenti
aree di disagio sociale e le istituzioni con un modus operandi
che si colloca a metà tra lo stile del volontariato cattolico,
(con il quale non a caso intessono stretti rapporti) quello
di un sindacato abituato alla concertazione e quello degli autonomi
che non disdegnano lo scontro di piazza.
Quali
agende politiche
Vale la pena a questo punto di citare un breve, ma decisamente
pregnante, passo della "Carta di Milano": "Non
riconosciamo questo diritto finché questo diritto non
riconoscerà noi! Questo ‘diritto’ non ci appartiene perché
non è più (il corsivo è mio) adeguato
ad interpretare le condizioni sociali prodotte dalle profonde
trasformazioni che stanno attraversando questo paese. La sanzione
penale di comportamenti sociali causati da un modello di sviluppo
che garantisce solo precarietà ed esclusione in un’assenza
totale di prospettive per il futuro, è la dimostrazione
di quanto sia ormai tramontata la cultura giuridica di questo
paese. Si discute di ‘svolte’, ci si divide su come affrontare
la grave situazione sociale ed occupazionale che investe ormai
ampi settori di popolazione ma al tempo stesso si sanziona pesantemente
l’espressione sociale di questo stato di cose. L’effetto immediato
di questo meccanismo è di comprimere la manifestazione
del dissenso impedendo che esploda definitivamente la crisi
di questa strumentazione giuridica." Siamo di fronte ad
un’autentica chicca, un piccolo capolavoro di trasformismo politico.
In apparenza una dichiarazione di estraneità al sistema,
in realtà un bussare prepotentemente alla porta delle
istituzioni dello stato per reclamare riconoscimenti e diritti.
Infatti alla bellicosa dichiarazione di apertura: "Non
riconosciamo questo diritto finché questo diritto non
riconoscerà noi!" segue immediatamente la spiegazione:
"Questo ‘diritto’ non ci appartiene perché non è
più adeguato ad interpretare le condizioni sociali prodotte
dalle profonde trasformazioni che stanno attraversando questo
paese." Questa frase rappresenta la negazione esplicita
di ogni posizione extrasistemica, di ogni tentativo di trasformazione
sociale radicale.
Colpisce nelle parole della "Carta" l’affermazione
che il diritto sia non più adeguato all’oggi: dal che
parrebbe potersi dedurre che in passato questo diritto era invece
del tutto adeguato ad interpretare le condizioni sociali. Uno
spiritello maligno mi indurrebbe a chiedermi se ciò valga
anche per la legislazione emergenziale scaturita dagli anni
del terrorismo e della quale Leoncavallo & C. chiedono oggi
con insistenza la fine. Ma sono una persona di buon cuore e
quindi mi astengo. Non posso tuttavia astenermi dal chiedermi
in cosa consista la rivendicazione che "fin da subito un
‘nuovo diritto’ sia messo all’ordine del giorno delle agende
politiche attuali". Le agende politiche di chi? Dubitando
che si tratti di un appello allo sparso universo dell’opposizione
sociale perché insorga contro l’ordine esistente, non
resta che concludere che i prodi della Leoncavallo & C.
si stiano rivolgendo al governo ed al parlamento di questo paese.
Fantascienza? Mica tanto se in tema di centri sociali i nostri
si collocano "dal punto di vista di una legislazione attualmente
inadeguata che deve saper riconoscere la peculiarità
della dimensione autogestionaria e ne salvaguardi l’indipendenza
e l’autonomia politica, gestionale, amministrativa". Come
ogni buon politico che si rispetti i nostri (si fa per dire)
chiedono con insistenza che li si lasci lavorare in pace.
A cosa? Qual è l’obbiettivo qualificante che oggi
attraversa quest’area al di là delle rivendicazioni immediate
prima citate? Il termine adottato, invero un po’ nebuloso, è
quello di "riforma conflittuale del welfare" che si
suppone giocata prevalentemente sul terreno della richiesta
di tutela per coloro che sono privi di reddito, attraverso quello
che viene definito "reddito di cittadinanza". Quindi
al fondo del barile, al di là della studiata magniloquenza
verbale, anche al di là del rituale suonare dei tamburi
di guerra, non troviamo che un progetto socialdemocratico in
veste dimessa con piccole ambizioni da sindacatino dalle scarse
pretese, modeste aspirazioni da patronato degli sfigati, i Centri
Sociali come parrocchie laiche per tenere i ragazzi lontani
dalle strade e magari, per qualcuno, la via spianata verso qualche
poltrona o poltroncina nelle amministrazioni o, perché
no, nel parlamento nazionale.
Maria Matteo
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