La maschera di Mussolini
Sicuramente i lettori di questa rivista già conoscono
il copioso lavoro di Pier Carlo Masini, lo storico e saggista
che ha contribuito in modo determinante alla conoscenza delle
fonti dei movimenti libertari, ottenendo l’importantissimo risultato
di sottrarre alla speculazione di impronta marxista il monopolio
degli studi sul primo socialismo italiano. Fondamentale, in
questo senso, è la sua opera La Federazione Italiana
dell’AIT. Atti ufficiali (Milano 1964), così come
determinanti per la piena rivalutazione del ruolo dell’anarchismo
nella nascita e nello sviluppo del più vasto movimento
sociale del nostro paese sono i due volumi sulla storia dell’anarchismo
in Italia (Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta,
Milano 1969 e Storia degli anarchici italiani nell’epoca
degli attentati, Milano 1981). Né si può dimenticare,
fra gli altri suoi titoli, la bellissima e partecipata biografia
di Carlo Cafiero (Cafiero, Milano 1974), che restituisce
all’anarchico barlettano quello spessore e quella centralità
nelle vicende della Prima Internazionale che la storiografia
"ufficiale" ha sistematicamente sottovalutato.
Ora, a pochi mesi dalla morte - avvenuta il 19 ottobre dell’anno
scorso - grazie all’impegno dei compagni della Biblioteca Franco
Serantini di Pisa, un nuovo contributo di Pier Carlo Masini
viene ad aggiungersi, postumo e benvenuto, ai tanti lavori prodotti
nei lunghi anni della sua ricerca storica e militanza politica.
Mussolini, la maschera del dittatore (Pisa 1999) è
l’opera alla quale Masini ha lavorato pressoché fino
alla fine, nonostante il progredire della malattia e aiutato
costantemente da Franco Bertolucci, riuscendo così a
dare organicità e a portare a conclusione studi precedenti
iniziati più di 25 anni fa.
Come sempre, Masini accompagna alla serietà della
ricerca una particolare piacevolezza della scrittura, che nasce
da uno stile brillante e acuto, ricco di lampi di lucida ironia
e di sincera umanità, di annotazioni pertinenti e di
osservazioni profonde rese con semplicità e chiarezza;
qualità non sempre riscontrabili nelle opere di carattere
storico e per questo particolarmente apprezzabili in questo
testo.
L’argomento trattato - il personaggio Mussolini duce del
fascismo e capo del governo italiano durante il nefasto ventennio
- vanta una storiografia sterminata, tanto che parrebbe legittimo
chiedersi se sia possibile aggiungere contenuti originali o
apportare nuovi elementi di lettura e di interpretazione; tanto
più che l’opera di Renzo De Felice è stata in
qualche modo accolta dal mondo degli studi come il contributo
definitivo in materia, tale da precludere la possibilità
di eventuali indagini future. Eppure resta ancora la necessità
di non dimenticare né sottovalutare quell’autentico buco
nero nella storia del nostro Novecento che fu il periodo fascista,
come resta imprescindibile il bisogno di indagare le cause che
ne resero possibile l’affermazione, allo scopo di comprendere
gli elementi di forza e di debolezza che crearono prima, e affossarono
poi, il regime. Masini decide consapevolmente di accettare la
sfida e, se anche a volte sembra non sottrarsi del tutto al
pericolo di ribadire cose già dette, riesce comunque
a proporre elementi di indagine non abbastanza esplorati e momenti
di riflessione nuovi ed originali.
È lo stesso Masini, del resto, che ci spiega significativamente
e con parole illuminanti i motivi che lo hanno spinto a riprendere
in mano questi studi mussoliniani: "Per oltrepassare Mussolini
- egli scrive - occorre non ignorarlo ma conoscerne la personalità
in tutte le sue pieghe". La ricerca parte quindi da presupposti
fondati su convinzioni personali dell’autore, ed è proprio
questo - a mio parere - l’elemento più importante e apprezzabile,
nonché la vera chiave di volta del suo lavoro. Mi pare
infatti che sia proprio in quel "oltrepassare" che
si condensa il significato dell’opera, che si esprime tutta
la tensione etica, mai disgiunta del resto dalla competenza
dello studioso. "Oltrepassare" non per rimuovere o
dimenticare, ma anzi per l’esatto contrario: per comprendere
fino in fondo gli elementi costitutivi del fenomeno fascista
in modo tale da evitare finalmente il pericolo di ricreare le
premesse per nuovi culti della personalità e per la rinnovata
identificazione di un intero popolo con un sistema di valori
autoritario e aggressivo, quale fu quello alla base della fortuna
mussoliniana.
