rivista anarchica
anno 29 n.259
dicembre 1999 - gennaio 2000


L'estatica ragione della libertà
Colloquio con Giampiero Moretti
di Franco Melandri

"La questione della libertà è sempre stata una sorta di rompicapo".

 

Nel cuore dell'anarchismo c'è indubbiamente la libertà, ma è proprio in questo cuore che si nascondono i problemi. Come molti hanno infatti notato, la libertà risulta difficilmente definibile ed è per questo che, se cerchiamo di comprenderla unicamente dal punto di vista razionale, ci troviamo di fronte ad una selva di problemi: la libertà è chiaramente racchiudibile in un concetto o è, all'opposto, una modalità dell'"essere nel mondo" al di là di qualsiasi possibilità di concettualizzazione? La libertà, inoltre, è espressione dell'"interiorità" che ogni essere umano si ritroverebbe già data fin dalla nascita o è invece l'inesausta ricerca di un ethos, cioè, come recita l'etimologia di tale termine, del "luogo di soggiorno abituale dell'uomo sulla terra"? E ancora: la libertà riguarda essenzialmente l'individuo o è primariamente una condizione sociale?
Problemi immensi, cui dare una risposta definitiva non è forse possibile, ma che proprio per questo non possono che spingere alla ricerca, alla continua interrogazione, magari tenendo presente che, come diceva Evgenj Zamjatin nella distopia Noi, la via per comprendere è spesso "la via dei paradossi-l'unica via degna di una mente impavida".
Tutto questo, e altro ancora, è al centro della conversazione con Giampiero Moretti, filosofo, docente di Estetica all'Istituto Universitario Orientale di Napoli.
Moretti, oltre ad essere il curatore delle edizioni italiane di molti testi dello studioso del mito Walter Friedrich Otto e di opere di Hölderlin, Klages, Schelling, Novalis, ha fra l'altro pubblicato:
Heidelberg romantica. Romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Cosmopoli 1995; e Il genio, Il Mulino 1998; Il poeta ferito. Holderlin, Heidegger e la storia dell'essere, La Mandragora 1999.

La libertà è indubbiamente un "luogo" in cui il pensiero occidentale sembra perdersi.
Di libertà, infatti, si parla fin dall'antica Grecia, ma già da allora la definizione di cosa intendere con tale termine si è mostrata ardua, tant'è che gli svariati tentativi di concettualizzarla si differenziano fra loro tanto per gli assunti su cui si basano quanto per gli esiti cui conducono. Questa molteplicità sembra paradossalmente contraddire la chiarezza del significato semantico della parola: "libertà" è "avere in sé la propria origine" e, conseguentemente, avere in sé i propri fini e
non avere limitazioni nel poterli esplicare...

