In genere si usa la locuzione "crisi dell’anarchismo"
per indicare da un lato il processo di marginalizzazione politica
delle istanze anarchiche che ha avuto luogo, con tempi e modalità
diverse, nei primi decenni del secolo in Italia, Francia, Stati
Uniti, Spagna, e così via, e dall’altro i tentativi di
ripensare - di "revisionare", si diceva all’epoca
- i capisaldi del pensiero anarchico nello sforzo di restituirgli
pregnanza e capacità di incidere sulla vita politica
e intellettuale. Alcuni di questi "revisionismi" giungevano,
sull’onda del successo bolscevico o sulla spinta dello scetticismo
nei progetti di rivoluzione popolare, sino alla proposta di
adottare metodi e fini autoritari. Altri pensatori si concentrarono
invece su una sorta di rielaborazione interna, di riflessione
e di ricatalogazione: nel 1924 Malatesta di dissociava da ogni
revisionismo autoritario spiegando che, lungi dal "voler
rinunziare, in pratica, se non in teoria, alle nostre concezioni
rigorosamente anarchiche", il suo scopo era semplicemente
quello di concentrarsi sullo "sviluppo delle idee"
e sulla "loro applicazione alle contingenze attuali".
Il più giovane ed entusiasta Berneri dichiarava invece
di non temere (in un articolo restato però inedito) "quella
parola revisionismo che ci viene gettata contro dalla scandalizzata
ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi
e da intendersi".
Molti i protagonisti di questo percorso e molte le differenti
strategie approntate in tale frangente: da Nettlau a Rocker,
da Labadie alla De Cleyre, da Armand allo stesso Berneri. Il
principale punto di riferimento di questo processo mi sembra
però essere proprio il Malatesta degli anni venti, che,
prima dalle pagine di Umanità nova e di Pensiero
e Volontà, poi da quelle della stampa libertaria che
agiva all’estero, rilanciò un’articolata riflessione
sulla natura e gli scopi dell’anarchismo. Questa si svolse lungo
tre direttrici. Gli esiti totalitari del bolscevismo, di cui
Malatesta fu uno dei primi a prendere atto, gli suggerirono
che nella meccanica rivoluzionaria incentrata sul "terrore"
si trovava un raccordo tra violenza e dogmatismo irriconciliabile
con la concezione anarchica della libertà; la marginalizzazione
apparentemente irreversibile degli anarchici lo condusse a pensare
la transizione rivoluzionaria in termini nuovi, più come
prodromo alla società libera che come compimento definitivo
di un processo storico inevitabile; infine, questi due elementi
lo portarono a una nuova concettualizzazione del comunismo,
non come sbocco economico obbligato del raggiungimento dell’anarchia,
ma come scelta volontaria all’interno di una pluralità
di opzioni, concetto questo che veniva all’epoca espresso con
il termine ‘libera sperimentazione’. Ciò che Malatesta
aveva compreso, sulla spinta delle nuove esperienze suggerite
dalla rivoluzione bolscevica, era che l’imposizione generalizzata
della soluzione comunista avrebbe di per sé implicato
la negazione del principio di libertà che era fondamento
del pensiero anarchico; al contrario, la libera sperimentazione
- ovvero la possibilità per ognuno di sperimentare ogni
sistema economico concepibile - avrebbe forse condotto anch’essa
alla vittoria del comunismo libertario, ma configurandola come
frutto di un’evoluzione libera e spontanea.
Grande lucidità
Le riflessioni di Malatesta costituirono per
molti un nuovo quadro concettuale entro cui risituare i valori
centrali dell’anarchismo. Alcuni, anticipando le tendenze del
dopoguerra, non solo sottoposero a critica le interpretazioni
più usuali dei problemi dibattuti da Malatesta, ma si
lasciarono alle spalle anche i presupposti culturali più
consolidati nella tradizione sino a quel momento: la centralità
operaia, lo sbocco insurrezionale, la concezione classista della
storia, e così via (l’egoista Armand, l’anarco-liberale
Berneri, persino l’ex anarco-sindacalista Rocker, e altri ancora).
Tuttavia credo che il tragitto più significativo verso
il concetto di libera sperimentazione sia stato compiuto da
chi restò fedele sino in fondo agli ideali del comunismo
libertario. Per costoro prendere atto della necessità
di un’organizzazione economica pluralistica della società
significava rinunciare a una delle loro credenze centrali, a
uno dei loro presupposti di vita. Insieme a Malatesta, il più
rappresentativo esponente di questa tendenza è stato
Luigi Fabbri, nella cui riflessione si coglie il senso di uno
strappo doloroso, di uno straziante travaglio intellettuale,
insomma, potremmo dire, di uno scontro formidabile tra cuore
e cervello.