Muovendo da queste premesse, l’autore viene a mettere palesemente
in secondo piano una chiave interpretativa del fascismo - del
resto già ampiamente esplorata - che fa perno quasi esclusivamente
sullo studio e sull’analisi dei fenomeni economici e politici
che ne favorirono la fortuna. Ovviamente le ragioni materiali
sono ben presenti nel pensiero e nell’interpretazione di Masini,
né mancano considerazioni acute sul rapporto fra condizioni
storiche e decisioni personali; ma nella riflessione dell’autore
è decisamente centrale l’importanza prestata alla comprensione
degli aspetti psicologici e caratteriali del personaggio Mussolini
e di come questi suoi tratti comportamentali poterono imporsi
all’attenzione e all’approvazione del popolo italiano. Ecco
quindi che, per "oltrepassare" Mussolini e rendere
nuovamente efficace "il vaccino che, nolente, ha inoculato
agli italiani, il rifiuto di credere, obbedire, combattere,
la ripugnanza al militarismo e alla guerra", Masini privilegia
decisamente questa prospettiva, spiegando così le cause
della effettiva, innegabile identificazione che per lungo tempo
le masse popolari d’Italia provarono nei confronti del duce.
Identificazione facilitata, del resto, dalla coincidenza temporale
fra l’affermazione di Mussolini nell’Italia postbellica e il
nascere di nuovi strumenti della comunicazione di massa, strumenti
di cui il duce seppe impadronirsi con straordinario tempismo
e innegabile abilità.
Evidente e dichiarato è quindi il debito che Masini
contrae col Mussolini grande attore di Camillo Berneri (Mussolini
gran actor, Valencia 1934, trad. it. Mussolini, psicologia
di un dittatore, Milano 1966), quello straordinario pamphlet
che rivalutò, in negativo, la figura di Mussolini, mostrando
per la prima volta quegli atteggiamenti istrioneschi e "nazionalpopolari"
che tanta importanza ebbero per la sua affermazione. Scrive
infatti Masini: "Ho ritenuto opportuno impostare in prima
persona un discorso più ampio e complessivo su Mussolini,
non riproducendo più il saggio di Berneri, ma integrando
la sua ricerca, che si interrompe al 1932 circa, con elementi
relativi al periodo posteriore [...]. L’angolazione, psicologica,
puntata sui tratti peculiari dell’attore, è rimasta la
stessa, integrata nel testo e in nota da quelle osservazioni
di Berneri che meglio lumeggiano la sua originale intuizione".
Partendo quindi da una tale prospettiva di analisi, l’autore
arriva progressivamente a dar corpo a una spiegazione del successo
di Mussolini tanto geniale quanto apparentemente ovvia, vale
a dire il concreto parallelismo tra i molti difetti e i rari
pregi del duce e i molti difetti e i rari pregi di quel popolo
italiano che, nella sua quasi totalità, trasversalmente
a tutte le classi sociali, a lui così facilmente si piegò.
Gli atteggiamenti più attorici, più smaccatamente
enfatici nella loro grottesca prosopopea, furono proprio quelli
che più fecero presa su masse fondamentalmente immature
e sostanzialmente prive di una vera coscienza civica; furono
il grimaldello per l’imporsi di una demagogia becera ma efficace
che poggiò le proprie basi sull’indiscussa capacità
comunicativa di Mussolini, contro il quale non riuscì
ad opporsi, con la necessaria efficacia, l’intero movimento
antifascista, forse spiazzato dalla novità che il mussolinismo,
più che il fascismo, rappresentava. Quello a cui si assistette,
infatti, fu il nascere di un fenomeno nuovo nel Novecento: l’affermarsi
di un culto della personalità di massa che non trovava
allora precedenti nel panorama politico internazionale, e i
cui meccanismi Masini, nella sua vena più caustica, spiega
e stigmatizza con lucido sarcasmo.
Rivolgendo la sua analisi alla nascita dei fenomeni di comunicazione
di massa e ai meccanismi dell’agire collettivo che si imposero
nella giovinezza del secolo e che, in altri ambiti e in altre
situazioni, avrebbero prodotto effetti altrettanto se non più
sconvolgenti di quanto non fu sotto il fascismo, Masini fornisce
dunque un ultimo strumento, morale e intellettuale, utile a
chiunque voglia opporsi alle chimere della demagogia e al pericolo
del totalitarismo. Uno strumento prezioso, che aiuta a comprendere
la realtà, ad approfondire le nostre capacità
di reazione, a mantenere alto il livello di guardia contro tutto
ciò che minaccia il nostro bisogno di libertà.