Certamente la questione della libertà è sempre stata una sorta di rompicapo. Le filosofie, religiose o atee, che hanno a che fare con la questione della libertà sono molte - e spesso, come ricordavi tu, fra loro contradditorie -, ma va sottolineato che tale molteplicità contradditoria nasce proprio dal senso da attribuire al significato del termine: se, infatti, "libero" è chi ha in sé la propria origine, e quindi i propri fini, vuol dire che è libero solo chi può fondarsi su se stesso, chi nel suo essere non deve nulla a nessuno, ma chi è un tale essere? Non certo l'uomo, che, per dirla molto elementarmente, non deve a se stesso né la sua nascita né i modi con cui arriva a pensare la sua stessa esistenza. E' per questo che, schematizzando, molti pensatori sono giunti a sostenere che libero è propriamente solo dio, mentre quella che gli esseri umani chiamano "libertà" non è veramente tale in quanto nasce dalla limitatezza umana, che impedirebbe di cogliere come tutto sia già preordinato da dio o, nel caso di molti pensatori atei, dal concatenarsi necessario e meccanico delle cose.
Già da questi pochi accenni risulta chiaro come, nel pensiero occidentale, la questione filosofica della libertà sia strettamente intrecciata alla questione dell'"essere" ed è proprio al cuore di questo intreccio che vanno quelle che, a mio parere, sono le riflessioni più radicali compiute attorno alla libertà: quella attuata dal pensiero romantico e quella di Martin Heidegger, senza tuttavia dimenticare la rivoluzione portata da Nietzsche, che ha scardinato le tradizionali categorie della metafisica e che, quindi, ha non pochi riflessi anche sul tema della libertà.
Per comprendere la portata di tali riflessioni occorre innanzitutto aver presente che per il romanticismo, l'"essere", o dio, non si dà agli uomini in modo chiaro e compiuto, ma è una sorta di "fondamento oscuro" che, pur costituendo quel che gli esseri umani sono, essi devono continuamente interrogare senza presumere di poterlo mai afferrare compiutamente. È nello spazio che si crea attuando tale interrogazione che, per un pensatore emblematico del romanticismo come Schelling (che alla libertà dedicò alcune delle sue riflessioni più importanti), si dà la libertà umana, la quale, in tal modo, da un lato è rapporto con quanto ci costituisce, pur trascendendoci e non dipendendo da noi, mentre dall'altro lato è azione, come tale trasformatrice del mondo. Per Schelling, pertanto, il centro di tutto, il "luogo" della libertà, risultava essere la soggettività dell'individuo, una soggettività centrata su se stessa e in grado di ordinare il mondo.
Con Nietzsche, invece, quello che viene fortemente criticato, fino a dimostrarne l'insussistenza, è proprio l'idea che possa esistere una soggettività umana in qualche modo fondata su di sé. Ma è proprio questo a far sì che la libertà cominci a diventare, dal punto di vista filosofico, un problema irriducibile alle categorie della metafisica con cui si era sempre provato a pensarla. Se, infatti, per spiegare ciò che viene chiamata "libertà" o "azione libera" non si può fare affidamento né su un'interiorità che, con una sua "consistenza" specifica, contraddistinguerebbe tutti gli esseri umani, né su principi assoluti, metafisici ed eterni - come possono essere l'idea di essere o l'idea di dio -, diventa immediatamente evidente che ciò che viene chiamata "libertà" si rivela difficilmente identificabile e spiegabile.
E' avendo presente tutto questo che Heidegger, nel 1930, affronta la questione con la conferenza Sull'essenza della verità. In essa, riprendendo alcuni motivi del romanticismo, sottolinea come vi sia un rapporto strettissimo fra libertà e verità in quanto, per dirla con le sue parole: "La libertà (_) non è solo ciò che il senso comune lascia volentieri intendere con questo nome, e cioè l'arbitrio a volte emergente che nella scelta si butta ora da un lato, ora da un altro. La libertà non è l'indipendenza del poter fare o non fare qualcosa. La libertà non è neppure la semplice disponibilità per un che di richiesto e necessario (e quindi per un qualche ente). La libertà è prima di tutto ciò (prima della libertà "negativa" e di quella "positiva") il lasciarsi coinvolgere nello svelamento dell'ente in quanto tale. La svelatezza, a sua volta, è custodita nel lasciar-si coinvolgere e-sistente (...)".
Ora, per ben comprendere quel che Heidegger intendeva dire, occorre aver presente cosa si intende con la parola/concetto "verità", che è appunto il tema della conferenza heideggeriana. A questo proposito Heidegger sottolinea che la verità, così come normalmente la intendiamo, deriva dal greco alètheia, che vuol dire "disvelamento". Per i Greci, ciò che nel disvelamento si rivelava era totalmente indipendente dall'uomo il quale, pertanto, non poteva che adeguarsi completamente a quanto gli si mostrava una volta avvenuto tale disvelamento. Chiarito questo Heidegger mostra come, a partire da questi presupposti, il concetto di verità abbia via via mutato di significato fino ad assumere, soprattutto nella modernità, il senso di "costruzione" di qualcosa, per cui la "verità" altro non è, oggi, che un concetto, un "oggetto mentale" frutto del principio di non contraddizione. A questo punto Heidegger si chiede cosa abbia portato a tale cambiamento e cosa esso significhi, concludendo che, in fin dei conti, questo mutamento è dovuto allo stesso darsi del rapporto fra l'essere umano e la verità/disvelamento. In altre parole, quel che Heidegger sostiene è che certamente la libertà ha che fare con la verità, ma questo "aver a che fare" non è un semplice adeguamento dell'essere umano a quanto gli si mostra, bensì una sorta di "apertura" dell'umano corrispondente alla continua apertura dell'essere, quindi della verità. Un "essere", e quindi una "verità" che, come emerge da quanto Heidegger dice, non si manifesta mai come ente/oggetto definito da quanto correntemente chiamiamo "oggettività", ma, appunto, come continua "apertura", quindi come continuo darsi e differirsi, per cui la "verità" è certo "rivelamento", ma anche, altrettanto certamente, "ri-velamento". Per questo, aggiungeva Heidegger, non è possibile rapportarsi alla libertà se non attraverso una "apertura estatica", cioè con un atto di pura "apertura all'essere". Quel che Heidegger mostra, in sostanza, è che lo "stare" dell'essere umano di fronte alla verità, cioè il rapporto costitutivo dell'essere umano con la verità, è costitutivo della verità stessa e quindi della libertà, perché lo "stare aperto" di fronte al manifestarsi dell'essere come tale, necessita di una esperienza vissuta di questo "stare", non è un semplice adeguamento al risultato di una teoria. Anche se a me pare che in questa "apertura estatica" venga meno la dimensione della sensibilità e del sentimento come portatori di verità e quindi di libertà - dimensione che i pensatori romantici avevano invece messo in luce nelle loro riflessioni- quel che emerge con forza dalla conferenza di Heidegger è la questione della "teoria", cioè della "visione non contradditoria". Quello che, lentamente ma decisamente, viene infatti meno con i romantici e poi con Nietzsche ed Heidegger è il collegamento fra verità e principio di identità, quindi fra libertà e principio di "ragione fondante", che è la ragione "naturale" fondata sul principio di non contraddizione. È in questo venir meno che si radica la possibilità, identificata appunto dai romantici, di una "ragione poetica" che mostri la duplicità, la contradditorietà, della verità, la quale, proprio per questa sua duplicità, dischiude anche il rapporto fra l'uomo e la libertà.
Un rapporto "poetico" con la verità è, per esempio, quello in cui ci si pone in rapporto col mondo, con le cose, vivendo sperimentalmente questo rapporto, quindi facendo continuamente esperienza di esso come di un rapporto mai dato e fissato una volta per tutte. È in questo rapporto "sperimentale/esperienziale" che si dà per ognuno una propria esperienza della libertà che, pur restando "propria", tuttavia apre al resto dell'umanità e del mondo.

