Prologo
sul Disertore
Guerra, l’ultimo spettacolo della Compagnia Barboni di
Pippo Delbono, è stato presentato in anteprima l’estate
scorsa, quando ancora non si immaginava che, nel breve trascorrere
di pochi mesi, questo titolo - tanto più in quanto privato
dell’articolo - sarebbe suonato come un urlo, un allarme, un’esclamazione
attonita nell’estremo volgere di un secolo che credeva di aver
detto "mai più" all’orrore delle guerre.
Mentre mi accingo a scrivere, leggo un articolo sul Corriere
della Sera di martedì 25 maggio. A Parigi due allieve
della scuola media di Clermont-Ferrand, al termine della cerimonia
ufficiale di commemorazione della vittoria sulla Germania Nazista,
sono avanzate nella grande piazza e sull’attenti, di fronte
al monumento ai caduti e ai generali col petto decorato di medaglie,
hanno intonato la canzone di Boris Vian intitolata Le Déserteur,
(le cui parole figuravano fra l’altro nella copertina del numero
254 di questa rivista), vero inno internazionale del pacifismo,
scritta nel 1954 contro la guerra francese in Indocina. In seguito
a questo gesto, che il cronista definisce "riuscitissimo
colpo di teatro", e descrive come straordinariamente interpretato
dalle due giovani allieve, la direttrice della scuola è
stata sospesa a vita. Commenta il giornale: "Affidato ai
bambini, il pacifismo è sempre inattaccabile", per
questo la punizione è stata "terribile e rabbiosa".
Le accuse di strumentalizzazione rivolte alla responsabile
di questa iniziativa sono talmente immaginabili che par di sentirle.
Penso ad analoghe accuse rivolte a Pippo Delbono al debutto
di Barboni, nel 1997, lo spettacolo che inaugurava il
lavoro della compagnia allargata, che univa per la prima volta
attori professionisti e persone incontrate per strada o in occasione
di laboratori tenuti in strutture riabilitative o psichiatriche.
Paragono i due fatti perché sollevano interrogativi analoghi
e ricorrenti. Perché - chiedo - tutte le volte in cui
il teatro (sempre più spesso, ma sempre troppo poco)
accoglie individui normalmente esclusi non solo dall’universo
artistico ma anche dalla partecipazione attiva alla sfera dei
rapporti umani e sociali, si parla di strumentalizzazione del
disagio, della sofferenza, dell’handicap, fino ad accuse più
o meno velate di manipolazione e sfruttamento, mentre non suscita
normalmente scandalo la quotidianità della loro condizione,
che è di emarginazione quando non di reclusione e spossessamento?
E perché l’indottrinamento deve essere quello dell’insegnante
pacifista e non quello normalmente impartito dall’educazione
scolastica? Domande.
Il teatro di Pippo Delbono non cessa di rivelare la contraddizione
di un sistema che denuncia possibili strumentalizzazioni di
individui "disagiati" e tace sulla loro normale condanna
al silenzio, e inoltre suscita lo spaesamento, forse l’imbarazzo
e il fastidio di quanti - abitualmente tranquillizzati dalla
finzione teatrale - vedono la vita entrare nel teatro e ne scoprono
la verità incontrovertibile. Come incontrovertibile è
la voce dei bambini.
Dove
non v’è certezza
Vedendo, di recente, il video dello spettacolo
Il Muro, che Pippo Delbono ha creato nel 1990, ho avuto
una sensazione analoga a quella che provo ogni volta che rivedo
The Brig del Living Theatre (il tema ritorna: uno degli
spettacoli più radicalmente antimilitaristi realizzati
a teatro). Spettacoli che, a mio parere, concludevano un ciclo
e preludevano alla svolta. The Brig, nel 1963, rappresentava
una realizzazione insuperabile nel territorio dello spettacolo
formalizzato, ossia dell’interpretazione. Poi il Living azzerò
la forma e non volle più che gli attori fossero interpreti,
abolì il concetto di personaggio e il lavoro sui ruoli.
Lo spettacolo successivo fu Mysteries and smaller pieces.