Massimo Ortalli
Il "Santo" degli
anarchici
Forse non a tutti i compagni, specie ai più giovani,
è noto il nome di Luigi Bertoni (1872-1947), il "Santo"
come lo ebbe a chiamare qualcuno. Il suo nome, più che
leggerlo, lo senti pronunciare qua e là nei discorsi
tra compagni, in fugaci accenni, e sempre più raramente,
nelle rimembranze di qualche vecchio. Io per esempio mi ricordo
che da giovane volevo diventare come lui. A dire il vero, non
avevo mai letto neppure una riga dei suoi scritti, ma il quadro
della sua vita tracciatoci da Carlo Vanza, questo vecchio compagno
di Biasca, era stato sufficiente per far sbocciare in me un’ammirazione
totale. Per me, Bertoni era un mito. Sapevo poco, ma quel poco
mi bastava. Tu pensa, uno che per quasi mezzo secolo pubblica
un giornale, il Risveglio anarchico, che durante gli
anni più bui rimarrà l’unica voce anarchica in
tutt’Europa. Uno che il giornale non solo lo scrive, ma lo compone
anche con le sue mani (era operaio tipografo), la sera dopo
il lavoro, e questo per oltre mille numeri in italiano e francese.
Uno che trova il tempo di fare centinaia di comizi all’anno
in tutta la Svizzera e che riesce ancora a pubblicare numerose
opere di Kropotkin, Reclus, Ferrer, Most, Guillaume, Malatesta,
Luce Fabbri e molti altri. Uno che è stato tra gli organizzatori
delle più radicali manifestazioni di lotta operaia in
Svizzera. Sapevo che aveva sempre con sé una borsa piena
di giornali e opuscoli da diffondere. E sapevo che più
d’una volta aveva pagato la sua coerenza con la galera. Certo,
c’erano in lui alcuni aspetti sconcertanti, come la sua completa
dedizione all’"ideale" fino al punto di scegliere
l’ascetismo o meglio, per usare le parole di Amiguet, "il
dono completo di se stesso" (tant’è vero che alcuni
anarchici lo chiamavano "l’arcivescovo dell’anarchia").
Tuttavia, ciò non ne sminuiva affatto la grandezza agli
occhi miei. Certo, allora l’ammirazione era più per l’uomo
pratico, il "grande lottatore" che per il pensatore,
di cui sapevo poco o nulla salvo che fosse anarchico. Per questo
fatto ci sono anche delle ragioni oggettive: in realtà
Bertoni, pur avendo scritto migliaia di pagine, non ha mai esposto
le sue idee in modo coerente in un libro. Il suo pensiero lo
confidava al giornale, spesso in articoli ispirati da fatti
contingenti, e queste pagine si trovano solo ancora in rare
collezioni di qualche archivio (con l’eccezione di qualche pagina
ripubblicata nel 1989 nell’antologia a cura di Gianpiero Bottinelli
e Edy Zarro L’antimilitarismo libertario in Svizzera).
D’altra parte, gli opuscoli che recano la sua firma (e che trattano
argomenti come appunto l’antimilitarismo, il sindacalismo o
l’antifascismo) mi erano per lo più sconosciuti. Tuttavia,
quando mi capitò tra le mani il suo Abbasso l’esercito!,
decidemmo subito di ripubblicarlo come supplemento ad Azione
diretta per l’attualità delle sue considerazioni.
Devo dire che in quel periodo era tutto un fiorire di "Comitati
di caserma" ispirati dalla filosofia entrista dei gruppi
marxisti. Ritrovare esposte con lucidità le nostre stesse
convinzioni di totale resistenza al servizio militare e di rifiuto
radicale dell’istituzione esercito in uno scritto di Bertoni
- allora ancora venerato da molti operai e "intoccabile"
persino per le dirigenze sindacali - ci mise nelle mani, almeno
così ci sembrava, una letale arma teorica. Ricordo che
in quegli anni si ebbe anche una commemorazione a Bellinzona
nel centenario della nascita (1972) con la partecipazione di
Pier Carlo Masini in veste di conferenziere. Non conoscevo invece
ancora il primo studio in assoluto sul Bertoni, realizzato nel
1967 come tesi universitaria da Marianne Enckell ma non pubblicato.
In effetti, nelle "storie dell’anarchia" il Bertoni
era (ed è tuttora) in gran parte ignorato. Ne parla però
il Nettlau, che dedica parecchie pagine alla sua biografia.
Con riferimento al dibattito sul sindacalismo rivoluzionario
accesosi all’inizio del secolo, il Nettlau cita un documento
del Bertoni presentato alla Conferenza della federazione delle
Unioni Operaie a Nyon nel 1908, sottolineando come tale rapporto
"esprima la problematica dell’attività sindacalista
per un autentico anarchico con una chiarezza esemplare".
