rivista anarchica
anno 29 n.256
estate 1999


 

La maschera di Mussolini

Sicuramente i lettori di questa rivista già conoscono il copioso lavoro di Pier Carlo Masini, lo storico e saggista che ha contribuito in modo determinante alla conoscenza delle fonti dei movimenti libertari, ottenendo l’importantissimo risultato di sottrarre alla speculazione di impronta marxista il monopolio degli studi sul primo socialismo italiano. Fondamentale, in questo senso, è la sua opera La Federazione Italiana dell’AIT. Atti ufficiali (Milano 1964), così come determinanti per la piena rivalutazione del ruolo dell’anarchismo nella nascita e nello sviluppo del più vasto movimento sociale del nostro paese sono i due volumi sulla storia dell’anarchismo in Italia (Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Milano 1969 e Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati, Milano 1981). Né si può dimenticare, fra gli altri suoi titoli, la bellissima e partecipata biografia di Carlo Cafiero (Cafiero, Milano 1974), che restituisce all’anarchico barlettano quello spessore e quella centralità nelle vicende della Prima Internazionale che la storiografia "ufficiale" ha sistematicamente sottovalutato.
Ora, a pochi mesi dalla morte - avvenuta il 19 ottobre dell’anno scorso - grazie all’impegno dei compagni della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, un nuovo contributo di Pier Carlo Masini viene ad aggiungersi, postumo e benvenuto, ai tanti lavori prodotti nei lunghi anni della sua ricerca storica e militanza politica. Mussolini, la maschera del dittatore (Pisa 1999) è l’opera alla quale Masini ha lavorato pressoché fino alla fine, nonostante il progredire della malattia e aiutato costantemente da Franco Bertolucci, riuscendo così a dare organicità e a portare a conclusione studi precedenti iniziati più di 25 anni fa.
Come sempre, Masini accompagna alla serietà della ricerca una particolare piacevolezza della scrittura, che nasce da uno stile brillante e acuto, ricco di lampi di lucida ironia e di sincera umanità, di annotazioni pertinenti e di osservazioni profonde rese con semplicità e chiarezza; qualità non sempre riscontrabili nelle opere di carattere storico e per questo particolarmente apprezzabili in questo testo.
L’argomento trattato - il personaggio Mussolini duce del fascismo e capo del governo italiano durante il nefasto ventennio - vanta una storiografia sterminata, tanto che parrebbe legittimo chiedersi se sia possibile aggiungere contenuti originali o apportare nuovi elementi di lettura e di interpretazione; tanto più che l’opera di Renzo De Felice è stata in qualche modo accolta dal mondo degli studi come il contributo definitivo in materia, tale da precludere la possibilità di eventuali indagini future. Eppure resta ancora la necessità di non dimenticare né sottovalutare quell’autentico buco nero nella storia del nostro Novecento che fu il periodo fascista, come resta imprescindibile il bisogno di indagare le cause che ne resero possibile l’affermazione, allo scopo di comprendere gli elementi di forza e di debolezza che crearono prima, e affossarono poi, il regime. Masini decide consapevolmente di accettare la sfida e, se anche a volte sembra non sottrarsi del tutto al pericolo di ribadire cose già dette, riesce comunque a proporre elementi di indagine non abbastanza esplorati e momenti di riflessione nuovi ed originali.
È lo stesso Masini, del resto, che ci spiega significativamente e con parole illuminanti i motivi che lo hanno spinto a riprendere in mano questi studi mussoliniani: "Per oltrepassare Mussolini - egli scrive - occorre non ignorarlo ma conoscerne la personalità in tutte le sue pieghe". La ricerca parte quindi da presupposti fondati su convinzioni personali dell’autore, ed è proprio questo - a mio parere - l’elemento più importante e apprezzabile, nonché la vera chiave di volta del suo lavoro. Mi pare infatti che sia proprio in quel "oltrepassare" che si condensa il significato dell’opera, che si esprime tutta la tensione etica, mai disgiunta del resto dalla competenza dello studioso. "Oltrepassare" non per rimuovere o dimenticare, ma anzi per l’esatto contrario: per comprendere fino in fondo gli elementi costitutivi del fenomeno fascista in modo tale da evitare finalmente il pericolo di ricreare le premesse per nuovi culti della personalità e per la rinnovata identificazione di un intero popolo con un sistema di valori autoritario e aggressivo, quale fu quello alla base della fortuna mussoliniana.