Gli attori portavano direttamente loro stessi sulla scena. Eseguivano
piccoli misteriosi rituali che li conducevano in una zona di
comunicazione extraquotidiana, alla ricerca di una maggiore
profondità nei rapporti fra gli individui. Anche Mysteries
fu un risultato insuperato, ma questa volta al di fuori del
teatro di rappresentazione. Per spiegare questo passaggio occorre
riferirsi ad Artaud. Il teatro, egli diceva, non deve imitare
la vita ma ricrearla. In questo senso voleva che la rappresentazione
cedesse il posto alla rivelazione: il teatro non doveva fingere
la vita, ma essere gesto di vita e perciò esorcizzazione
dello spettacolo.
Fili si riannodano, si sciolgono e si riallacciano per vie
a volte misteriose nelle vicende del teatro. Il Living ha dato
vita al teatro che Artaud aveva immaginato sotto forma di scritti
e visioni folgoranti, e Pippo Delbono riprende il filo lasciato
dai Mysteries del Living - che lui non credo abbia mai
visto - e spinge più avanti l’esperienza di un’ulteriore
penetrazione nei territori della non rappresentazione.
Ma seguiamo il filo analogamente dipanato da Pippo. Anche
Il Muro - dicevo - ha rappresentato un punto di arrivo:
lo spettacolo riuniva una serie di attori e danzatori fra i
più significativi della generazione, ed elaborava in
forma di drammaturgia collettiva le diverse tecniche e quindi
i rispettivi percorsi formativi. Personaggi solitari disegnavano
storie di solitudine, violenza, separazione in un luogo che
poteva essere "una prigione o forse anche un cortile di
gioco", utilizzando il linguaggio del teatro e della danza.
L’insieme dei riferimenti costruiva l’affresco di un’epoca della
ricerca teatrale che aveva scelto i suoi maestri in Pina Bausch,
Carolyn Carlson, Maria Escudero e il Libre Teatro Libre, Iben
Nagel Rasmussen e l’Odin Teatret. Rivedendo oggi quel video
è evidente (ma non lo era allora) che l’elaborazione
dei materiali tecnici e poetici appresi dai maestri non poteva
procedere oltre quella sintesi di consapevolezza. I maestri
sono un punto di arrivo, non di partenza. Poi, si tratta di
ripartire da sé. Pippo, fortunatamente, l’ha compreso
- incoraggiato anche dalla stessa Pina Bausch che invitava lui,
giovane allievo, a "seguire la sua libertà".
Così, dopo Enrico V (1993), realizzato come spettacolo
fissato e non fissato insieme, in quanto frutto di un lavoro
da ricominciare ogni volta in forma di laboratorio con attori
non professionisti, è La rabbia ad inaugurare
la svolta, siglando l’avvenuto azzeramento della forma spettacolo
appena perfezionata. Scrive Pippo citando Pasolini, cui lo spettacolo
è dedicato: "Ricominciare daccapo, da dove non v’è
certezza". A teatro il daccapo, ossia il grado zero, l’incertezza
assoluta corrisponde alla negazione della condizione primaria
dell’attore in scena: l’investirsi di un personaggio. Rinunciare
all’involucro del personaggio, ossia alla definizione di un’identità
scenica.
Scena e fuori scena si mescolano e si tengono da questo
spettacolo in poi. Gli attori occupano lo spazio dell’azione
(non della rappresentazione) e se ne sottraggono senza soluzione
di continuità. Tutto avviene a vista: le entrate e le
uscite, i cambi d’abito, la direzione della fonica e delle luci,
con la consolle in primo piano a lato della scena… Pippo inizia
lo spettacolo in forma di racconto personale, poi introduce
via via gli attori, che entrano col loro nome, la loro vita,
le loro parole. Una struttura che resterà in Barboni
e in Guerra, radicalizzandosi in senso antiretorico. Così,
se nei Mysteries gli attori interpretavano gli attori,
ossia mettevano al centro della loro azione la profondità
della comunicazione teatrale, nel teatro di Pippo Delbono sono
gli individui a portare loro stessi direttamente sulla scena,
e la loro condizione diventa contenuto della comunicazione.
L’essere persone ferite è parte della comunicazione.
Con, in più, l’allargamento prospettico del teatro che
non consente la dimensione dell’individualità. Le ferite
degli individui si riflettono in quelle dell’umanità
e le chiamano in causa. Per questa via entra il tema della guerra,
già presente in Enrico V e Barboni. Insieme
all’urlo.
