Questo 1999 si è aperto all’insegna
della paura. Una paura maligna, di cui non si comprende esattamente
l’origine e che è quindi molto difficile da spiegare.
Talora ho la sensazione di trovarmi di fronte ad una sorta di
malattia contagiosa, una malattia che si espande per semplice
contatto ed è veicolata da dicerie che si propagano a
macchia d’olio senza che se ne possa individuare la fonte.
Il buon senso, la verifica razionale dei fatti possono ben
poco di fronte ad un sentimento così diffuso e radicato
che oltretutto, grazie alla potenza dei media, si espande con
straordinaria rapidità sino a trasformarsi in un comune
sentire. Sebbene sia propensa ritenere che le statistiche da
cui veniamo più o meno seriamente inondati ogni giorno,
non abbiano spesso maggior attendibilità dei vari sistemi
inventati per agguantare i numeri giusti al lotto, tuttavia
resta il fatto che i vari sondaggi recentemente fatti circolare
sono concordi nel segnalare una crescita socialmente diffusa
del senso di insicurezza e, quindi, della paura. Paura ad uscire
la sera, paura a frequentare certi quartieri, a passeggiare
nei giardini pubblici. Eppure altre statistiche, alle quali
ovviamente non conferiremo certo un maggior crisma di verità,
dicono che la criminalità è in diminuzione, specie
per quel che concerne i reati più gravi. La correlazione
che si potrebbe facilmente stabilire tra aumento della criminalità
e crescita della paura, pare non avere un solido fondamento.
Eppure, anche prescindendo dalle statistiche, e, ancor più,
dalle campagne giornalistiche che mirano spesso ad amplificare
ogni avvenimento, resta la paura. E’ sufficiente fare un giro
in tram o al supermercato per coglierla nei frammenti di conversazione
di chi ci sta accanto, per sentirne l’alito pesante, per coglierne
il necessario corollario di pregiudizio, per intuire la ferocia
che può generare.
All’inizio di quest’anno, quando a Milano in nove giorni
vennero ammazzate nove persone, una al giorno - un ritmo paragonabile
solo a quello dei paesi più poveri o ai bassifondi del
più ricco, gli Stati Uniti - la paura è divenuta
protagonista delle cronache, che l’hanno amplificata, le hanno
dato un senso e una forma compiuti, identificando in modo chiaro
il nemico da combattere, l’immigrato povero, meglio se clandestino.
L’identificazione tra immigrato clandestino è delinquente
è ormai un luogo comune acquisito, difficilmente smontabile,
foriero di provvedimenti liberticidi nei confronti non solo
degli immigrati ma di tutti i cittadini.
Esemplare, per il modo in cui è stata trattata dai
media, la tragica vicenda del giovane barista milanese vittima
di due rapinatori. Nonostante sin dai primi momenti le cronache
del fatto riportassero in maniera chiara che i rapinatori assassini
fossero sicuramente italiani, nei giorni successivi i telegiornali
ed i rotocalchi televisivi hanno ossessivamente riproposto piccole
folle irose scagliarsi contro gli immigrati specie se albanesi.
Il processo di costruzione dell’immagine del nemico, un
processo lungo che si sta ormai sviluppando da alcuni anni,
è giunto, temo, a compimento. L’ipertrofia informativa
anziché mostrare la realtà finisce con l’occultarla,
distorcerla, porla al servizio di politiche repressive e di
strategie di controllo sociale già decise da tempo sia
sul piano nazionale che europeo. Da vent’anni a questa parte
gli stati europei hanno prodotto un numero crescente di leggi,
decreti e regolamenti su scala nazionale, cui si sono venuti
affiancando diversi trattati internazionali. Nessuno di tali
strumenti legislativi ha fermato l’immigrazione ma, in compenso
ha contribuito a creare un gran numero di clandestini, che,
è ovvio, hanno costituito una facile area di reclutamento
per il lavoro nero ed altre attività extralegali.