Muovendo da queste premesse, l’autore viene a mettere palesemente in secondo piano una chiave interpretativa del fascismo - del resto già ampiamente esplorata - che fa perno quasi esclusivamente sullo studio e sull’analisi dei fenomeni economici e politici che ne favorirono la fortuna. Ovviamente le ragioni materiali sono ben presenti nel pensiero e nell’interpretazione di Masini, né mancano considerazioni acute sul rapporto fra condizioni storiche e decisioni personali; ma nella riflessione dell’autore è decisamente centrale l’importanza prestata alla comprensione degli aspetti psicologici e caratteriali del personaggio Mussolini e di come questi suoi tratti comportamentali poterono imporsi all’attenzione e all’approvazione del popolo italiano. Ecco quindi che, per "oltrepassare" Mussolini e rendere nuovamente efficace "il vaccino che, nolente, ha inoculato agli italiani, il rifiuto di credere, obbedire, combattere, la ripugnanza al militarismo e alla guerra", Masini privilegia decisamente questa prospettiva, spiegando così le cause della effettiva, innegabile identificazione che per lungo tempo le masse popolari d’Italia provarono nei confronti del duce. Identificazione facilitata, del resto, dalla coincidenza temporale fra l’affermazione di Mussolini nell’Italia postbellica e il nascere di nuovi strumenti della comunicazione di massa, strumenti di cui il duce seppe impadronirsi con straordinario tempismo e innegabile abilità.
Evidente e dichiarato è quindi il debito che Masini contrae col Mussolini grande attore di Camillo Berneri (Mussolini gran actor, Valencia 1934, trad. it. Mussolini, psicologia di un dittatore, Milano 1966), quello straordinario pamphlet che rivalutò, in negativo, la figura di Mussolini, mostrando per la prima volta quegli atteggiamenti istrioneschi e "nazionalpopolari" che tanta importanza ebbero per la sua affermazione. Scrive infatti Masini: "Ho ritenuto opportuno impostare in prima persona un discorso più ampio e complessivo su Mussolini, non riproducendo più il saggio di Berneri, ma integrando la sua ricerca, che si interrompe al 1932 circa, con elementi relativi al periodo posteriore [...]. L’angolazione, psicologica, puntata sui tratti peculiari dell’attore, è rimasta la stessa, integrata nel testo e in nota da quelle osservazioni di Berneri che meglio lumeggiano la sua originale intuizione".
Partendo quindi da una tale prospettiva di analisi, l’autore arriva progressivamente a dar corpo a una spiegazione del successo di Mussolini tanto geniale quanto apparentemente ovvia, vale a dire il concreto parallelismo tra i molti difetti e i rari pregi del duce e i molti difetti e i rari pregi di quel popolo italiano che, nella sua quasi totalità, trasversalmente a tutte le classi sociali, a lui così facilmente si piegò. Gli atteggiamenti più attorici, più smaccatamente enfatici nella loro grottesca prosopopea, furono proprio quelli che più fecero presa su masse fondamentalmente immature e sostanzialmente prive di una vera coscienza civica; furono il grimaldello per l’imporsi di una demagogia becera ma efficace che poggiò le proprie basi sull’indiscussa capacità comunicativa di Mussolini, contro il quale non riuscì ad opporsi, con la necessaria efficacia, l’intero movimento antifascista, forse spiazzato dalla novità che il mussolinismo, più che il fascismo, rappresentava. Quello a cui si assistette, infatti, fu il nascere di un fenomeno nuovo nel Novecento: l’affermarsi di un culto della personalità di massa che non trovava allora precedenti nel panorama politico internazionale, e i cui meccanismi Masini, nella sua vena più caustica, spiega e stigmatizza con lucido sarcasmo.
Rivolgendo la sua analisi alla nascita dei fenomeni di comunicazione di massa e ai meccanismi dell’agire collettivo che si imposero nella giovinezza del secolo e che, in altri ambiti e in altre situazioni, avrebbero prodotto effetti altrettanto se non più sconvolgenti di quanto non fu sotto il fascismo, Masini fornisce dunque un ultimo strumento, morale e intellettuale, utile a chiunque voglia opporsi alle chimere della demagogia e al pericolo del totalitarismo. Uno strumento prezioso, che aiuta a comprendere la realtà, ad approfondire le nostre capacità di reazione, a mantenere alto il livello di guardia contro tutto ciò che minaccia il nostro bisogno di libertà.