Fabbri era tutt’altro che uno spirito ortodosso, anche se
era privo della verve iconoclasta di un Merlino o di un Berneri.
Tuttavia le sue analisi erano contraddistinte da grande lucidità
e da grande capacità di penetrazione. Si pensi alla sua
analisi del terrorismo bombarolo, di recente pubblicata in italiano
con il titolo Influenze borghesi sull’anarchismo. Identificando
nell’ethos borghese una delle matrici del (cosiddetto)
individualismo anarchico, Fabbri ne scorgeva già nel
1906 la contraddizione con l’anarchismo: "Secondo me gli
anarchici che danno un’importanza soverchia ai fatti di rivolta,
sono forse dei rivoluzionari e degli anarchici, - ma sono molto
più rivoluzionari che anarchici. Quanti anarchici ho
conosciuto, che si curano poco o nulla dell’idea anarchica,
e magari non si curano neppur di capirla; ma sono ardenti rivoluzionari
e la loro critica e la loro propaganda è rivolta solo
al fine rivoluzionario della ribellione per la ribellione!"
Come tanti altri, per Fabbri il vero punto di svolta fu
costituito dalla rivoluzione sovietica. Nel suo Dittatura
e rivoluzione la disamina del totalitarismo bolscevico comincia
ad assumere i tratti di una critica più generale non
solo del marxismo (cosa, ovviamente, tutt’altro che rara tra
gli anarchici), ma anche dei presupposti culturali del materialismo
storico (la centralità della lotta di classe, il verticismo
rivoluzionario, e così via). Già nel libro Fabbri
teneva presente l’approccio sperimentalista al problema della
transizione, accennando all’antipatia bolscevica per la "libera
iniziativa" propugnata dagli anarchici e affermando che
tra i principi più importanti da proteggere vi era quello
per cui "gli uni non debbano per forza subire una forma
di organizzazione imposta dagli altri". Tuttavia la prospettiva
di Dittatura e rivoluzione era indiscutibilmente comunista,
nel senso che era dato per scontato che questo sarebbe stato
l’esito - giusto e giustificato - della rivoluzione: "tutti
sanno", scrisse Fabbri, "che gli anarchici sono, sul
terreno economico, comunisti".
Gli anni venti, con la progressiva affermazione delle ideologie
totalitarie in Russia e Italia, quasi costrinsero Fabbri ad
affinare sempre più la propria prospettiva, abbandonando
in particolare l’impostazione rigidamente classista della sua
analisi. Nel 1922 pubblicò La controrivoluzione preventiva,
che Renzo De Felice ha potuto permettersi di citare, non del
tutto a sproposito, come esempio classico della lettura marxista
del fascismo. Ancora nel 1924 entrò in polemica con Malatesta,
difendendo in qualche modo la positività storica dell’esperimento
sovietico, pur enucleandone, nel contempo, la natura totalitaria:
"La rivoluzione russa resta, malgrado tutto, ai nostri
occhi il fatto storico più grande ed ancora più
promettente per l’avvenire di questi ultimi cinquant’anni".
In questo periodo l’apologia della libera sperimentazione cominciò
a configurarsi come uno dei metodi per confutare le pretese
autoritarie dei bolscevichi, fermo restando però il "punto
di vista sociale e comunista" (insieme al mito dell’aumento
della "produzione"): "Gli anarchici non hanno,
sul modo migliore di gestire materialmente e tecnicamente la
produzione", scrisse nella sua replica al noto libello
antianarchico di Bucharin, "alcun preconcetto né
apriorismo assoluto, e si rimettono a ciò che l’esperienza,
in seno a una società libera consiglierà e a ciò
che le circostanze imporranno. L’importante è che, qualunque
sia il tipo di produzione adottato, lo sia per libera volontà
dei medesimi, e non sia possibile la sua imposizione, né
alcuna forma di sfruttamento del lavoro altrui. […] Né
gli anarchici escludono a priori alcuna soluzione pratica; e
ammettono che vi possano essere anche varie soluzioni diverse
e contemporanee, in seguito all’esperimentazione delle quali
i lavoratori potran trovare con cognizione di causa la via migliore
per produrre sempre meglio e di più".
Dopo il successo fascista e la scelta dell’esilio, l’analisi
del totalitarismo di Fabbri assunse fattezze più decise,
mentre la sua concezione della libera sperimentazione si fece
più positiva. Nel 1926 scrisse un articolo per una rivista
russa che restò inedito. Qui negava che nella teoria
anarchica si prevedesse l’imposizione della "espropriazione
comunista ai piccoli proprietari" e spiegava che, sebbene
il programma dell’Unione anarchica italiana del 1920 proclamasse
l’"abolizione della proprietà privata della terra",
il documento "affermava implicitamente la tolleranza verso
la piccola proprietà non sfruttante il lavoro salariato,
rivendicando la libertà dei produttori di non far parte
delle associazioni di produzione".