Quel che risulta evidente a chiunque non voglia guardare
la realtà sociale che lo circonda con il paraocchi è
che i veri criminali non sono i clandestini ma gli stati che
hanno inventato e reso possibile la clandestinità. Eppure
sarebbe sufficiente osservare quel che persino la televisione
ci mostra quasi quotidianamente per vedere uomini, donne e bambini
tentare con ogni mezzo di fuggire la guerra, le persecuzioni,
la fame e trovare sulla loro strada solo mafiosi e poliziotti
di tutte le nazionalità. L’unica vera politica sull’immigrazione
che lo stato italiano pratica consiste nell’affidare ai famigerati
scafisti la regolazione dei flussi migratori. Chi è giovane,
sano, e in grado di pagarsi il "passaggio" può
entrare in Italia; gli anziani, i deboli, i bambini, rischiano
di essere gettati a mare, di affogare nell’Adriatico. Per quelli
che hanno la "fortuna" di arrivare ci sono poliziotti,
carabinieri e guardia di finanza a costituire il comitato di
accoglienza che sceglie tra quelli da respingere subito e quelli
da smistare tra centri di accoglienza e luoghi di detenzione
temporanea.
D’altra parte è sufficiente dare un’occhiata ai dati
per rendersi conto che lo scopo dei nostri governanti non è
certo quello di impedire l’immigrazione ma bensì quello
di mantenerla sotto il costante ricatto della precarietà.
Chi è costretto ad arrampicarsi sugli specchi per ottenere
e mantenere un permesso di soggiorno, per riuscire a congiungersi
con i propri familiari, è disponibile ad accettare qualsiasi
lavoro, in qualunque condizione e certo non ha molte possibilità
di organizzarsi e lottare per migliori condizioni di vita e
di lavoro. In questo contesto gli immigrati sono definiti, a
seconda dei casi e dell’utilità propagandistica del momento,
come "preziosa risorsa" (leggi: manodopera disciplinata
e a buon mercato) o "criminali" (leggi: nemici da
additare come responsabili del malessere sociale diffuso).
Intanto la paura cresce e con essa l’odio, la xenofobia,
il razzismo. Le destre organizzano manifestazioni e le sinistre
di governo promettono nuove assunzioni tra le forze dell’ordine
e maggiori poteri alla polizia.
La fortezza Europa
Di questo passo ogni cittadino avrà il "suo"
poliziotto, specie se si tiene conto del dato odierno che vede
il nostro paese al primo posto in Europa per numero di poliziotti
in rapporto agli abitanti (uno ogni 175). La paura rende possibile
rafforzare la struttura disciplinare dello stato e non solo
sul piano interno, poiché la trasformazione dell’esercito
in una struttura professionale, numericamente meno consistente
ma ben più efficiente da ogni punto di vista è
ormai una prospettiva imminente. D’altro canto la difesa del
lato sud della "fortezza Europa", assegnata all’Italia
dal trattato di Schengen, non si limita certo al controllo delle
"nostre" coste ma, come si è già visto
e, con ogni probabilità, si continuerà a vedere,
comporta l’intervento di truppe anche al di fuori dei confini.
Lo status di informale "protettorato" italiano dell’Albania
è ormai un dato acquisito. Missioni "umanitarie"
o di "pace" saranno l’ombrello sotto cui continuerà
a riproporsi la politica estera del nostro belpaese.
Da quando, a metà degli anni ’80 ed in maniera sempre
più marcata nel decennio successivo, la questione migratoria
ha sostituito il terrorismo ed il commercio di stupefacenti
in cima alle preoccupazioni degli organismi europei deputati
al coordinamento delle attività poliziesche dei vari
paesi (il più importante è probabilmente il gruppo
TREVI) il ruolo dell’Italia nello scacchiere europeo è
divenuto vieppiù nevralgico. E la partita su questo terreno
è appena iniziata.
L’immagine di fortezza assediata o, meglio, di nave abbordata
da orde di pirati famelici e feroci è funzionale al rafforzamento
di esercito e polizia, così come l’allarmismo sulla criminalità
e l’equazione tra immigrato clandestino e delinquente.