Massimo Ortalli

 

Il "Santo" degli anarchici

Forse non a tutti i compagni, specie ai più giovani, è noto il nome di Luigi Bertoni (1872-1947), il "Santo" come lo ebbe a chiamare qualcuno. Il suo nome, più che leggerlo, lo senti pronunciare qua e là nei discorsi tra compagni, in fugaci accenni, e sempre più raramente, nelle rimembranze di qualche vecchio. Io per esempio mi ricordo che da giovane volevo diventare come lui. A dire il vero, non avevo mai letto neppure una riga dei suoi scritti, ma il quadro della sua vita tracciatoci da Carlo Vanza, questo vecchio compagno di Biasca, era stato sufficiente per far sbocciare in me un’ammirazione totale. Per me, Bertoni era un mito. Sapevo poco, ma quel poco mi bastava. Tu pensa, uno che per quasi mezzo secolo pubblica un giornale, il Risveglio anarchico, che durante gli anni più bui rimarrà l’unica voce anarchica in tutt’Europa. Uno che il giornale non solo lo scrive, ma lo compone anche con le sue mani (era operaio tipografo), la sera dopo il lavoro, e questo per oltre mille numeri in italiano e francese. Uno che trova il tempo di fare centinaia di comizi all’anno in tutta la Svizzera e che riesce ancora a pubblicare numerose opere di Kropotkin, Reclus, Ferrer, Most, Guillaume, Malatesta, Luce Fabbri e molti altri. Uno che è stato tra gli organizzatori delle più radicali manifestazioni di lotta operaia in Svizzera. Sapevo che aveva sempre con sé una borsa piena di giornali e opuscoli da diffondere. E sapevo che più d’una volta aveva pagato la sua coerenza con la galera. Certo, c’erano in lui alcuni aspetti sconcertanti, come la sua completa dedizione all’"ideale" fino al punto di scegliere l’ascetismo o meglio, per usare le parole di Amiguet, "il dono completo di se stesso" (tant’è vero che alcuni anarchici lo chiamavano "l’arcivescovo dell’anarchia"). Tuttavia, ciò non ne sminuiva affatto la grandezza agli occhi miei. Certo, allora l’ammirazione era più per l’uomo pratico, il "grande lottatore" che per il pensatore, di cui sapevo poco o nulla salvo che fosse anarchico. Per questo fatto ci sono anche delle ragioni oggettive: in realtà Bertoni, pur avendo scritto migliaia di pagine, non ha mai esposto le sue idee in modo coerente in un libro. Il suo pensiero lo confidava al giornale, spesso in articoli ispirati da fatti contingenti, e queste pagine si trovano solo ancora in rare collezioni di qualche archivio (con l’eccezione di qualche pagina ripubblicata nel 1989 nell’antologia a cura di Gianpiero Bottinelli e Edy Zarro L’antimilitarismo libertario in Svizzera). D’altra parte, gli opuscoli che recano la sua firma (e che trattano argomenti come appunto l’antimilitarismo, il sindacalismo o l’antifascismo) mi erano per lo più sconosciuti. Tuttavia, quando mi capitò tra le mani il suo Abbasso l’esercito!, decidemmo subito di ripubblicarlo come supplemento ad Azione diretta per l’attualità delle sue considerazioni. Devo dire che in quel periodo era tutto un fiorire di "Comitati di caserma" ispirati dalla filosofia entrista dei gruppi marxisti. Ritrovare esposte con lucidità le nostre stesse convinzioni di totale resistenza al servizio militare e di rifiuto radicale dell’istituzione esercito in uno scritto di Bertoni - allora ancora venerato da molti operai e "intoccabile" persino per le dirigenze sindacali - ci mise nelle mani, almeno così ci sembrava, una letale arma teorica. Ricordo che in quegli anni si ebbe anche una commemorazione a Bellinzona nel centenario della nascita (1972) con la partecipazione di Pier Carlo Masini in veste di conferenziere. Non conoscevo invece ancora il primo studio in assoluto sul Bertoni, realizzato nel 1967 come tesi universitaria da Marianne Enckell ma non pubblicato. In effetti, nelle "storie dell’anarchia" il Bertoni era (ed è tuttora) in gran parte ignorato. Ne parla però il Nettlau, che dedica parecchie pagine alla sua biografia. Con riferimento al dibattito sul sindacalismo rivoluzionario accesosi all’inizio del secolo, il Nettlau cita un documento del Bertoni presentato alla Conferenza della federazione delle Unioni Operaie a Nyon nel 1908, sottolineando come tale rapporto "esprima la problematica dell’attività sindacalista per un autentico anarchico con una chiarezza esemplare". Qual è questa problematica? " quella dispiegare da un lato la necessità della lotta operaia con mezzi sindacali e dall’altra illustrare l’inadeguatezza dei mezzi riformisti per raggiungere gli obiettivi auspicati. Sosteneva il Bertoni: "noi non siamo sindacalisti per amore dei sindacati attuali, ma perché c’è una nuova potenza in formazione e si tratta di non lasciarla accaparrare dai furbi del funzionarismo sindacale operaia e dai capitalisti stessi (...). O riusciremo a orientare il sindacalismo verso la rivoluzione e l’espropriazione o diventerà, nelle mani dei capitalisti , un potente mezzo per regolamentare il loro sfruttamento." Sulla questione specifica dei funzionari sindacali scoppierà successivamente una virulenta polemica tra James Guillaume da un lato e Bertoni, Kropotkin e Malatesta dall’altro. D’altra parte, ricorda ancora il Nettlau, lo stesso Kropotkin ebbe modo d’assaporare l’indipendenza di giudizio del Bertoni quando quest’ultimo in occasione di un incontro a Locarno (nel 1913) gli fece capire inequivocabilmente di non condividere i suoi argomenti interventisti. Nella sua Storia del movimento anarchico in Svizzera dalle origini a oggi (1903), J. Langhard ricorda invece con dovizia di particolari la clamorosa crisi diplomatica tra Svizzera