La
guerra e l’urlo
Judith Malina parla spesso di urlo (in inglese
outcry) per dire di un gesto teatrale che spezza il patto
di finzione instaurato fra attori e spettatori, producendo uno
shock emotivo destinato a trasformarsi in momento di conoscenza.
E Pippo scrive: "La creazione di Barboni è
stato un totale atto di libertà, ma paradossalmente è
nata da un urlo di disperazione. […] Quando hai toccato il fondo
della sofferenza, stai bene solo con le persone che hanno toccato
il fondo, come te. Per loro l’arte, come per me in quel periodo,
non era una questione di mestiere, era un’esperienza umana fondamentale
per la nostra sopravvivenza, non una routine, ma una necessità
di vita".
In Barboni Pippo Delbono ripete al microfono una
frase che - ricorrendo - diventa grido, percossa, lacerazione:
"Devi danzare nella guerra". La prima volta la frase
è riferita al racconto di alcuni ricordi personali: la
guerra in Bosnia e l’immagine di Lima durante il coprifuoco,
la sera, quando la polizia sparava nelle strade e la gente organizzava
feste e ballava tutta la notte.
Nell’urlo c’è la denuncia della sofferenza, ma anche
la ribellione, in nome di un diritto alla felicità rivendicato
con forza. Esattamente questo sono gli spettacoli di Pippo Delbono,
in particolare da Barboni in poi, da quando cioè
la vita vi ha fatto irruzione senza filtri: schegge di una disperazione
non rassegnata ed esplosioni di una felicità possibile,
semplice, infantile, a portata di mano, come nella poesia di
Bernardo Quaranta, il poeta barbone ("Oggi sono al mare
/ gatti al sole / barche calme / io solo, senza nome / come
il vento / oggi sono felice").
Pippo Delbono non ama si parli in modo pietistico o indulgente
di teatro dell’handicap o del disagio. Le persone che portano
le loro ferite sulla scena portano anche una battaglia personale,
combattuta in nome della gioia e della libertà di esprimersi,
contro un mondo che eleva barriere e steccati, che esclude e
toglie la parola. "Danzare nella guerra" significa
opporre un gesto di poesia e di bellezza alla guerra che il
mondo quotidianamente dichiara alle diversità e che le
persone sofferenti o "un po’ perse per le strade"
si trovano, loro malgrado, a combattere. ("Faccio teatro
perché questa è la bellezza che ho da offrire
contro la distruzione del mondo", scriveva Julian Beck
nei suoi ultimi giorni di vita). E questa guerra non violenta
e gioiosa è vinta, sulla scena, dalla tribù nomade
dei senza diritti, che dimostrano come una straordinaria possibilità
di bellezza possa essere espressa da individui che vivono una
mancanza, un disequilibrio, un limite o, anche, che scelgono
consapevolmente la follia di disertare dall’esistente. In Guerra
Pippo legge una poesia che ha imparato in India, da una tribù
libera, che non appartiene a nessuna casta: "Sono diventato
un folle. / Non obbedisco a maestri e ingiunzioni, non osservo
nessun costume. / Le regole create dall’uomo non hanno presa
su di me. / Godo del canto e danzo con ognuno e con tutti. /
Ecco perché, fratello, sono considerato un folle".
Bobò e Pippo Delbono in Barboni.