Accade così che si moltiplichino in Europa i campi
di concentramento, mentre la richiesta di legge ed ordine è
vieppiù pressante.
Le cronache dell’ultimo periodo riportano la notizia dell’impressionante
aumento delle morti "bianche", dei morti sul lavoro,
segno inequivocabile di un peggioramento delle condizioni di
lavoro e di riduzione dei margini di sicurezza; si torna a parlare
di debolezza strutturale del "sistema Italia" e quindi,
conseguentemente, di ritocchi ulteriori alle pensioni ed in
generale di riduzione degli oneri sociali; il diritto di sciopero,
specie nei servizi è sottoposto ad una "regolamentazione"
paralizzante (basti pensare alle ultime, pesanti restrizioni
imposte ai ferrovieri); la disoccupazione, sottoccupazione,
il lavoro precario sono ormai ingredienti fissi dell’Italia
sotto il segno dell’Ulivo (e della Quercia). Questi non sono
che alcuni degli elementi che contribuiscono a tratteggiare
un panorama sociale il cui segno distintivo è l’insicurezza,
la crescente eteronomia, la difficoltà di rompere la
pace sociale che Prodi e D’Alema hanno saputo garantire. Ecco
quindi come tutte le energie, le tensioni finiscano con lo scaricarsi
in una grande, incontrollata paura, che è facile scaricare
sui più deboli, sugli immigrati, sui "famigerati"
clandestini.
La paura genera mostri. E’ un vento impetuoso che soffia
e spazza via ogni cosa sul suo cammino, frantuma i legami sociali,
trasforma altri esseri umani in nemici da imprigionare, cacciare,
combattere.
Maria Matteo
A proposito di immigrazione e criminalità
Gli immigrati coinvolti in questioni penali sono poche
decine di migliaia di persone su circa un milione e mezzo
di stranieri (e forse più), regolari e non, che
si pensa risiedano in Italia.
I dati sugli stranieri incappati nella "giustizia"
italiana mettono in luce una realtà sociale molto
complicata. Per esempio, i reati commessi dagli stranieri
vedono al primo posto vari tipi di falso e le contravvenzioni
(per ambulantato abusivo e simili), il che mostra una
situazione legata ai bisogni della sopravvivenza.
La presenza di stranieri nelle carceri è assai
alta (passata dal 15% del totale del 1990 al 20% del 1996)
ma va raffrontata alle statistiche che mostrano come uno
straniero abbia molta più probabilità di
essere condannato e di essere incarcerato di un italiano:
in carcere finiscono due stranieri su tre denunciati mentre
per gli italiani la media è di uno a sette. Gli
stranieri si trovano in una condizione di evidente inferiorità:
non conoscono o conoscono poco la lingua italiana, non
conoscono i loro diritti, non possono contare su avvocati
di fiducia ma solo su distratti avvocati di ufficio, non
beneficiano di pene alternative, ecc.
La commissione dell’ONU per i diritti umani, nel marzo
del 1998 ha segnalato che le forze dell’ordine dello stato
italiano sono colpevoli di "gravi percosse contro
immigrati e zingari" mentre nel rapporto annuale
di Amnesty International, pubblicato nel giugno 1998,
l’Italia è accusata di usare "maniere forti
e brutalità gratuite soprattutto contro cittadini
non europei".
Il dipartimento di sociologia dell’Università di
Roma ha segnalato che nel 1996 gli stranieri vittime di
aggressioni razziste sono stati 111, ossia uno ogni tre
giorni. Sono dati impressionanti, specie se si tiene conto
che ricerche precise ed affidabili su scala nazionale
non esistono, che le denunce dei soprusi sono rare, poiché,
come segnalava uno studio dell’Osservatorio sul razzismo
del Comune di Bologna in un suo rapporto del 1997 il 37%
dei casi di discriminazione avvenuti in città erano
opera delle "forze dell’ordine" e andavano dagli
abusi nel corso di perquisizioni nei centri di accoglienza,
ai maltrattamenti fino allo stupro.
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