 

Il luogo dell'amore

Quindi, se capisco bene, la libertà dell'essere umano si dà primariamente nello spazio che si crea nel momento in cui esso da una parte riconosce di essere compreso in "qualcosa" che gli sfugge, quando cioè riconosce di essere una "creatura" e quindi diventa consapevole di non potersi "fondare" su se stesso, ma, dall'altra parte, quel "qualcosa" in cui è compreso non è a lui esterno e dato una volta per tutte, ma dipende dal suo agire e dal suo fare esperienza. Tutto questo, in altre parole, mi pare significhi che l'assoluta determinazione cui l'essere umano è da sempre consegnato, cioè la sua mortalità e la sua storicità, è però anche la condizione di possibilità della sua libertà. Questa concezione, però, non finisce per contraddire il significato etimologico di libertà...

In effetti a una analisi superficiale può sembrare che vi sia una contraddizione insanabile fra questa idea di libertà e quel che dicevo prima, ma, rimanendo alla conferenza di Heidegger, sono convinto che proprio quel che egli dice mostri, al di là dell'osticità del linguaggio, come questo "lasciarsi coinvolgere nello svelamento" non sia una dimensione che vede l'essere umano passivo, ma sia anzi la dimensione più attiva possibile, proprio perché quel che si svela non è indipendente dall'essere umano, ma lo coinvolge come coinvolge il suo agire, per cui, se da un lato la libertà non può essere intesa come "invenzione" distaccata da tutto e tutti, è anche vero che, dall'altro lato, essa si rivela come un agire che corrisponde, coinvolgendolo, al disvelarsi dell'essere, è quindi un'azione, il cui senso si svela via via nell'agire stesso, implicata negli accadimenti del mondo che essa stessa costituisce.