Esigenza irrinunciabile
Nella sua recensione al Socialisme liberal
di Carlo Rosselli troviamo altri segni di un mutamento di prospettiva.
Per esempio, un minore rispetto nei confronti dei ‘classici’
(Bakunin era "sotto molti aspetti teoricamente più
marxista che non si creda") e un più accentuato
sospetto nei confronti della vulgata anarchica (Rosselli e Malatesta
uniti in una "reazione volontarista, contro il fatalismo
determinista così comune ai socialisti ed anarchici e
derivante in gran parte dal marxismo"). Sorprendente anche
il suo commento alla definizione rosselliana di "liberalismo":
"sarebbe in sostanza l’anarchia, nel senso socialistico
della parola, com’era intesa in seno alla 1a Internazionale;
a meno che non si cada in equivoco sul significato della parola
‘libertà’ e non ci si arresti all’interpretazione puramente
borghese di una libertà ‘per tutti’ in astratto, ma nei
fatti concreti di una libertà ‘di classe’. Ma questo
non dovrebbe essere il caso di Rosselli che si dice socialista;
e tutta la nostra critica o quasi consisterebbe allora in quella
al nome scelto, che si presta ad equivoci". Insomma, negli
scritti di Fabbri compresi tra la fine degli anni venti e l’inizio
degli anni trenta si registra un peso nuovo dato non alla libertà
in sé, ma alla libertà intesa in senso volontaristico,
intesa come elemento costitutivo della società libera
nella sua interezza. Da qui il nuovo atteggiamento nei confronti
dell’esito comunistico, considerato, se applicato integralmente
e dogmaticamente, più un ostacolo che un contributo.
La sua interpretazione di Malatesta è più che
significativa in questo senso: "Nello stesso campo anarchico
il comunismo di Malatesta si differenziava alquanto da quello
di molti suoi compagni. La differenza forse non è molto
visibile, trattandosi più che altro di tendenze nei più
poco pronunciate, quasi subcoscienti, di diversità di
misura nella propaganda, di atteggiamenti mentali subordinati
e, nei punti di partenza, di sfumature. Ma la differenza c’era;
e se in principio poté passare inosservata, col tempo
acquistò una certa consistenza. Tale differenza era determinata
soprattutto dal senso relativista con cui Malatesta accettava
il comunismo, mentre altri lo predicavano nel senso più
assoluto. Mentre per moltissimi anarchici il comunismo divenne
a poco a poco quasi un articolo di fede, fuori dal quale essi
non concepivano alcuna anarchia possibile, Malatesta non cadde
mai in quella specie di dogmatismo".
A mio parere la riflessione di Fabbri giunse a un punto
fermo con il saggio "Libera sperimentazione", apparso
su Studi sociali nel gennaio 1935. Molti elementi del
suo discorso impliciti negli scritti precedenti divennero espliciti.
Molta carne viene messa al fuoco: l’ammissione che il dogmatismo
anarchico costituisce una "tendenza mentale al totalitarismo";
lo stretto legame istituito tra la piena maturazione del concetto
della sperimentazione integrale e l’esperienza totalitaria;
la percezione dell’evoluzione in senso totalitario del mondo
capitalista; e altro ancora. Certo, la libera sperimentazione
è intesa in senso malatestiano: da un lato come esigenza
irrinunciabile, dall’altro come probabile prodromo della vittoria
del comunismo libertario. Ma è significativo che Fabbri
lasci l’ultima parola all’esperienza concreta del confronto
tra le diverse sperimentazioni economiche. Il comunismo ne uscirà
vincitore, si spera; ma se così non fosse il risultato,
in una società libera e ‘sperimentale’, concepita come
quadro di una concorrenza tra differenti opzioni e sistemi,
sarebbe comunque legittimo.
La teorizzazione anarchica della libera sperimentazione
è il culmine di una tendenza forse minoritaria, ma affascinante,
del pensiero occidentale, che valorizza nel contempo l’autonomia
dell’individuo, considerato come essere razionale capace di
scelta, e l’interazione sociale, quadro dello sviluppo delle
diverse opzioni immaginabili. Se ne possono cogliere echi e
suggerimenti agli albori stessi della modernità. A cos’altro
pensava John Milton, scrivendo, anche lui nel pieno di una rivoluzione,
in favore di una tolleranza integrale in cui tutte le teorie
fossero messe alla prova, se non a una "libera sperimentazione"
religiosa? "E sebbene tutti i venti della dottrina siano
lasciati liberi di agire sulla terra, se la verità è
in campo noi facciamo male a metterci ad autorizzare o a proibire
per sfiducia nella sua forza. Che essa e la falsità si
affrontino: chi ha mai sentito che la verità, in uno
scontro libero e aperto, abbia avuto la peggio? [...] Chi non
sa che essa [...] non ha bisogno di politiche, di stratagemmi,
di autorizzazioni, per vincere? Questi sono i provvedimenti
e le difese che l’errore usa contro di lei: ma lasciatele invece
spazio, e non legatela mentre dorme, perché allora essa
non dice il vero [...], ma prende piuttosto mille forme, eccetto
la sua, [...] fin quando è infine ridotta a quella sua
vera. E tuttavia non è impossibile che essa abbia più
di una forma".
