L’ultimo articolo di Pietro Adamo “Materialismo
storico, comunismo, anarchia”, pubblicato su “Rivista Anarchica”
sposta l’attenzione dal comunismo come forma di organizzazione
sociale alla sua giustificazione teorica. Passando attraverso
una serie di esempi, Adamo cerca di dimostrare una comunanza
teorica tra comunismo autoritario e comunismo anarchico, con
il secondo come derivazione contraddittoria del primo; tanto
è vero che i suoi principali esponenti, finita l’ubriacatura
rivoluzionaria, hanno cercato di annacquarlo con la “libera
sperimentazione”.
L’impressione che ho avuto è che non sia stato focalizzato
correttamente il percorso che ha portato alla separazione fra
correnti marxiste e anarchiche. Il desiderio di dimostrare la
comunanza fra anarchismo e marxismo gli ha un po’ preso la mano,
facendo sì che nell’articolo le due correnti non siano
sufficientemente caratterizzate, né negli obiettivi,
né nei metodi, ovviamente divergenti. La “libera sperimentazione”,
infine, sembra ridursi al “libero mercato”, condannando come
autoritario ogni altro modello di organizzazione sociale che
faccia a meno della proprietà privata dei mezzi di produzione
e di scambio.
Prima di entrare nel merito, è bene fare alcune precisazioni.
Con il termine marxismo si intende l’ideologia politica dedotta
direttamente dalle dottrine politiche di Marx ed Engels; in
quanto dottrina filosofica si preferisce designarlo come materialismo
storico. L’anarchismo, di cui la corrente comunista rappresenta
la corrente principale, non può ovviamente essere ridotto
all’opera di questo o quell’autore; pertanto ci riferiremo a
documenti “ufficiali” come il Programma Anarchico e a testi
generalmente accettati come esemplificatori del pensiero anarchico,
vedi “Dittatura e Rivoluzione” di Luigi Fabbri. Su questa base
verrà affrontato lo scritto di Adamo.
L’uso che fa Adamo del termine “immaginario” rimane difficile
da seguire: là dove è possibile si preferirà
parlare di impostazioni teoriche, obiettivi, metodi.
Autoritari ed antiautoritari
Le riflessioni da cui parte Adamo sono le seguenti: gli anarchici,
come le altre forze di opposizione, fatti fuori dai socialisti
autoritari - una volta che questi si erano impossessati del
potere - gridano al tradimento. Adamo parla di “sorpresa esistenziale
non del tutto inaspettata” di fronte a chi sembrava condividere,
fino ad ieri, immaginario e progettualità.
Il socialismo anarchico e quello marxista hanno radici storiche
in comune: l’ethos rivoluzionario e insurrezionalista che scaturisce
dalla Rivoluzione francese la comune matrice socialista; la
fucina dell’Internazionale, per quasi un ventennio ha costituito
un bacino condiviso di esperienze e di elaborazioni.
Solo dalla metà degli anni Settanta il movimento socialista
comincia ad articolarsi in tendenze diverse, è il periodo
decisivo per comprendere la natura del dissidio tra marxisti
e anarco-comunisti:
condiviso l’obiettivo di fondo (l’abbattimento della società
capitalista e l’instaurazione del comunismo;
differente l’orientamento etico-politico.
Per quanto riguarda la presunta accusa di tradimento rivolta
ai marxisti,in “Dittatura e rivoluzione” l’argomentazione di
Luigi Fabbri si muove sulla base di deduzioni logiche, analisi
dei testi, raccolta di fatti. Nel libro la contrapposizione
fra socialisti autoritari e antiautoritari viene illustrata
a partire dal diverso agire politico e dai diversi obiettivi:
la strada intrapresa dagli autoritari (la conquista del potere
politico) portava inevitabilmente alla dittatura e alla sconfitta
della rivoluzione. Il lavoro di Fabbri è la critica più
puntuale del concetto di dittatura del proletariato, compiuta
nel momento del maggior fulgore di quella parola d’ordine.