Intendendo in questo senso la libertà, si può dire che l'"aver in sé i propri fini", che nella tradizione dell'Occidente è stato prevalentemente inteso come il fatto che "libero" è chi non deve rendere conto a nessuno del suo agire (la qual cosa ha poi significato che in nome della libertà si è giustificato tutto e il contrario di tutto), altro non è che la ricerca continua di un ethos, cioè di un "modo di essere", di "stare" e di agire, che continuamente si confronta e "apre" la storicità cui pure siamo consegnati. Tutto questo certo indica una strada per quanto riguarda il problema della libertà del singolo essere umano, ma lascia aperto il problema della libertà collettiva...

Su questo piano mi pare che il problema, come sottolineavi tu, nasca dal fatto che mentre da una parte pensiamo la libertà in termini di identità e non contraddizione, dall'altra non è possibile dare di essa un significato univoco - non è un caso, infatti, che essa non abbia lo stesso significato per tutti - la qual cosa significa che, in fondo, ci sarebbe una specie di "incomunicabilità della libertà", quindi anche dei modi di essere, delle azioni e, al limite, anche delle stesse comunità, che sulla libertà pretendono di poggiare. Mi pare insomma che, mentre l'idea di libertà viene continuamente sbandierata, questa stessa libertà non si riesca a trovarla da nessuna parte e questa impossibilità a trovarla dipenda proprio dal fatto che la libertà cui ci si riferisce rimane all'interno del ragionamento logico. Se è così, il punto diventa allora quello di indagare, o per lo meno cercare di riflettere, su che cosa possa essere l'esperienza della libertà e se, e in che misura, tale esperienza sia comunicabile.
In questo percorso ecco che il fenomeno romantico torna ad avere un senso anche per noi, perché ci costringe ad interrogarci a fondo sul significato di parole come "esperienza" e "comunicabilità", e quindi ci costringe a fare i conti col problema di un linguaggio che si ponga aldilà del principio di identità e di ragione, un linguaggio che non faccia più perno sulla "ragione naturale" ma sull'elemento sentimentale, che è la chiave per intendere questo aldilà.
Capisco che, detta così, la cosa possa sembrare fumosa, ma bisogna anche rendersi conto che quel che intendo dire ha, costitutivamente, un limite di dicibilità dato proprio dal fatto che, essendo il nostro linguaggio ordinato dal principio di non contraddizione, tutto quanto si pone oltre tale limite non può appunto essere detto dal linguaggio stesso. Quanto si pone oltre ai limiti del linguaggio è primariamente il "sentimento", intendendo con ciò non la sfera più propria e più intima dell'individuo -perché, se così fosse, l'idea di libertà che ne scaturirebbe poggerebbe proprio su questa dimensione soggettiva e meno "comunicabile"-, ma la costante e contemporanea esperienza del proprio e del rapporto dell'essere umano con ciò che egli non è. E' in questa sfera, che è prima e dopo la dicibilità e il concetto e di cui ciascuno di noi fa esperienza, ad esempio nell'amore, che mi pare stia il "luogo" della libertà come esperienza da un lato "vera", in quanto, appunto, riguarda tutto il nostro "più proprio", e dall'altro comunicabile, cioè in qualche modo partecipabile dal resto degli individui.

 

Una certa idea

È indubbio che quel che sentiamo come "più proprio" sia la nostra mortalità, che però è anche quel che ci accomuna agli altri. L'essere umano, in questo senso, esperisce la sua singolarità sempre come soglia di una universalità: il mio essere mortale è anche l'essere mortale di tutti, ma, proprio nel darsi di questa esperienza singolare-universale, si apre il problema del costitutivo "essere in comune" degli esseri umani. L'"essere in comune" degli esseri umani, infatti, altro non significa che l'essere tutti appartenenti ad una comunità/società, quindi ad una specifica temporalità. Ma essere consegnati ad un tempo significa anche essere radicalmente separati da quanti quel tempo non condividono, per cui la nostra temporalità non è una particolarità che contraddice l'universalità di cui stiamo parlando?