Qual è questa problematica? " quella dispiegare
da un lato la necessità della lotta operaia con mezzi
sindacali e dall’altra illustrare l’inadeguatezza dei mezzi
riformisti per raggiungere gli obiettivi auspicati. Sosteneva
il Bertoni: "noi non siamo sindacalisti per amore dei sindacati
attuali, ma perché c’è una nuova potenza in formazione
e si tratta di non lasciarla accaparrare dai furbi del funzionarismo
sindacale operaia e dai capitalisti stessi (...). O riusciremo
a orientare il sindacalismo verso la rivoluzione e l’espropriazione
o diventerà, nelle mani dei capitalisti , un potente
mezzo per regolamentare il loro sfruttamento." Sulla questione
specifica dei funzionari sindacali scoppierà successivamente
una virulenta polemica tra James Guillaume da un lato e Bertoni,
Kropotkin e Malatesta dall’altro. D’altra parte, ricorda ancora
il Nettlau, lo stesso Kropotkin ebbe modo d’assaporare l’indipendenza
di giudizio del Bertoni quando quest’ultimo in occasione di
un incontro a Locarno (nel 1913) gli fece capire inequivocabilmente
di non condividere i suoi argomenti interventisti. Nella sua
Storia del movimento anarchico in Svizzera dalle origini
a oggi (1903), J. Langhard ricorda invece con dovizia di
particolari la clamorosa crisi diplomatica tra Svizzera e Italia
causata proprio da un articolo di Bertoni dedicato a Gaetano
Bresci, "martire della libertà". Per altre
notizie sul Bertoni v’era da consultare, almeno fino alla ricerca
di Marianne Enckell, solo il libretto Un uomo nella mischia:
Luigi Bertoni, pubblicato a Bologna da Mammolo Zamboni nel
1947 e ormai pressoché introvabile. Quest’opera è
in realtà la traduzione di due opuscoletti pubblicati
in Svizzera rispettivamente nel 1942 in occasione del 70° compleanno
(a cura di Lucien Tronchet) e nel 1947 in occasione della morte
del Bertoni. Fortunatamente, a partire dagli anni Ottanta, si
è creato un certo interesse accademico anche per Bertoni
e soprattutto per il Risveglio con gli studi di Jean
Louis Amar, Giovanni Casagrande, Furio Biagini e Massimo Bottinelli.
Mancava ancora però un lavoro compiuto di ricerca sulla
vita e l’opera di Luigi Bertoni che tenesse conto anche del
contesto politico, economico e sociale e ne chiarisse le posizioni.
Ora finalmente, grazie al lavoro meticoloso e appassionato di
Gianpiero Bottinelli, quest’opera è disponibile. Lungo
le oltre 200 pagine del volume un Bertoni, reso vivo dalle diverse
testimonianze di amici e compagni che lo conobbero e raccolte
personalmente dall’autore, ci racconta la sua Anarchia. Innegabile
pregio di questa biografia, che del resto è destinata
a diventare un punto di riferimento obbligato per qualsiasi
ulteriore studio in merito è infatti la scelta di lasciare
spesso e volentieri la parola direttamente a Bertoni. Accanto
a ciò, come opportunamente ricorda Marianne Enckell nella
sua prefazione, il libro "presenta anche un quadro del
quotidiano dei gruppi anarchici ginevrini, svizzeri e italiani
(...) tanto che vi si legge mezzo secolo di storia sociale (con)
la partecipazione degli anarchici agli avvenimenti che hanno
segnato il mondo intero". Completo anche l’apparato documentario,
che oltre ad una serie di tavole fuori testo offre una vasta
bibliografia, il catalogo delle "edizioni del Risveglio"
dal 1900 al 1947 e un esaustivo elenco dei nomi. Io il libro
di Bottinelli l’ho letto tutto d’un fiato, rivivendo un po’
le mie emozioni giovanili, riscoprendo questa figura mitica
che col passare degli anni avevo un po’ dimenticato (sai, oggi
si fa un gran parlare di Hakim Bey) e mi sono chiesto: che cosa
ci rimane di questo Bertoni? Ha ancora qualcosa da dirci o è
destinato a rimanere quella mitica figura di agitatore e propagandista
anarchico che avevo imparato a conoscere ed apprezzare dai vecchi
compagni che l’avevano frequentato? Nella voce dedicata a Bertoni
nell’"Enciclopedia dell’Anarchia" si leggono interessanti
considerazioni sulla valenza della figura del Bertoni all’interno
del movimento libertario internazionale. "Il nome di Bertoni",
dice l’autore della voce nell’Enciclopedia, "è in
larga parte legato all’opera della sua vita, i due giornali
Le Réveil e Il Risveglio. Entrambi i giornali
hanno dato un enorme impulso allo sviluppo di un movimento anarchico
in Svizzera, influenzandone probabilmente anche l’orientamento."