Pietro Adamo
1. E. Malatesta, "Intorno al nostro
anarchismo", Pensiero e volontà,
1° aprile 1924, ora nel terzo volume degli Scritti, a
cura del Movimento anarchico italiano, Carrara 1975, pp. 51-52;
C. Berneri, "Per un programma d’azione comunalista",
1926 circa, ora in Pietrogrado 1917-Barcellona 1937,
a cura di P.C. Masini e A. Storti, La Fiaccola, Ragusa 1990,
p. 97.
2. Oggi con il termine individualismo non si intende in
genere indicare i fedeli all’azione terroristica diretta, ma
piuttosto gli esponenti di una scuola di pensiero fondata sull’idea
che ogni relazione sociale deve essere fondata "sullo scambio,
il contratto o il dono" nell’ambito di una società
di mercato libertaria, una tendenza che si è sviluppata
soprattutto negli Stati Uniti (vedi per esempio D. Miller, Anarchism,
Dent, London 1984, pp. 30-44, da cui è presa la citazione,
p. 30). Mi ha sempre colpito il fatto che le idee economiche
della stragrande maggioranza dei cosiddetti ‘individualisti’
nell’accezione tanto diffusa in Europa tra la fine dell’Ottocento
e l’inizio del Novecento fossero decisamente comuniste.
3. L. Fabbri, Influenze borghesi sull’anarchismo,
Zero in condotta, Milano 1998, p. 35.
4. L. Fabbri, Dittatura e rivoluzione, Edizioni l’Antistato,
Cesena 1971, pp. 53, 58, 197.
5. R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo,
Laterza, Roma-Bari 1996, p. 171-174.
6. L. Fabbri, "Lenin e l’esperimento russo", Pensiero
e volontà, 15 febbraio 1924, p. 3.
7. L. Fabbri, Anarchia e comunismo "scientifico"
(1922), in N. Bucharin, L. Fabbri, Anarchia e comunismo
scientifico, Altamurgia editore, Ivrea 1973, p. 43.
8. Si vedano in proposito G. Manfredonia, La lutte humaine,
Edition du monde libertaire, Paris 1994, e L. Pezzica, "Luigi
Fabbri e l’analisi del fascismo", Rivista storica dell’anarchismo,
n. 2, 1995, pp. 5-22.
9. L. Fabbri, "I comunisti libertari e la terra
ai contadini", manoscritto custodito all’Istituto storico
della resistenza di Firenze, con copia nell’Archivio Berneri
di Reggio Emilia. Colgo l’occasione per segnalare un mio errore.
Nel 1936 Berneri propose a Carlo Rosselli la pubblicazione dell’articolo
di Fabbri (deceduto l’anno precedente), consegnandogliene una
copia. Nel mio "Il revisionismo di Camillo Berneri",
Il presente e la storia, n. 53, 1998, pp. 105-129, ne
ho assegnato la paternità allo stesso Berneri (si veda
C. Berneri a C. Rosselli (primi mesi 1936), Epistolario
inedito, vol. II, a cura di P. Feri e G. Di Lembo, Archivio
Famiglia Berneri, Pistoia 1984, pp. 146-147).
10. Studi sociali, 16 agosto 1931, p. 6. Riporto
la definizione di Rosselli: "Nella sua più semplice
espressione il liberalismo può definirsi come quella
teoria politica che, partendo dal presupposto della libertà
dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine,
supremo mezzo, suprema regola della umana convivenza. Fine,
in quanto si propone di conseguire un regime di vita associata
che assicuri a tutti gli uomini la possibilità di un
pieno svolgimento della loro personalità. Mezzo, in quanto
reputa che questa libertà non possa essere elargita od
imposta, ma debba conquistarsi con duro personale travaglio
nel perpetuo fluire delle generazioni. Esso concepisce la libertà
non come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo. Non
si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo
mantenendo attiva e vigile la coscienza della propria autonomia
e costantemente esercitando le proprie libertà",
Socialismo liberale, Opere scelte di Carlo Rosselli,
vol. I, a cura di J. Rosselli, Einaudi, Torino 1973, p. 435.