La
distanza come valore
Nella parte centrale dello spettacolo, la
guerra esplode in forma non solo privata e non solo metaforica,
a distruggere la scena teatrale nell’unico momento in cui questa
si fa descrittiva, alludendo a un ambiente umano volutamente
standardizzato: una sorta di salottino borghese arredato con
una poltrona, un attaccapanni, un tavolino e poco altro, popolato
di scenette da interno come fossero una serie di sequenze estratte
da telenovelas di bassa lega, un emporio di figurine così
normali da apparire grottesche: la cameriera en travesti,
la signora in abito da sera, il cameriere in frac, il ragazzino
down vestito da marinaretto e guidato per mano da una sorta
di istitutrice kapò, la cantante lirica, la danzatrice
classica in tutù (ma si tratta di un uomo), l’uomo-statua
immobile su una predella, e Bobò - l’uomo bambino strappato
da quarant’anni di manicomio - in frac e scarpe da ginnastica
che dirige il crescendo musicale. Il segnale di inizio della
sarabanda è dato dall’ingresso di Pierino vestito da
militare, con bastoni branditi come armi. La normalità
produce in un attimo i propri mostri. La cameriera diventa un’altissima
figura sui trampoli che semina morte. Corse pazze, sangue che
imbratta cose e persone, urla mute, bocche spalancate, nudità
esibita in una specie di frenesia sadomasochistica. Pippo urla
nel megafono un brano del Buddha che descrive uno scenario da
apocalisse e parla di come il mondo produrrà da se stesso
la propria distruzione: "…più della metà
della popolazione è stata falciata dalla morte, non c’è
una sola persona che non pianga un lutto, ovunque si guarda
si vedono mendicanti e morti, e cadaveri gettati uno sull’altro
formano cataste alte come torri, o allineati a fianco a fianco
in file lunghe come ponti… enormi incendi… inondazioni… piovono
montagne di terriccio… il cielo e la terra sono colpiti da un
caldo che arroventa l’aria, le erbe appassiscono, i cereali
cessano di crescere… dappertutto esplodono conflitti, tutte
le cose rovineranno al suolo, rami, radici, foglie, petali e
frutti perderanno il sapore… Finché non rimarrà
più niente in vita". Potrebbe essere la descrizione
del disastro nucleare (ossia di ogni guerra a contenuto radioattivo
oggi combattuta), come la descrizione della peste di Artaud
(ossia di tutti gli scenari di morte in cui l’uomo aggiunge
orrore ad orrore).
All’inizio dello spettacolo, prima di sbracare e inzuppare
gli abiti, prima della danza sfrenata, del sudore, delle armi
e del sangue, ancora in ordine nel suo completo distinto ("questo
vestito è di Pierre Cardin"), Pippo aveva evocato
immagini e racconti di guerra e di malattia. La descrizione
di Sarajevo fattagli da un ragazzo che ha visto "il ferro
diventato vulnerabile come carne" e poi "una città
intera andata in collera" e "le persone diventate
mostri". Il ricordo personale dell’ospedale: "Ho visto
che io diventavo un mostro. Che potevo uccidere. Che potevo
uccidermi".
Alla mostruosità della guerra che provoca distruzioni
dentro e fuori gli individui la risposta è la pacifica
battaglia quotidiana, combattuta da ciascuno per uno spazio
di espressione gioiosa e autentica della propria diversità.
E’ questo che fa più scandalo nel teatro di Pippo. Il
suo teatro non dissimula la marginalità o il disagio,
non rappresenta una forma di riscatto per gli attori, né
un modo di accorciare le distanze fra la loro condizione e i
normali modelli di vita e di espressione artistica. Piuttosto,
la distanza è assunta come valore, lo spazio prezioso
nel quale costruire un proprio stare, attraverso un linguaggio
personale, poetico ed emozionante. Gianluca, il ragazzino down
entrato nella compagnia dopo essere stato allievo della mamma
di Pippo, canta in playback una canzone di Cristina D’avena
dimenando una chitarra rosa di gomma ("Credi in te e va’
per la tua strada"); Armando, il ragazzo poliomielitico
incontrato a vagabondare per le strade, nello spettacolo usa
le stampelle come fossero un mitra, seduto per terra, per poi
librarle nell’aria facendole danzare come ali, mentre pronuncia
la frase del Che: "Una grande rivoluzione non può
che nascere da un grande sentimento d’amore"; Nelson, il
poeta barbone americano trovato a dormire in stazione, danza
come gli piace e recita una sua poesia evocando le spiagge della
California; Bobò, che è ormai diventato l’emblema
della compagnia (e che Pippo, senza alcuna ironia, descrive
come un maestro di teatro), il piccolo uomo "destinato
ad essere sempre un bambino" - come hanno detto i medici
del manicomio di Aversa nell’affidarlo alla compagnia - a un
certo punto è seduto su una cassa attorno alla quale
ha raccolto tutto il suo piccolo mondo di oggetti di cui per
quarantacinque anni gli è stato vietato il possesso,
e gioca con un aeroplano che fa volteggiare sul suo capo…
Si intitola guerra e mette in scena una rivoluzione: l’affermazione
della poesia e della bellezza in esistenze emarginate o offese.