e Italia causata proprio da un articolo di Bertoni dedicato a Gaetano Bresci, "martire della libertà". Per altre notizie sul Bertoni v’era da consultare, almeno fino alla ricerca di Marianne Enckell, solo il libretto Un uomo nella mischia: Luigi Bertoni, pubblicato a Bologna da Mammolo Zamboni nel 1947 e ormai pressoché introvabile. Quest’opera è in realtà la traduzione di due opuscoletti pubblicati in Svizzera rispettivamente nel 1942 in occasione del 70° compleanno (a cura di Lucien Tronchet) e nel 1947 in occasione della morte del Bertoni. Fortunatamente, a partire dagli anni Ottanta, si è creato un certo interesse accademico anche per Bertoni e soprattutto per il Risveglio con gli studi di Jean Louis Amar, Giovanni Casagrande, Furio Biagini e Massimo Bottinelli. Mancava ancora però un lavoro compiuto di ricerca sulla vita e l’opera di Luigi Bertoni che tenesse conto anche del contesto politico, economico e sociale e ne chiarisse le posizioni. Ora finalmente, grazie al lavoro meticoloso e appassionato di Gianpiero Bottinelli, quest’opera è disponibile. Lungo le oltre 200 pagine del volume un Bertoni, reso vivo dalle diverse testimonianze di amici e compagni che lo conobbero e raccolte personalmente dall’autore, ci racconta la sua Anarchia. Innegabile pregio di questa biografia, che del resto è destinata a diventare un punto di riferimento obbligato per qualsiasi ulteriore studio in merito è infatti la scelta di lasciare spesso e volentieri la parola direttamente a Bertoni. Accanto a ciò, come opportunamente ricorda Marianne Enckell nella sua prefazione, il libro "presenta anche un quadro del quotidiano dei gruppi anarchici ginevrini, svizzeri e italiani (...) tanto che vi si legge mezzo secolo di storia sociale (con) la partecipazione degli anarchici agli avvenimenti che hanno segnato il mondo intero". Completo anche l’apparato documentario, che oltre ad una serie di tavole fuori testo offre una vasta bibliografia, il catalogo delle "edizioni del Risveglio" dal 1900 al 1947 e un esaustivo elenco dei nomi. Io il libro di Bottinelli l’ho letto tutto d’un fiato, rivivendo un po’ le mie emozioni giovanili, riscoprendo questa figura mitica che col passare degli anni avevo un po’ dimenticato (sai, oggi si fa un gran parlare di Hakim Bey) e mi sono chiesto: che cosa ci rimane di questo Bertoni? Ha ancora qualcosa da dirci o è destinato a rimanere quella mitica figura di agitatore e propagandista anarchico che avevo imparato a conoscere ed apprezzare dai vecchi compagni che l’avevano frequentato? Nella voce dedicata a Bertoni nell’"Enciclopedia dell’Anarchia" si leggono interessanti considerazioni sulla valenza della figura del Bertoni all’interno del movimento libertario internazionale. "Il nome di Bertoni", dice l’autore della voce nell’Enciclopedia, "è in larga parte legato all’opera della sua vita, i due giornali Le Réveil e Il Risveglio. Entrambi i giornali hanno dato un enorme impulso allo sviluppo di un movimento anarchico in Svizzera, influenzandone probabilmente anche l’orientamento." Questo indirizzo era chiaramente associazionista e sindacalista, poiché, come affermava il Bertoni, "per spingerlo anch’esso (il sindacato) sulla via rivoluzionaria, noi dobbiamo entrare tutti nei sindacati". Bertoni ci mise l’anima per realizzare questo programma. Non per nulla era chiamato dai giornali borghesi "l’impresario di scioperi" e condannato nel 1902 a 1 anno di prigione come responsabile dello sciopero generale di Ginevra. Tuttavia, per Bertoni i gruppi di affinità anarchici "piccole avanguardie audaci destinate nei momenti propizi all’azione a spingere il popolo all’insurrezione col dare l’esempio e col fornirne i mezzi" rimangono indispensabili. La sua inflessibile critica a ogni forma di autoritarismo lo spinge poi nel 1922 a convocare a Bienne un congresso anarchico internazionale (al quale partecipò anche Malatesta) per riaffermare (all’indirizzo dei bolscevichi) che "ogni organizzazione di un potere sedicente provvisorio e rivoluzionario non può essere che un inganno" e che "il colpo di stato di Lenin non poteva significare che l’inizio della controrivoluzione". Ma, torno a domandare, che cosa ci rimane del Bertoni teorico o meglio che cosa mi è rimasto di questa mia ammirazione giovanile? Anche per me gli anni sono passati e faccio ormai parte della schiera dei vecchi anarchici. La lettura del libro di Bottinelli mi ha tuttavia fatto intuire quanto lievito d’anarchia rimane ancora sepolto inattivo in quelle decine di edizioni formato opuscolo del Risveglio pubblicati clandestinamente dal Bertoni tra il 1940 e il 1946 "da qualche parte in Svizzera", quando le autorità avevano messo fuorilegge comunisti e anarchici. In quegli opuscoli, forzatamente scritti in momenti meno concitati di propaganda sono certo che si possono ritrovare preziose riflessioni che ci restituiscono un Bertoni vivo e vegeto al nostro fianco, a combattere la guerra e chi se ne fa promotore, a combattere il capitale e chi lo sostiene, a combattere i governi e chi li puntella. Forse non si scopriranno pensieri particolarmente originali (anche se durante una delle presentazioni del libro la sua rigorosa difesa della libertà d’espressione ha puntualmente suscitato una polemica fra partigiani e oppositori della censura statale degli scritti razzisti o negazionisti dell’olocausto), ma una cosa sì: una grande chiarezza. Bertoni voleva farsi capire da tutti, e soprattutto dalle operaie e dagli operai. E questa, oggi, è una grande lezione da imparare.