11. L. Fabbri, Malatesta. L’uomo e il pensiero, Edizioni
RL, Napoli 1951, p. 109.
12. J. Milton, Areopagitica (1644), citato in P.
Adamo, La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza
nella Rivoluzione inglese, Angeli, Milano 1998, p. 249.
Libera sperimentazione
(1935)
di Luigi Fabbri
Lo sviluppo del pensiero e del movimento dell’anarchismo, attraverso
la sua incessante elaborazione e revisione, che in questi ultimi
anni s’è fatta sempre più pratica e aderente alla
realtà sociale, ha messo in luce un equivoco una volta
invisibile e trascurabile, quando gli avvenimenti non ne avevano
ancora provocata la discussione, ma che oggi risalta evidente
ed esige un radicale chiarimento per poter procedere con passo
più spedito verso realizzazioni veramente anarchiche.
L’anarchismo è sceso in campo contro il mondo autoritario
e borghese, negandolo in pieno, totalmente, su tutti i campi
dell’economia, della politica e della morale. Però v’è
una delle sue negazioni ch’è la sua caratteristica ed
ha determinato, ormai è un secolo, l’adozione del suo
nome: la negazione dello Stato, cioè di ogni governo
violento dell’uomo sull’uomo. Ciò che soprattutto gli
anarchici criticano nello Stato, subito dopo la sua formazione
violenta e coercitiva, è la centralizzazione che rende
da un lato più cieca e liberticida la violenza statale,
e dall’altro lato si traduce in un sempre maggiore sperpero
di energie e ricchezze sociali. Quindi, quando dal campo della
negazione si passava a quello dell’affermazione, ciò
che soprattutto gli anarchici affermarono fu l’iniziativa libera
in tutti i campi, non escluso l’economico, e la sua organizzazione
sempre più estesa sulla base della solidarietà
e del mutuo accordo volontario.
In ciò era logicamente implicita l’esclusione di
ogni assolutismo e totalitarismo in materia di organizzazione
sociale ed economica. È ovvio che, quanto più
si va dall’individuo ad aggruppamenti sociali più vasti,
man mano che questi aggruppamenti si allargano e organizzano
i loro rapporti su più vasta scala, l’infinita molteplicità
delle tendenze, attitudini, capacità, mentalità
e bisogni umani determina una varietà sempre maggiore
delle funzioni e dei modi e sistemi di esplicarle. allora l’adozione
di un qualsiasi sistema "unico" d’organizzazione sociale,
politico, economico, od altro, per quanto perfetto lo si possa
immaginare, si rende impossibile, o per lo meno inconciliabile
con la libertà, cioè con la negazione dello Stato.
Infatti, se un sistema unico può essere possibile,
preferibile o indispensabile, sulla base del libero accordo,
logicamente, o in aggruppamenti limitati, o in singole organizzazioni
omogenee, appena lo si voglia estendere a territori più
vasti o in una più larga cerchia di rapporti sociali,
non potrebbe essere applicato che per forza e con l’intervento
dello Stato. Ed anche in questo caso, dal punto di vista dell’utilità
sociale, non solo ucciderebbe la libertà, ma risulterebbe
più che mai deficiente ed antieconomico.
Questi concetti erano in certo modo sottintesi fin dai primi
tempi dell’anarchismo. In Proudhon, in Bakunin negli scrittori
libertari della Prima Internazionale, si cercherebbe invano
alcunché di conciliabile con l’idea di un sistema totalitario1
.
Benché, a quanto mi sembra, l’argomento non sia stato
trattato fino ad ora esplicitamente e nei termini come si pone
oggi, tutto l’indirizzo del pensiero anarchico è stato
sempre, fin da allora, in senso diametralmente opposto a qualsiasi
soluzione totalitaria del problema sociale.
Bakunin e i primi internazionalisti, infatti, respingevano
il comunismo, preferivano dirsi socialisti ed accettavano il
collettivismo, -benché nel senso preciso e strettamente
economico della formula essi non fossero punto anticomunisti,-
non soltanto per avversione al comunismo statale tedesco, ma
anche perché vedevano nel comunismo un sistema troppo
chiuso ed esclusivo (troppo "totalitario", diremmo
ora). Nella loro concezione il collettivismo aveva un senso
più largo, più simile a quello che oggi noi spieghiamo
con la libera sperimentazione.
Riccardo Mella dava ancora questo significato all’anarchismo
collettivista in un suo rapporto al Congresso Anarchico Internazionale
che doveva tenersi nel 1900 a Parigi. E Max Nettlau nei suoi
scritti storici ne dà la medesima interpretazione.