Mi verrebbe da dire che l'universalità dell'esperienza della libertà è una sorta di "universale mitico" perché è il "luogo" in cui tempo ed eternità, per usare due termini estremamente abusati e su cui occorrerebbe a lungo ragionare, trovano una loro "puntualità" e si incontrano, modificandosi continuamente.
È in questo senso che la "puntualità della libertà" è un "universale mitico" poiché, in maniera per noi inesplicabile (inesplicabile dal punto di vista della razionalizzazione, che presume che da ogni esperienza si possa ricavare un concetto chiaro), è in quel momento "puntuale" che individuo e comunità sono messi assieme, anche se di tale accomunamento non può darsi una teoria, perché, nel momento in cui quella esperienza accade, essa già "apre" una comunità, che in tal modo è già un'opera, un fatto, il quale, a mio modo di vedere, in quanto tale non ha bisogno di alcuna teorizzazione, perché un tale tipo di comunità vive di, e in, quell'esperienza.
Ora, se tutto ciò da una parte può spiegare un modo di essere e rende intuibile come ci sia un punto di contatto fra quelle che normalmente chiamiamo "libertà interiore" e "libertà collettiva", è altresì indubbio che, dall'altra parte, tutto questo si pone in rotta di collisione con la storia dell'Occidente. Essa, infatti, ci dice che la libertà che conta non è tanto una dimensione esperienziale, ma che è frutto di un progetto. La radice di questa divaricazione mi sembra stia in questo: mentre quel che io sto cercando di indicare implica chiaramente che l'esperienza della libertà non può essere uguale per tutti proprio perché gli esseri umani sono fra loro diversi, con storie ed esperienze diverse, la dimensione "occidentale" della libertà è una dimensione che, partendo dal diritto romano e arrivando fino a noi, mantiene inalterata la sua caratteristica di fondo, cioè un'idea astratta dell'essere umano, rispetto alla quale si crea appunto un modello che viene considerato valido attraverso tutta la storia.
Rispetto a questo modello, che "funziona" ed ha innervato varie epoche della storia umana, la problematicità di quanto stiamo dicendo sta nel fatto che l'esperienza della libertà si sottrae proprio alla logica del funzionamento, sottraendosi, almeno in parte, alle tre dimensioni portanti di tutte le culture, non solo di quella occidentale. Queste dimensioni sono il diritto, la morale (o l'etica) e la religione, dalle quali l'esperienza della libertà si sottrae perché, nel momento in cui si dice che essa è in qualche modo esperibile o vissuta caso per caso, non può che prescindere da costruzioni così vaste e quindi diventa impossibile, al loro interno, far sì che l'universale e il particolare si incontrino, per cui tutto sembra scindersi in una miriade di particolarità inconciliabili fra loro.
Credo però che questa aporeticità molto dipenda dal fatto che universale e particolare vengono pensati, nella costruzione della teoria della libertà così come l'ha pensata l'Occidente, a partire dal principio di identità e di ragione "naturale", per cui l'universale non può in alcun modo essere particolare e viceversa. In quello che cercavamo di dire prima circa l'esperienza della libertà, invece, universale e particolare assumono un significato diverso poiché principio di identità e principio di ragione vengono posti in crisi; è per questo che accade che l'esperienza assolutamente singolare sia anche, come appunto nel caso della morte, assolutamente universale. È in questo tipo di esperienza che, come si diceva prima, verità e libertà si relazionano in maniera diversa da quella che il pensarle teoricamente fa apparire, ed è in quel momento che, pure se va in crisi il modello teorico libertà-comunità-funzionamento, non per questo va in crisi l'idea di libertà o l'esperienza della libertà. Va in crisi una certa idea di libertà, una certa esperienza della libertà.
Mi rendo conto che tutto quello che sto dicendo è estremamente parziale, ma credo anche che questo derivi dal fatto che, come ho più volte sottolineato, non può esistere una teoria dell'esperienza della libertà. La libertà e l'esperienza della libertà, non possono, in realtà, mai darsi in una teoria e quindi non possono stare in una soluzione pensata progettualmente perché non sono mai fuori dall'opera stessa, cioè dal loro stesso farsi. Voler fare una teoria della libertà è come voler fare una teoria della coppia o della buona riuscita di un matrimonio: non esiste una teoria della buona riuscita di un matrimonio, esistono matrimoni ben riusciti o coppie che stanno bene assieme e ugualmente esistono opere che si palesano di per se stesse come opere. La libertà è un'opera che si mostra e vive solo nel suo darsi continuo.