Peter Schrembs

 

Scritto sul corpo

Doris Palm e Bettina Pfefferle sono due giovani registe tedesche. Le loro ‘opere prime’, uscite nel 1998, sono già state presentate in più di un festival, e adesso circolano nei circuiti "off" di Berlino. I film si chiamano Narben 1 e Narben 2, cioè Cicatrici, 1 e 2.
Il primo, di Bettina Pfefferle e Doris Palm, è un cortometraggio di otto minuti, dove una donna (Palm, per la cronaca) "scopre le proprie cicatrici, e comincia un gioco con musica e colori". Bettina mi dice di aver impiegato otto anni per arrivare alla decisione di girare questi otto minuti. E mi fa pensare ad una poesia di Cardarelli:... "attese di anni/ non bastano/ per dar tempo/ di giungere/ a un minuto". Solo un’associazione. In realtà, a Pfefferle il tempo è bastato per arrivare a un risultato artisticamente convincente. Il corpo segnato dalle cicatrici viene celato/svelato grazie al movimento armonioso di un foulard che copre/scopre, senza effetti voyeuristici. Le cicatrici vengono dipinte, colorate, sino a diventare fantasiosi arabeschi: non erotismo, ma arte e gioco. E comunicazione. La voglia di dire che si può star bene nella propria pelle nonostante la deviazione dai normali canoni estetici. Chiedo a Doris di parlarmi di Narben 1: "Ci vuole molta fiducia nella persona che filma, per riuscire a esporsi senza problemi. Ed io e Bettina siamo amiche da anni. Per me si trattava di vedere se queste cicatrici, considerate repellenti dalla nostra società, possono essere mostrate in una maniera tale da sembrare addirittura belle. In altre parole: è possibile, in un film, toglier via l’orrore dalle cicatrici?" Bettina interviene: "Io personalmente non ho cicatrici rimarchevoli. Sono arrivata al tema tramite Doris. Con lei ho accarezzato per anni il progetto di esprimere, tramite immagini, i sentimenti e le emozioni che ruotano intorno a questi segni sul corpo. Doris è venuta a Berlino con una videocamera; io me ne sono procurata una seconda. Ci siamo chiuse per tre giorni nell’appartamento di un’amica che era via, e abbiamo prima discusso su quello che volevamo fare, e poi "girato". Non avevamo un soggetto e una sceneggiatura, ma sapevamo più o meno cosa doveva "accadere" davanti alla telecamera. Il tutto è stato visto un po’ come un esperimento". Un esperimento riuscito, direi.
Come riuscito è anche il secondo video, Narben 2, di Doris Palm, durata sessanta minuti, con Ebba Ache, Judith Wilhelm, Edda Palm e Doris Palm. Quattro donne raccontano il loro vissuto rispetto alle cicatrici. Dice Doris: "Ho proceduto secondo uno schema di intervista. Ognuna doveva raccontare come si è procurata le cicatrici (prima tornata), quali sono state le esperienze, positive e negative, in proposito (seconda tornata), e infine parlare dei ‘processi sociali’, o diciamo meglio del contesto sociale in cui è cresciuta (terza tornata). Le donne intervistate sono due mie amiche e mia madre; anch’io racconto la mia storia. Fare il film è stato un confrontarci di nuovo con il tema, è stato un chiederci in che misura avvenimenti e cicatrici ci abbiano segnate. Nel film si vede chiaramente che noi stesse non troviamo brutte le cicatrici e ci conviviamo bene. Quello che crea problemi sono le reazioni della gente, quegli sguardi che fanno nascere una certa insicurezza, quelle domande prive di tatto. Ognuna di noi, prima o poi, è arrivata al punto di domandarsi se non dovesse limitare la propria libertà, cioè se non dovesse incominciare a vestirsi in modo diverso (più "coprente"), o smettere di andare in piscina o alla sauna". Nessuna di loro, però, l’ha fatto. Ognuna ha deciso di continuare a presentarsi agli altri con questi episodi scritti sul corpo, ed ha, nel contempo, iniziato una riflessione sul "bello" e sui parametri per definirlo. Nel film, la madre di Doris, Edda, racconta: "Mi ricordo di aver chiesto a mia figlia se dovevo cucirle dei vestiti con le maniche lunghe, ma lei ha rifiutato. Sono stata d’accordo. Anch’io non ho problemi di ‘visibilità’. Non volevo, con la mia domanda, suggerirle che doveva nascondere la sua pelle, volevo solo capire come viveva lei la cosa. Io credo che il problema sia sociale. Tutto deve essere perfetto e levigato. Pensiamo ai giocattoli, alle bambole: se hanno un difetto, vanno a finire quasi sempre nella spazzatura". Doris esprime il suo parere: "La problematica è collegata al fatto che la bellezza nella nostra società rappresenta un preciso ideale, e soprattutto la bellezza delle donne. Ci viene detto che la bellezza è importantissima, che dobbiamo far di tutto per essere belle. La mia amica racconta ad esempio nel film che tutti le consigliavano di far sparire le cicatrici con un’operazione di chirurgia estetica, così poi avrebbe potuto trovare un uomo ed essere felice. Come ho già detto, sono i commenti esterni che ci hanno, a tratti, rese insicure, tanto più che all’epoca dell’incidente eravamo delle bambine o delle ragazzine. E da piccola i giudizi degli altri ti fanno più male". Domando a Doris se, nel girare Narben 2, abbia voluto in qualche modo aiutare le donne che hanno problemi di cicatrici Doris risponde: "Il film non è soltanto un confrontarsi con la nostra storia e i nostri conflitti, in una sorta di rielaborazione terapeutica (naturalmente, questo aspetto c’è), ma vuol essere anche un invito rivolto ad altre donne, perché esternino finalmente ciò che sentono rispetto alle proprie ferite. In questo senso, il film è ‘politico’ e non intimistico. Una volta si sarebbe detto che ha un messaggio". E sarebbe? "Trasmettere alle donne che è importante dire l’indicibile, parlare di cicatrici e rivelare i propri sentimenti al riguardo: come si vorrebbe essere trattate dagli altri, che aspettative e desideri si hanno. Può essere liberatorio rivelare la propria vulnerabilità. Ricordo che da bambina mi sentivo a volte un mostro, ma adesso non voglio che questo mi succeda più. Voglio sentirmi accettata, non isolata e rifiutata. C’è sicuramente un altro modo di interagire di fronte a una cicatrice. Ed io voglio sentirmi bella, qualunque sia il mio aspetto fisico". Il suo accenno a un’interazione (non solo a una "reazione") suscita il mio interesse; la spingo a farmi un esempio. "Una volta una donna mi ha detto che trovava belle le mie cicatrici. Le ricordavano l’intreccio dei cristalli di ghiaccio. Da allora vedo i miei "disegni di carne" con i suoi occhi, e li trovo belli anch’io". Il commento di quella donna andava al di là della semplice accettazione, si avventurava sul terreno dell’ammirazione, mettendo in gioco una variabile nuova. E il nostro sguardo sulle persone e sulle cose cambia il rapporto con loro. Per questo CREARE UNA NUOVA ESTETICA SIGNIFICA CREARE UNA NUOVA ETICA. Quando, per es., si smetterà di dire che "un uomo con i capelli grigi è affascinante, una donna con lo stesso attributo è brutta", avremo fatto un passo avanti nella comprensione dei cicli naturali e, forse, nel campo della pari opportunità, tanto per citare un’espressione oggi di moda.