Infiltrazione subcosciente
Anche dopo che l’anarchismo divenne comunista,
dopo la fine della Prima Internazionale, esso non perdette la
sua caratteristica, non diventò totalitario. La questione,
ripeto, non fu esplicitamente posta sul tappeto. Pure una specie
d’infiltrazione subcosciente in senso totalitario dopo di allora
si andò insinuando fra gli anarchici a poco a poco, senza
essere notata da nessuno, meno che da qualche scrittore individualista
con la consueta esagerazione polemica.
Sotto l’influenza di Kropotkin, più per la sua suggestione
della sua superiorità scientifica e letteraria che per
una intenzione determinata, il comunismo anarchico divenne nelle
mentalità più dogmatiche dei suoi seguaci un sistema
esclusivo, fuori dal quale essi non ammettevano possibile alcun’altra
forma di vita anarchica.
Vari fattori contribuirono a favorire tale tendenza difettosa.
Anzitutto la necessità dell’intransigenza rivoluzionaria,
forzatamente totalitaria nella negazione della società
capitalistica e statale, erroneamente applicata alle concezioni
avveniristiche con l’ideare l’organizzazione futura della società
come fatto totalitario anch’esso, come sistema unico per la
totalità dei rapporti sociali. Inoltre il dover opporre,
nella propaganda, alla società attuale che si vuol distruggere
un’idea di come potrebbe essere una società senza governi
e senza padroni, cosa naturale e imprescindibile, facilmente
spingeva i più semplicisti, ad offrire od accettare come
unica soluzione quella creduta migliore, nell’illusione che
allo scoppio della rivoluzione tutti potessero essere d’accordo
o disposti ad accettarla ed attuarla.
Quest’ultima illusione fu anche mantenuta per molto tempo
dall’influenza non indifferente esercitata un tempo sugli anarchici
dal marxismo, che li spingeva a credere, fra l’altro, che basti
l’abbattimento del capitalismo e l’espropriazione a determinare
l’adattamento di tutta o quasi la società a un dato tipo
di nuova organizzazione economica su basi egualitarie. Con questa
differenza che, mentre i marxisti contano assai per ottenere
tale adattamento sulla coercizione statale, gli anarchici non
possono contare che sull’adesione volontaria.
Ma questa tendenza mentale al totalitarismo, come ho già
detto, era molto imprecisa ed inconscia, e tanto trascurabile
da non farvisi caso. Essa persisteva quasi soltanto fra elementi
dell’anarchismo sindacalisteggiante, in cui di più si
continuava a manifestarsi l’influenza dell’economicismo e totalitarismo
marxista, malgrado che questo sia stato, già da più
di trent’anni, dimostrato erroneo dal punto di vista anarchico
della critica esauriente di Merlino, Malatesta, Tcherkesoff,
ecc. Forse senza la suggestione e lo stimolo in vario senso
degli avvenimenti del dopo guerra, anche oggi la cosa non darebbe
nell’occhio e neppure noi vi faremmo tuttora soverchia attenzione.
Ma questi avvenimenti, -in specie i fenomeni totalitari
del bolscevismo, del fascismo, dello statalismo economico (economia
diretta)- si sono ripercossi, com’era naturale, anche sul movimento
ideologico dell’anarchismo, determinandone un maggiore sviluppo
in rapporto ai fatti, man mano che si svolgevano. La questione
diventò importante e d’attualità immediata fin
dal 1919, dopo i primi passi del bolscevismo che era andato
al potere in Russia e vi aveva subito messo in pratica il sistema
totalitario.
L’esperienza russa mostrò subito come il voler applicare
a tutto un popolo e in tutti i campi, non solo in politica (in
cui ciò si comprende dal punto di vista anarchico) ma
anche in economia, nel campo della produzione, una direttiva
unica totalitaria, in base a una teoria preconcetta, è
il più grave degli errori, il più contro-rivoluzionario.
Esso provoca il massimo disordine e sperpero sul terreno economico;
e poiché è impossibile farlo accettare volontariamente
da tutti, od anche solo da una reale maggioranza, dà
luogo a conflitti senza numero e rende inevitabile, in chi pretende
insistervi a farlo accettare, il ricorso alla violenza coercitiva
più tirannica che immaginar si possa. Non solo lo Stato
diventa allora indispensabile, ma più dispotico ancora
delle stesse intenzioni dei governanti che lo dirigono.
Gli anarchici compresero tanto meglio la lezione dei fatti,
in quanto ne avevano già l’intuizione. In rapporto ai
fatti ed in coerenza con le loro idee, sulla traiettoria di
tutto il loro passato, non avevano che da sviluppare ancor più
la concezione libertaria verso una maggiore precisazione delle
finalità anarchiche e del loro compito rivoluzionario
nella rivoluzione. Essi opposero quindi al totalitarismo, forzatamente
dittatoriale, del bolscevismo, l’applicazione del metodo sperimentale
alla ricostruzione rivoluzionaria, che è il criterio
più conciliabile con le leggi dell’evoluzione sociale
e col proprio anelito di libertà.