 

Una sorta di ritmo

Mi pare che tutto quel che stiamo cercando di dire sia rintracciabile, ad esempio, nella pratica di lavoro degli artigiani di un tempo, per i quali la possibilità di fare o meno una data cosa, un dato oggetto, era determinata dal "rispetto" della materia con cui lavoravano, che la loro pratica trasformava "accompagnandola", cioè facendo attenzione a non snaturarne l'intima natura. Questo "accompagnare" è certamente, almeno da un certo punto di vista, un essere sottomesso, perché deve adeguarsi a ciò che gli è esterno, ma è da questa "sottomissione" che emerge la possibilità di far emergere la forma, di plasmarla. Mi pare che questo tipo di pratica, questo essere contemporaneamente fatti dal mondo ma anche costruttori del mondo, visualizzi bene quel che tu dici quando parli dell'esperienza di istanti che possono anche essere fra loro contradditori. A questo mi sembra che si attagli bene anche un'altra questione, e cioè che, come credo sia capitato a tutti, l'esperienza della libertà si dà sempre al passato, perché tu ti rendi conto di essere libero nel momento in cui l'istante della libertà è già passato, e appunto per questo ne hai fatto esperienza, ed il desiderare la libertà altro non è che il cercare di far sì che quell'attimo si riproponga, che si prolunghi, anche se, nel momento in cui cerchi di ricostruire le medesime condizioni che hanno permesso quell'esperienza, scopri anche che essa non può riproporsi nello stesso modo...

Il centro del ragionamento che fai sta in una parola, guarda caso tipicamemente romantica, che è "contemporaneamente", una parola che è centrale per il discorso che stiamo affrontando.
Che l'esperienza della libertà sia anche l'esperienza del "contemporaneamente", secondo me, sta proprio nel fatto che soltanto una "ragione sentimentale" è in grado di mettere in rapporto essere e divenire, o, in altri termini, principi universali ed esperienza particolari. La difficoltà di visualizzare quello che sto dicendo - che finora, me ne rendo conto, è anch'esso un ragionamento teorico - sta nel piano su cui il contemporaneamente avviene perché è un piano cui non si accede tutti allo stesso modo, né allo stesso tempo, anche se è in esso che si situa la comunicabilità di fondo. È come una sorta di ritmo, al quale si partecipa, si è partecipato o si parteciperà. Fuori da questa immagine non mi sembra ci sia una ulteriore possibilità di visualizzare quel che sto cercando di dire, o se c'è io non riesco a trovarla. Bisognerebbe forse ricorrere alle parole di qualche poeta...

Il richiamo che fai al ritmo e la questione del "contemporaneamente" mi fanno venire in mente l'immagine della jam-session così come la praticavano, e ancora in parte la praticano, i jazzisti. La jam-session nasce quando alcuni musicisti cominciano a suonare per il puro piacere di farlo, ognuno col suo stile, ognuno ricorrendo ai temi che gli sono più congeniali. Nel corso della jam-session - in cui il numero dei musicisti varia e alcuni escono mentre altri si aggiungono - ogni musicista cerca di mantenersi, o inserirsi, nel contesto che si va via via creando senza perdere la sua specificità cosicché la jam-session è un incontro di individualità che tuttavia non ha un "autore", nemmeno collettivo. Come dice il termine stesso, la jam-session è una "marmellata" il cui "sapore" è dato dalla capacità degli elementi di amalgarsi senza scomparire, o perdere di specificità, nell'insieme, come invece capita nella musica di tradizione occidentale, che è pensata ed eseguita a partire dall'idea della totalità, dell'insieme in cui le singole parti scompaiono.
In questo modo la jam-session è, "contemporaneamente" appunto, tante parti, ognuna delle quali è a suo modo un'opera, ma mai un'opera concettualmente compiuta perché virtualmente non ha inizio e non ha fine, quindi non può essere intesa come opera-oggetto...