Questo indirizzo era chiaramente associazionista e sindacalista,
poiché, come affermava il Bertoni, "per spingerlo
anch’esso (il sindacato) sulla via rivoluzionaria, noi dobbiamo
entrare tutti nei sindacati". Bertoni ci mise l’anima per
realizzare questo programma. Non per nulla era chiamato dai
giornali borghesi "l’impresario di scioperi" e condannato
nel 1902 a 1 anno di prigione come responsabile dello sciopero
generale di Ginevra. Tuttavia, per Bertoni i gruppi di affinità
anarchici "piccole avanguardie audaci destinate nei momenti
propizi all’azione a spingere il popolo all’insurrezione col
dare l’esempio e col fornirne i mezzi" rimangono indispensabili.
La sua inflessibile critica a ogni forma di autoritarismo lo
spinge poi nel 1922 a convocare a Bienne un congresso anarchico
internazionale (al quale partecipò anche Malatesta) per
riaffermare (all’indirizzo dei bolscevichi) che "ogni organizzazione
di un potere sedicente provvisorio e rivoluzionario non può
essere che un inganno" e che "il colpo di stato di
Lenin non poteva significare che l’inizio della controrivoluzione".
Ma, torno a domandare, che cosa ci rimane del Bertoni teorico
o meglio che cosa mi è rimasto di questa mia ammirazione
giovanile? Anche per me gli anni sono passati e faccio ormai
parte della schiera dei vecchi anarchici. La lettura del libro
di Bottinelli mi ha tuttavia fatto intuire quanto lievito d’anarchia
rimane ancora sepolto inattivo in quelle decine di edizioni
formato opuscolo del Risveglio pubblicati clandestinamente
dal Bertoni tra il 1940 e il 1946 "da qualche parte in
Svizzera", quando le autorità avevano messo fuorilegge
comunisti e anarchici. In quegli opuscoli, forzatamente scritti
in momenti meno concitati di propaganda sono certo che si possono
ritrovare preziose riflessioni che ci restituiscono un Bertoni
vivo e vegeto al nostro fianco, a combattere la guerra e chi
se ne fa promotore, a combattere il capitale e chi lo sostiene,
a combattere i governi e chi li puntella. Forse non si scopriranno
pensieri particolarmente originali (anche se durante una delle
presentazioni del libro la sua rigorosa difesa della libertà
d’espressione ha puntualmente suscitato una polemica fra partigiani
e oppositori della censura statale degli scritti razzisti o
negazionisti dell’olocausto), ma una cosa sì: una grande
chiarezza. Bertoni voleva farsi capire da tutti, e soprattutto
dalle operaie e dagli operai. E questa, oggi, è una grande
lezione da imparare.
Peter Schrembs
Scritto sul corpo
Doris Palm e Bettina Pfefferle sono due giovani registe
tedesche. Le loro ‘opere prime’, uscite nel 1998, sono già
state presentate in più di un festival, e adesso circolano
nei circuiti "off" di Berlino. I film si chiamano
Narben 1 e Narben 2, cioè Cicatrici, 1
e 2.
Il primo, di Bettina Pfefferle e Doris Palm, è un
cortometraggio di otto minuti, dove una donna (Palm, per la
cronaca) "scopre le proprie cicatrici, e comincia un gioco
con musica e colori". Bettina mi dice di aver impiegato
otto anni per arrivare alla decisione di girare questi otto
minuti. E mi fa pensare ad una poesia di Cardarelli:... "attese
di anni/ non bastano/ per dar tempo/ di giungere/ a un minuto".
Solo un’associazione. In realtà, a Pfefferle il tempo
è bastato per arrivare a un risultato artisticamente
convincente. Il corpo segnato dalle cicatrici viene celato/svelato
grazie al movimento armonioso di un foulard che copre/scopre,
senza effetti voyeuristici. Le cicatrici vengono dipinte, colorate,
sino a diventare fantasiosi arabeschi: non erotismo, ma arte
e gioco. E comunicazione. La voglia di dire che si può
star bene nella propria pelle nonostante la deviazione dai normali
canoni estetici. Chiedo a Doris di parlarmi di Narben 1:
"Ci vuole molta fiducia nella persona che filma, per riuscire
a esporsi senza problemi. Ed io e Bettina siamo amiche da anni.