Sul concetto della libera sperimentazione, che non era poi
una novità scaturiva logicamente dalle premesse fondamentali
dell’anarchismo, si insistette più spesso ed a lungo
in special modo dopo la rivoluzione russa, in seguito a estese
discussioni, sia tra compagni che con gli avversari, ma soprattutto
coi bolscevichi.
Non per forza
Tali discussioni si svolsero un po’
dovunque. Ma più che altrove, credo, in Italia, con la
partecipazione di Errico Malatesta, esse concludevano con la
proposta pratica della libera sperimentazione, di cui si possono,
del resto, trovare numerosi accenni e anticipazioni negli scritti
più remoti del vecchio rivoluzionario italiano. Già
dal 1884, nel "Fra Contadini" egli prevedeva "quasi
con certezza che in alcuni posti si stabilirà il comunismo,
in altri il collettivismo, in altri qualche altra cosa... Altro
è dire, altro è fare, e solamente all’atto pratico
si può vedere qual è il sistema migliore... Quando
si sarà visto chi si trova meglio, a poco a poco tutti
quanti accetteranno lo stesso sistema".
La maggioranza degli anarchici pensa e desidera che dall’esperienza,
attraverso la rivoluzione, trionfi il comunismo-anarchico, che
loro sembra più pratico e rispondente ai fini della libertà
e solidarietà umana. Per ciò essi ne fan propaganda
e si propongono di realizzarlo nella misura delle loro forze
e capacità, non appena la rivoluzione lo renda possibile.
Ma poiché l’anarchia non può farsi per forza e
sarebbe utopistico credere che allo scoppio della rivoluzione
tutti vogliano anarchicamente, e poiché in una situazione
di libertà assicurata a tutti anche altri sistemi di
vita sociale troveranno modo di esistere, è ovvio che
l’ultima parola resterà all’esperienza. Come potrebbe
essere diversamente?
Pure, a fianco di questo sviluppo logico dell’anarchismo
è avvenuto che anche le opposte tendenze cosiddette totalitarie,
fino allora inconfessate e latenti, trascurabili e senza importanza
fino alla vigilia della Rivoluzione Russa, prendessero piede
qua e là, nelle mentalità che v’erano predisposte
per le ragioni dette sopra, anche per l’effetto corruttore del
successo bolscevico. Il trionfo materiale e politico del totalitarismo
bolscevico ha fatto creder ad alcuni che anche l’anarchismo
per organizzare la vita sociale debba essere o farsi totalitario,
illudendosi di potere, solo perché anarchici, evitare
gli errori ed orrori di quello; come se tali errori ed orrori
non fossero una conseguenza logica del sistema assai più
che dei difetti dei suoi praticanti!
In altri elementi una suggestione deviatrice e nefasta nel
senso totalitario la esercita lo stesso impressionante spettacolo
dello sviluppo del capitalismo moderno. Essi attribuiscono all’accentramento
e razionalizzazione sempre più totalitari delle sue imprese,
alla loro trustificazione ed alla crescente organizzazione unitaria
con sistemi unici del lavoro sopra una scala sempre più
vasta, i risultati veramente meravigliosi nel campo della tecnica
e della produzione. Ciò sembra loro una prova che, anche
in una società di liberi e di uguali, per avere tutta
l’abbondante produzione indispensabile ai bisogni generali e
farne una razionale distribuzione, sarà altresì
necessario un sistema totalitario di organizzazione economica,
unico per le più vaste collettività.
Essi non vedono che ciò che rende necessaria al capitalismo,
oggi, l’adozione di sistemi sempre più totalitari nell’organizzazione
della produzione, non è tanto lo scopo di raggiungere
una maggiore produzione, quanto quello di trarne un maggior
profitto, defraudandone le masse lavoratrici e consumatrici.
Il sistema totalitario nel campo dell’economia è più
una pompa aspirante che una macchina produttiva. In una società
di liberi e di uguali di essa non ci sarebbe bisogno.
Il vero e più forte ostacolo alla produzione, dal
punto di vista dell’interesse generale, non è questo
o quel tipo della sua organizzazione specifica, tecnica e burocratica,
ma il monopolio capitalistico. Tolto questo, ogni sistema sarebbe
sempre sufficiente ai bisogni di tutti, sia pure con differenze
inevitabili fra gli uni e gli altri. Non che la scelta non abbia
la sua importanza; ma essa non deve essere subordinata alla
sola condizione della maggiore abbondanza possibile dei prodotti,
bensì a quella molto più importante che ad una
abbondanza sufficiente di beni materiali faccia riscontro il
massimo possibile di libertà e la sicurezza che l’organizzazione
della produzione non diventi una macchina per schiacciare i
produttori.