"Non voglio più sapere niente della guerra",
concludeva Pippo in apertura, rivolgendosi idealmente al ragazzo
di Sarajevo: "Ho visto una foto in un libro. Hiroshima
era completamente coperta di fiori". Bobò commentava,
portandosi sul proscenio con un’enorme composizione di fiori,
ed era il segnale perché ciascuno potesse finalmente
danzare la propria ferita… Alla fine di Barboni Mr Puma,
il cantante rock ipercinetico, piantava rabbiosamente dei fiori
sul bordo estremo della scena sulle note della canzone di De
André: "…Dai diamanti non nasce niente, dal letame
nascono i fior…". La verità di questo teatro consente
l’assenza di ogni pudore: spudorata l’introduzione di questa
canzone, e spudorate - a modo loro - molte delle scene già
descritte, ma soprattutto quella che chiude Guerra. Bobò
vestito da Pierrot e Gianluca vestito da clown disegnano nell’aria
le parole della canzone che cresce in sottofondo, Il vecchio
e il bambino di Francesco Guccini, e così dialogano
muti, raccontandosi con serietà cose antiche e future.
Il teatro è tutto in piedi ad applaudire il barbone,
il piccolo uomo microcefalo, il poliomielitico, il ragazzo down,
le attrici, gli attori, il regista. Un tempo sospeso nel ribaltamento
di ogni regola. Qui si accetta la verità semplice espressa
da una tribù di eterni bambini… Fino a quando durerà
il cambiamento?
"Domani di buon mattino chiuderò la mia porta
agli anni morti e me ne andrò per le strade… Sulle strade
di Francia, dalla Bretagna alla Provenza dirò alla gente
‘rifiuta di obbedire’", hanno cantato le due allieve di
Clermont-Ferrand.
La tribù di Pippo Delbono ha già scelto la
propria diserzione, come a suo tempo il Living Theatre. Lo fa
notare Franco Quadri nell’introduzione al libro appena uscito
(Barboni. Il teatro di Pippo Delbono): "Recitare
come si respira e per stare insieme, dopo che ci si è
trovati: il complesso è e vuol essere l’espressione di
un gruppo comunitario vagante, come il Living, in cui s’entrava
per cambiare il mondo creando un nuovo alfabeto della scena,
senz’altra casa che sei pulmini Volkswagen".
Cristina Valenti
P.S.
Poiché in questo scritto ho seguito in particolare
l’esperienza della compagnia allargata, formatasi nel 1997 con
lo spettacolo Barboni, mi sono trovata a trascurare molti
dei componenti storici della compagnia, e soprattutto Pepe Robledo,
l’attore argentino proveniente dal Libre Teatro Libre, che ha
fondato con Pippo Delbono nel 1987 il primo nucleo della compagnia,
allora denominata, per l’appunto, Robledo-Delbono. Pepe continua
ad avere un ruolo fondamentale nel gruppo, nel quale lavora
non solo come attore ma anche come tecnico delle luci e del
suono; a lui è inoltre affidato gran parte del lavoro
pedagogico. È nelle mie intenzioni scrivere, prossimamente,
della conferenza-spettacolo di cui è autore, intitolata
Cajas, nella quale racconta la sua esperienza di teatro
politico in Argentina fino al colpo di stato militare e alla
scelta dell’esilio in Europa. Insieme a Pepe Robledo, voglio
qui ricordare soprattutto l’attore Gustavo Giacosa e il musicista
e attore Piero Corso.
Sopra: la copertina del
libro Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, appena uscito
presso la casa editrice Ubulibri di Milano. Il volume contiene
un’Introduzione di Franco Quadri, una lunga intervista a Pippo
Delbono realizzata da Alessandra Ghiglione (curatrice del libro),
e un testo di Oliviero Ponte di Pino, a corredo delle bellissime
fotografie di Guido Harari. Da questo volume sono tratte tutte
le citazioni fra virgolette contenute nel presente articolo.
Ringraziamo Franco Quadri per avercene fornito copia ancor prima
che fosse in distribuzione.
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