Per me si trattava di vedere se queste cicatrici, considerate
repellenti dalla nostra società, possono essere mostrate
in una maniera tale da sembrare addirittura belle. In altre
parole: è possibile, in un film, toglier via l’orrore
dalle cicatrici?" Bettina interviene: "Io personalmente
non ho cicatrici rimarchevoli. Sono arrivata al tema tramite
Doris. Con lei ho accarezzato per anni il progetto di esprimere,
tramite immagini, i sentimenti e le emozioni che ruotano intorno
a questi segni sul corpo. Doris è venuta a Berlino con
una videocamera; io me ne sono procurata una seconda. Ci siamo
chiuse per tre giorni nell’appartamento di un’amica che era
via, e abbiamo prima discusso su quello che volevamo fare, e
poi "girato". Non avevamo un soggetto e una sceneggiatura,
ma sapevamo più o meno cosa doveva "accadere"
davanti alla telecamera. Il tutto è stato visto un po’
come un esperimento". Un esperimento riuscito, direi.
Come riuscito è anche il secondo video, Narben
2, di Doris Palm, durata sessanta minuti, con Ebba Ache,
Judith Wilhelm, Edda Palm e Doris Palm. Quattro donne raccontano
il loro vissuto rispetto alle cicatrici. Dice Doris: "Ho
proceduto secondo uno schema di intervista. Ognuna doveva raccontare
come si è procurata le cicatrici (prima tornata), quali
sono state le esperienze, positive e negative, in proposito
(seconda tornata), e infine parlare dei ‘processi sociali’,
o diciamo meglio del contesto sociale in cui è cresciuta
(terza tornata). Le donne intervistate sono due mie amiche e
mia madre; anch’io racconto la mia storia. Fare il film è
stato un confrontarci di nuovo con il tema, è stato un
chiederci in che misura avvenimenti e cicatrici ci abbiano segnate.
Nel film si vede chiaramente che noi stesse non troviamo brutte
le cicatrici e ci conviviamo bene. Quello che crea problemi
sono le reazioni della gente, quegli sguardi che fanno nascere
una certa insicurezza, quelle domande prive di tatto. Ognuna
di noi, prima o poi, è arrivata al punto di domandarsi
se non dovesse limitare la propria libertà, cioè
se non dovesse incominciare a vestirsi in modo diverso (più
"coprente"), o smettere di andare in piscina o alla
sauna". Nessuna di loro, però, l’ha fatto. Ognuna
ha deciso di continuare a presentarsi agli altri con questi
episodi scritti sul corpo, ed ha, nel contempo, iniziato una
riflessione sul "bello" e sui parametri per definirlo.
Nel film, la madre di Doris, Edda, racconta: "Mi ricordo
di aver chiesto a mia figlia se dovevo cucirle dei vestiti con
le maniche lunghe, ma lei ha rifiutato. Sono stata d’accordo.
Anch’io non ho problemi di ‘visibilità’. Non volevo,
con la mia domanda, suggerirle che doveva nascondere la sua
pelle, volevo solo capire come viveva lei la cosa. Io credo
che il problema sia sociale. Tutto deve essere perfetto e levigato.
Pensiamo ai giocattoli, alle bambole: se hanno un difetto, vanno
a finire quasi sempre nella spazzatura". Doris esprime
il suo parere: "La problematica è collegata al fatto
che la bellezza nella nostra società rappresenta un preciso
ideale, e soprattutto la bellezza delle donne. Ci viene detto
che la bellezza è importantissima, che dobbiamo far di
tutto per essere belle. La mia amica racconta ad esempio nel
film che tutti le consigliavano di far sparire le cicatrici
con un’operazione di chirurgia estetica, così poi avrebbe
potuto trovare un uomo ed essere felice. Come ho già
detto, sono i commenti esterni che ci hanno, a tratti, rese
insicure, tanto più che all’epoca dell’incidente eravamo
delle bambine o delle ragazzine. E da piccola i giudizi degli
altri ti fanno più male". Domando a Doris se, nel
girare Narben 2, abbia voluto in qualche modo aiutare
le donne che hanno problemi di cicatrici Doris risponde: "Il
film non è soltanto un confrontarsi con la nostra storia
e i nostri conflitti, in una sorta di rielaborazione terapeutica
(naturalmente, questo aspetto c’è), ma vuol essere anche
un invito rivolto ad altre donne, perché esternino finalmente
ciò che sentono rispetto alle proprie ferite. In questo
senso, il film è ‘politico’ e non intimistico. Una volta
si sarebbe detto che ha un messaggio". E sarebbe? "Trasmettere
alle donne che è importante dire l’indicibile, parlare
di cicatrici e rivelare i propri sentimenti al riguardo: come
si vorrebbe essere trattate dagli altri, che aspettative e desideri
si hanno. Può essere liberatorio rivelare la propria
vulnerabilità. Ricordo che da bambina mi sentivo a volte
un mostro, ma adesso non voglio che questo mi succeda più.
Voglio sentirmi accettata, non isolata e rifiutata. C’è
sicuramente un altro modo di interagire di fronte a una cicatrice.