Tale sicurezza non la darebbe certo una organizzazione economica
unica, totalitaria, per le ragioni cui abbiamo già accennato.
La darebbe invece una organizzazione economica che, - alla sola
condizione di escludere ogni forma di autorità coercitiva
e di sfruttamento del lavoro altrui, - permettesse la coesistenza
dei tipi più diversi di produzione determinati dalla
varietà delle condizioni di tempo e di luogo e della
diversità delle tendenze, preferenze, capacità
e necessità umane: insomma la "libera sperimentazione".
La sociologia, cioè lo studio della formazione, evoluzione
e tendenze delle società umane, ci dimostra che qualsiasi
organizzazione sociale, sia politica che economica, non sorge
mai sulla base d’un programma o piano prestabilito, ma è
sempre il risultato di esperienze successive, alle quali i vari
programmi e piani delle singole correnti novatrici portano il
loro contributo, e sono quindi necessari; ma dei quali nessuno
può pretendere d’essere accettato da tutti a priori,
e in realtà non viene mai accettato, a meno che non sia
imposto per forza, - il che possono proporsi i partiti autoritari,
ma non certo gli anarchici. Il totalitarismo sarebbe quindi
non solo antilibertario, ma anche utopistico nel peggior senso
della parola, antiscientifico ed in contrasto con le leggi dell’evoluzione
sociale.
Una cerchia sempre più larga
Se ci mettiamo dunque non solo dal punto di vista
specifico dell’anarchismo, ma anche semplicemente da quello
sociologico, - di una sociologia di libertà, intendiamoci,
e non di questa che i sociologi salariati hanno confezionato
ad uso dei loro padroni e dei tiranni, - l’agognata rivoluzione
deve aprire la via alla libera sperimentazione: alla pratica,
cioè, dello sperimentalismo sociale liberato dalle pastoie
di ogni monopolismo economico e di ogni oppressione politica.
Lungo il suo corso l’esperienza eliminerà, sotto la spinta
della necessità, mano mano i tipi d’organizzazione che
risulteranno più difettosi o meno utili. Sussisteranno
invece e s’imporranno per forza di cose in una cerchia sempre
più larga, fino a comprendere vaste regioni, nazioni
e forse l’umanità intera, quei tipi di organizzazione
che offriranno maggiori vantaggi e risponderanno di più
alle esigenze di benessere e di libertà delle varie collettività
umane.
Noi siamo persuasi e prevediamo che i tipi migliori sotto
ogni rapporto siano quelli che più si ispireranno al
comunismo anarchico, - che neppur esso potrà essere probabilmente
un sistema unico, ma piuttosto l’insieme armonico di forme diverse
tra loro solidali e coordinate, - e per ciò siamo comunisti
anarchici. Ma il comunismo anarchico per tutti non può
essere il punto di partenza, la determinante da cui s’inizierà
l’esperimento molteplice e multiforme sarà la rivoluzione
liberatrice.
La situazione di libertà creata dalla rivoluzione
permetterà anche ai seguaci del comunismo anarchico (come
gli anarchici di eventuali tendenze diverse), se ne avranno
forze e capacità sufficienti, d’iniziare da parte loro
il proprio esperimento; ma l’estensione definitiva di esso a
tutta la società non potrà venire che in seguito,
solo quando al confronto con gli altri esperimenti avrà
guadagnato l’adesione generale. Sarà cioè, se,
come crediamo, i fatti ne dimostreranno la superiorità,
semplicemente una risultante dell’esperienza sociale.
Luigi Fabbri
Dalla rivista Studi Sociali
di Montevideo, numero 37
del gennaio 1935
1. Bisogna osservare che nel 1935, quando
fu scritto questo articolo, la parola totalitarismo, usata quasi
esclusivamente in Italia come parte del vocabolario "granitico"
del regime fascista, conservava ancora il suo semplice significato
etimologico, indicando solo la presa di possesso della vita
in tutti i suoi aspetti. E siccome la usavano generalmente i
fascisti, che volevano che questo possesso fosse monopolio dello
Stato assoluto, il destino della parola seguì le vicende
del regime, arricchendo straordinariamente e determinando con
esattezza la sua portata. Pure questo termine, usato qui come
sinonimo di sistema unico, di pianificazione totale, e applicato
a tutti coloro che tali sistemi o piani volessero attuare, ha
un’efficacia premonitrice che non ci sembra inopportuna.
(N.d.c.)
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