Lilla Consoni

 

Sull’opposizione tra la diarrea e il cancro

Le edizioni Elèuthera hanno da poco pubblicato Il pianeta unico, processi di globalizzazione, un’antologia di Salvo Vaccaro con saggi di 6 autori - tra i quali Rodrigo Andrea Rivas. Pubblichiamo qui un suo scritto non compreso nella citata antologia.

Con quali parametri definire l’economia-mondo nella quale si è inserito il processo di globalizzazione? Semplicemente come quella del libero mercato susseguente alla vittoria indiscussa del capitalismo? O come una sorta di transizione verso l’avvenire, contraddistinta anche dalle sacche di resistenza opposte da qualche sindacato o dai cocciuti partigiani delle rigidità salariali tipiche da uno Stato del secolo XIX? O come quella della vittoria annunciata e certa delle forze del bene che, tuttavia, non possono dispiegare tutta la loro potenzialità perché sono costrette a mantenere alta la guardia per affrontare sia i nemici di cui prima nonché le forze del male sopravvissute, dittatori, popoli, o culture che siano?
Nell’ultima edizione annuale, 1997, del Rapporto sullo sviluppo umano pubblicato dal UNDP (l’organismo ONU che analizza le problematiche legate allo sviluppo), vengono identificati una serie di successi tutt’altro che insignificanti. Si parla infatti dell’aumento del tasso di scolarità tra le ragazze, della diminuzione dell’analfabetismo tra gli adulti, dell’aumento generalizzato sia delle aspettative di vita che delle spese destinate al consumo o della disponibilità complessiva di acqua potabile, ecc.
Si parla anche però, del fatto che gli 800 milioni di persone che vivono nei paesi ricchi (circa il 16% dell’umanità), si dividono l’86% dei consumi privati totali, si pappano il 45% della carne e del pesce, il 58% dell’energia, l’84% della carta, l’87% dei veicoli, il 74% delle linee telefoniche, l’83% del reddito mondiale, il 90% dei risparmi, il 95% dei prestiti bancari commerciali, il 98,2% dei soldi destinati alla ricerca/sviluppo, ecc. E pure questo rapporto conferma che mai peggioramento fu così veloce perché, se "nel 1960, il reddito medio della popolazione che viveva nei paesi ricchi era 30 volte superiore al reddito delle persone che abitavano nei paesi più poveri... nel 1995 era superiore di 82 volte". E forse per evitare che i grandi numeri non ci permettano intravedere il bosco, ci informa pure che la fortuna dei 3 uomini più ricchi del mondo supera il PIL accumulato dei 48 paesi più poveri, che quella dei 15 uomini più ricchi pareggia il PIL di tutta l’Africa al sud del Sahara, che quella dei 32 uomini più ricchi supera il PIL dell’Asia del Sud, che quella degli 84 uomini più ricchi supera il PIL della Cina.... Ci dice sommessamente che con "soli" 40 miliardi di dollari, e cioè con la fortuna personale di Bill Gates oppure il 4% delle fortune dei 225 uomini più ricchi, si potrebbero soddisfare le necessità essenziali di tutta la popolazione del terzo mondo (cibo, acqua potabile, infrastrutture sanitarie, educazione, salute, ginecologia, ostetricia), cosa che riveste una certa urgenza giacché - racconta sempre il rapporto del UNDP - da quelle parti oltre 1000 milioni di persone non mangiano a sufficienza; 2700 milioni non dispongono delle strutture sanitarie di base; 1500 milioni non hanno accesso all’acqua potabile; 1100 milioni non dispongono di una casa; un quinto dei bambini non completa la scuola dell’obbligo e oltre 2000 milioni di persone soffrono di anemia.
Certo, il rapporto del UNDP non stabilisce un rapporto meccanico tra la situazione delle poche centinaia di "paperon de Paperoni" e quella degli oltre 1300 milioni di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno o quella dei 3000 milioni che lo fanno con meno di due dollari al giorno. D’altronde, come non capirli: sono pur sempre una pubblicazione ufficiale dell’ONU!