Ed io voglio sentirmi bella, qualunque sia il mio aspetto fisico".
Il suo accenno a un’interazione (non solo a una "reazione")
suscita il mio interesse; la spingo a farmi un esempio. "Una
volta una donna mi ha detto che trovava belle le mie cicatrici.
Le ricordavano l’intreccio dei cristalli di ghiaccio. Da allora
vedo i miei "disegni di carne" con i suoi occhi, e
li trovo belli anch’io". Il commento di quella donna andava
al di là della semplice accettazione, si avventurava
sul terreno dell’ammirazione, mettendo in gioco una variabile
nuova. E il nostro sguardo sulle persone e sulle cose cambia
il rapporto con loro. Per questo CREARE UNA NUOVA ESTETICA SIGNIFICA
CREARE UNA NUOVA ETICA. Quando, per es., si smetterà
di dire che "un uomo con i capelli grigi è affascinante,
una donna con lo stesso attributo è brutta", avremo
fatto un passo avanti nella comprensione dei cicli naturali
e, forse, nel campo della pari opportunità, tanto per
citare un’espressione oggi di moda.
Lilla Consoni
Sull’opposizione tra la diarrea
e il cancro
Le edizioni Elèuthera hanno da poco pubblicato
Il pianeta unico, processi di globalizzazione, un’antologia
di Salvo Vaccaro con saggi di 6 autori - tra i quali Rodrigo
Andrea Rivas. Pubblichiamo qui un suo scritto non compreso nella
citata antologia.
Con quali parametri definire l’economia-mondo nella quale si
è inserito il processo di globalizzazione? Semplicemente
come quella del libero mercato susseguente alla vittoria indiscussa
del capitalismo? O come una sorta di transizione verso l’avvenire,
contraddistinta anche dalle sacche di resistenza opposte da
qualche sindacato o dai cocciuti partigiani delle rigidità
salariali tipiche da uno Stato del secolo XIX? O come quella
della vittoria annunciata e certa delle forze del bene che,
tuttavia, non possono dispiegare tutta la loro potenzialità
perché sono costrette a mantenere alta la guardia per
affrontare sia i nemici di cui prima nonché le forze
del male sopravvissute, dittatori, popoli, o culture che siano?
Nell’ultima edizione annuale, 1997, del Rapporto sullo
sviluppo umano pubblicato dal UNDP (l’organismo ONU che
analizza le problematiche legate allo sviluppo), vengono identificati
una serie di successi tutt’altro che insignificanti. Si parla
infatti dell’aumento del tasso di scolarità tra le ragazze,
della diminuzione dell’analfabetismo tra gli adulti, dell’aumento
generalizzato sia delle aspettative di vita che delle spese
destinate al consumo o della disponibilità complessiva
di acqua potabile, ecc.
Si parla anche però, del fatto che gli 800 milioni
di persone che vivono nei paesi ricchi (circa il 16% dell’umanità),
si dividono l’86% dei consumi privati totali, si pappano il
45% della carne e del pesce, il 58% dell’energia, l’84% della
carta, l’87% dei veicoli, il 74% delle linee telefoniche, l’83%
del reddito mondiale, il 90% dei risparmi, il 95% dei prestiti
bancari commerciali, il 98,2% dei soldi destinati alla ricerca/sviluppo,
ecc. E pure questo rapporto conferma che mai peggioramento fu
così veloce perché, se "nel 1960, il reddito
medio della popolazione che viveva nei paesi ricchi era 30 volte
superiore al reddito delle persone che abitavano nei paesi più
poveri... nel 1995 era superiore di 82 volte". E forse
per evitare che i grandi numeri non ci permettano intravedere
il bosco, ci informa pure che la fortuna dei 3 uomini più
ricchi del mondo supera il PIL accumulato dei 48 paesi più
poveri, che quella dei 15 uomini più ricchi pareggia
il PIL di tutta l’Africa al sud del Sahara, che quella dei 32
uomini più ricchi supera il PIL dell’Asia del Sud, che
quella degli 84 uomini più ricchi supera il PIL della
Cina.... Ci dice sommessamente che con "soli" 40 miliardi
di dollari, e cioè con la fortuna personale di Bill Gates
oppure il 4% delle fortune dei 225 uomini più ricchi,
si potrebbero soddisfare le necessità essenziali di tutta
la popolazione del terzo mondo (cibo, acqua potabile, infrastrutture
sanitarie, educazione, salute, ginecologia, ostetricia), cosa
che riveste una certa urgenza giacché - racconta sempre
il rapporto del UNDP - da quelle parti oltre 1000 milioni di
persone non mangiano a sufficienza; 2700 milioni non dispongono
delle strutture sanitarie di base; 1500 milioni non hanno accesso
all’acqua potabile; 1100 milioni non dispongono di una casa;
un quinto dei bambini non completa la scuola dell’obbligo e
oltre 2000 milioni di persone soffrono di anemia.