L'immagine della jam-session mi sembra molto puntuale (e, guarda caso, la questione del "puntuale" era una di quelle cui si accennava precedentamente), e ad essa mi sembra si debba aggiungere che il farsi della jam session, che ad un occhio superficiale può apparire caotico, risponde invece a delle regole. In quello che dicevo prima il problema delle regole è rimasto in ombra, mentre emerge chiaramente dagli esempi che hai fatto, perché sia l'artigiano che il musicista jazz seguono delle regole ben precise nel loro fare. Certamente queste regole non sono dello stesso tipo delle regole sociali o delle leggi, sono, per così dire, delle "regole poetiche", perché, proprio come nella poesia propriamente detta, prevedono un'esperienza in cui il logos non si dà solo come "ragione".
Non conosco molto bene le procedure dei musicisti jazz, ma da quel che conosco mi pare emerga anche il fatto - che secondo me è un caso di libertà nel senso in cui ne abbiamo fin qui parlato - che il tema così come è "lavorato" dal suonatore X può essere percepito come inaccessibile dal suonatore Y - magari perché non lo "sente" o perché lo trova troppo difficile per le sue capacità -, il quale, a quel punto, non tenta di sovrapporsi a quel tema con qualcosa che in qualche modo risulterebbe come una caricatura e che comunque romperebbe quella bellezza, ma può scegliere di accompagnarlo, di ornarlo, di armonizzarlo. In questo senso il musicista Y si sottopone spontaneamente ad una esemplarità superiore, riconosciuta e sperimentata come tale, ma questo spontaneo sottoporsi non è un subire, un essere oppresso, bensì è anch'esso un'esperienza di libertà come apertura a quanto lo trascende, quindi anche come disposizione ad accogliere l'altro e la superiorità dell'opera altrui.

 

Perdere il tram

Rimanendo nell'esempio delle jam-session, non solo quel che tu dici accade, ma proprio quell'accadere mostra quel che, ad una logica del tutto razionale, può apparire come un paradosso e cioè il fatto che in quello spontaneo adeguarsi ad una superiorità, ad una autorevolezza, si apre la possibilità che il musicista Y elabori un linguaggio, un modo specifico, che risulta a sua volta inaccessibile per il musicista X, il quale deve a sua volta riconoscere quella nuova autorevolezza, che in tal modo, fra l'altro, risulta incommensurabile con l'autorevolezza precedente, e quindi non la nega, semplicemente la affianca, mostrando la nuova dimensione di un fare che rimane comune...

Certo, il riconoscere questa autorevolezza, l'adeguarsi ad essa, non è un sottoporsi in senso autoritativo, il "tenere il ritmo", insomma, è una modalità del rapporto. Una modalità che, secondo me, accade spesso in molte esperienze di libertà e soprattutto accade lì dove avviene un'apertura autentica, che non è mai un puro e semplice "stare alla pari" su un piano astratto, statico, ma è sempre la ricerca di un equilibrio su un piano mobile.
Ora, la mobilità del piano altro non è, in fondo, che la costante mutazione dei rapporti che rende possibili delle aperture rispetto alle quali ciascuno conosce il tempo per introdursi. Se manca, e se si manca, quell'apertura, si è mancata l'occasione della libertà, perché si è mancato l'incontro con se stessi dal punto di vista dell'autenticità, quindi si è mancato il proprio rapporto con la verità e con la libertà. È come perdere un tram: non sapremo mai cosa ci sarebbe accaduto se lo avessimo preso, come ci avrebbe trasformato e quindi come avrebbe trasformato il mondo.

a cura di Franco Melandri

bibliografia

AAVV, Il prisma e il diamante, l'Antistato, 1991

Joachim E. Berendt, Il libro del jazz, Garzanti, 1973

Benjamin Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Editori Riuniti, 1992

Geoff Dyer, Natura morta con custodia di sax, Instar-libri, 1993

Martin Heidegger, Dell'essenza della verità; in Segnavia, Adelphi, 1987

Friedrich W. J. Schelling, Ricerche filosofiche sulla essenza della libertà umana, Laterza, 1974