Non credo necessario né proporvi altre cifre d’insieme né, tantomeno, commentare quelle appena citate. Si traducono in conseguenze, in fatti, che non solo si legano alla lampante diversità dei redditi disponibili, quindi alle condizioni materiali di vita, ma che si rapportino anche ai diritti e ai bisogni, diritti la cui valenza è tutt’altro che universale, bisogni che la globalizzazione delle comunicazioni tende a universalizzare. Il che aggiunge il danno alla beffa. O viceversa.
Cerco di spiegarmi meglio ricorrendo a un fatto della cronaca odierna: al di là dei suoi meriti o demeriti scientifici, tema sul quale non sono in grado di dare un’opinione sensata, osservo infatti che si assiste in tutta Italia a manifestazioni e dibattiti sul diritto a disporre gratis della cura contro il cancro creata dal Professore Luigi Di Bella. Contro il cancro, e cioè contro quella malattia regolarmente definita come la più diffusa e mortale dei nostri tempi. Verifico anche che, nell’Africa, nel 1997, la spesa sanitaria pro capite, annua, è stata uguale a 5 dollari, e cioè a 9000 lire circa. Concludo quindi, mi sembra scontato, che se nell’Italia di oggi si può ragionevolmente pensare che pagare meno ticket sanitari, curarsi liberamente coi soldi pubblici, disporre gratuitamente dei farmaci e delle cure per il cancro o per l’AIDS... costituisce un diritto a tutti gli effetti, nell’Africa - non solo - ciò non è neppure un miraggio.
Facciamo ricorso ancora una volta al rapporto UNDP citato: guardando le tabelle notiamo che la Gran Bretagna si trova al 15° posto nelle classifiche dello sviluppo umano e l’Etiopia al 170° (i paesi analizzati sono 175). Le stesse tabelle ci dicono che nella Gran Bretagna, malgrado si osservi un’accentuata regressione, tutti gli abitanti hanno accesso al servizio sanitario e all’acqua potabile, non esiste l’analfabetismo tra gli adulti, i bambini che muoiono prima di raggiungere un anno di età sono 5000 e tutti i ragazzi frequentano la scuola elementare. E che in Etiopia il 54% della popolazione non ha nessuna forma di accesso al servizio sanitario, il 75% non dispone di acqua potabile, il 64,5% degli adulti è analfabeta mentre il tasso di analfabetismo tra i ragazzi non viene nemmeno osservato, e che oltre 600.000 bambini muoiono senza avere raggiunto il primo anno di età. Quindi, pur se possiamo ragionevolmente supporre che anche in Etiopia qualcuno muore di cancro, risulta assai difficile immaginarsi le strade di Addis Abeba occupate da una folla di malati che esigono. E, pur se nemmeno in questo caso si osservano proteste di strada, risulta assai più ragionevole presupporre che gli etiopici siano molto più preoccupati della diarrea, principale causa di mortalità, nel loro paese e nel mondo.
E poiché discorsi analoghi potrebbero essere imbastiti sul diritto all’infanzia e al gioco, alla sessualità e alla cultura, alla casa, alla lingua e ai trasporti, ecc., mi sembra gioco forza concludere, senza togliere nulla, qui ed ora, al fatto che il diritto a curarsi liberamente e con l’assistenza finanziaria dello stato possa rappresentare o rappresenti un atto di civiltà. Il fatto è che sono proprio il qui e l’ora a definire i cosiddetti diritti umani. E quindi, la loro conclamata universalità rappresenta tutt’al più un’aspirazione.
Tutto ciò non equivale a dire ciò che "Nord" o "Sud" rappresentino concetti univoci. Che sarebbe come dire che ognuno dei presenti è tale e quale un nipotino del "avvocato", oppure che esistono davvero "il sistema Italia", "il sistema Europa", "il sistema Nord" o "il sistema Sud", o che siamo tutti, senza differenze apprezzabili, sulla stessa barca.

Rodrigo Andrea Rivas