Certo, il rapporto del UNDP non stabilisce un rapporto meccanico
tra la situazione delle poche centinaia di "paperon de
Paperoni" e quella degli oltre 1300 milioni di persone
che vivono con meno di un dollaro al giorno o quella dei 3000
milioni che lo fanno con meno di due dollari al giorno. D’altronde,
come non capirli: sono pur sempre una pubblicazione ufficiale
dell’ONU!
Non credo necessario né proporvi altre cifre d’insieme
né, tantomeno, commentare quelle appena citate. Si traducono
in conseguenze, in fatti, che non solo si legano alla lampante
diversità dei redditi disponibili, quindi alle condizioni
materiali di vita, ma che si rapportino anche ai diritti e ai
bisogni, diritti la cui valenza è tutt’altro che universale,
bisogni che la globalizzazione delle comunicazioni tende a universalizzare.
Il che aggiunge il danno alla beffa. O viceversa.
Cerco di spiegarmi meglio ricorrendo a un fatto della cronaca
odierna: al di là dei suoi meriti o demeriti scientifici,
tema sul quale non sono in grado di dare un’opinione sensata,
osservo infatti che si assiste in tutta Italia a manifestazioni
e dibattiti sul diritto a disporre gratis della cura contro
il cancro creata dal Professore Luigi Di Bella. Contro il cancro,
e cioè contro quella malattia regolarmente definita come
la più diffusa e mortale dei nostri tempi. Verifico anche
che, nell’Africa, nel 1997, la spesa sanitaria pro capite, annua,
è stata uguale a 5 dollari, e cioè a 9000 lire
circa. Concludo quindi, mi sembra scontato, che se nell’Italia
di oggi si può ragionevolmente pensare che pagare meno
ticket sanitari, curarsi liberamente coi soldi pubblici, disporre
gratuitamente dei farmaci e delle cure per il cancro o per l’AIDS...
costituisce un diritto a tutti gli effetti, nell’Africa - non
solo - ciò non è neppure un miraggio.
Facciamo ricorso ancora una volta al rapporto UNDP citato:
guardando le tabelle notiamo che la Gran Bretagna si trova al
15° posto nelle classifiche dello sviluppo umano e l’Etiopia
al 170° (i paesi analizzati sono 175). Le stesse tabelle ci
dicono che nella Gran Bretagna, malgrado si osservi un’accentuata
regressione, tutti gli abitanti hanno accesso al servizio sanitario
e all’acqua potabile, non esiste l’analfabetismo tra gli adulti,
i bambini che muoiono prima di raggiungere un anno di età
sono 5000 e tutti i ragazzi frequentano la scuola elementare.
E che in Etiopia il 54% della popolazione non ha nessuna forma
di accesso al servizio sanitario, il 75% non dispone di acqua
potabile, il 64,5% degli adulti è analfabeta mentre il
tasso di analfabetismo tra i ragazzi non viene nemmeno osservato,
e che oltre 600.000 bambini muoiono senza avere raggiunto il
primo anno di età. Quindi, pur se possiamo ragionevolmente
supporre che anche in Etiopia qualcuno muore di cancro, risulta
assai difficile immaginarsi le strade di Addis Abeba occupate
da una folla di malati che esigono. E, pur se nemmeno in questo
caso si osservano proteste di strada, risulta assai più
ragionevole presupporre che gli etiopici siano molto più
preoccupati della diarrea, principale causa di mortalità,
nel loro paese e nel mondo.
E poiché discorsi analoghi potrebbero essere imbastiti
sul diritto all’infanzia e al gioco, alla sessualità
e alla cultura, alla casa, alla lingua e ai trasporti, ecc.,
mi sembra gioco forza concludere, senza togliere nulla, qui
ed ora, al fatto che il diritto a curarsi liberamente e con
l’assistenza finanziaria dello stato possa rappresentare o rappresenti
un atto di civiltà. Il fatto è che sono proprio
il qui e l’ora a definire i cosiddetti diritti umani. E quindi,
la loro conclamata universalità rappresenta tutt’al più
un’aspirazione.
Tutto ciò non equivale a dire ciò che "Nord"
o "Sud" rappresentino concetti univoci. Che sarebbe
come dire che ognuno dei presenti è tale e quale un nipotino
del "avvocato", oppure che esistono davvero "il
sistema Italia", "il sistema Europa", "il
sistema Nord" o "il sistema Sud", o che siamo
tutti, senza differenze apprezzabili, sulla stessa barca.
Rodrigo Andrea Rivas
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