Ciononostante, nel libro non solo non sono presenti quelle frasi,
ma nemmeno quell’atteggiamento di denuncia del tradimento a
cui fa riferimento Adamo.
Anche le varie affermazioni che formano il secondo esempio meritano
di essere precisate. L’ethos rivoluzionario e insurrezionalista,
inteso in senso lato, non è comune solo a socialisti
antiautoritari e autoritari, ma anche a correnti democratiche,
anch’esse, e a maggior titolo, scaturite dalla Rivoluzione dell’89.
Se invece ci riferiamo ad una strategia politica in senso stretto,
questa strategia non accomuna affatto anarchici e autoritari.
Anche lasciando da parte l’antipatia personale di Marx per le
barricate, basta ricordare un articolo di Malatesta sullo sciopero
generale, pubblicato su Umanità Nova durante il
biennio rosso, per comprendere le differenze nell’azione politica.
L’adesione al marxismo in Italia ha coinciso per molti ex-internazionalisti
con l’abbandono del metodo insurrezionale, che proprio allora
cominciava a dare i suoi frutti, per aderire al determinismo,
all’attesa del momento fatale che tanto bene coabitava con la
lotta elettorale. Mentre la rivoluzione rimaneva affidata alla
dinamica di leggi imperscrutabili, gli ex-rivoluzionari contribuivano
all’ascesa del proletariato ascendendo al parlamento.
Autoritari e antiautoritari hanno una comune determinazione
socialista, come afferma anche Adamo.
La questione dello Stato
Ma le scuole del socialismo sono tante: mutualismo, collettivismo,
comunismo... le varie scuole socialiste si sono differenziate
non a partire dalle impostazioni teoriche, ma sulla base del
rapporto con lo Stato. La divisione tra libertari e autoritari
si interseca con quella fra riformisti e rivoluzionari, formando
un’infinità di correnti. Molte di queste correnti hanno
trovato nel marxismo una giustificazione teorica: fino agli
anni ‘50 il partito socialdemocratico tedesco ha conciliato
una politica collaborazionista con le istituzioni e il potere
economico con una accettazione dogmatica del marxismo.
La coabitazione forzata di autoritari e antiautoritari nella
Prima Internazionale è durata solo pochi anni. L’Internazionale
viene fondata a Londra nel 1864, Bakunin vi entra probabilmente
nel 1867 e nel 1869, al Congresso di Basilea, si può
dire che la rottura fra anarchici e statalisti è consumata.
Non si arriva ad una spaccatura perché nessuna delle
due correnti ha la forza per espellere l’altra. Dopo il bagno
di sangue della Comune di Parigi ci sarà bisogno di un
congresso accuratamente preparato da marxisti, blanquisti e
lassalliani per espellere dall’Internazionale Bakunin e gli
anarchici. E la rottura non fu su qualche astratta formula filosofica,
antropologica od epistemologica, ma sulla questione dello Stato,
sulla questione della conquista del potere politico e sulla
gestione dell’Internazionale.
In realtà la differenziazione del movimento socialista
in tendenze non avviene negli anni ‘70, se proprio vogliamo
scegliere una data, forse è più opportuna quella
del 1848. Nel 1872, a Saint-Imier, abbiamo la costituzione dell’anarchismo
in movimento politico autonomo: i suoi atti di nascita sono
mozioni sulla natura dell’azione politica del proletariato e
sul modo di organizzazione dell’Internazionale.
A questo punto, Adamo riassume i rapporti fra marxismo e anarchismo
sostenendo che è comune l’obiettivo di fondo, ma l’orientamento
etico-politico è diverso; l’autore fa esplicitamente
riferimento all’abbattimento della società capitalistica
e all’instaurazione del comunismo.
Socialisti libertari e socialisti autoritari, invece, si differenziano
anche sull’obiettivo di fondo: i primi abbracciano la prospettiva
comunista, i secondi si orientano verso il collettivismo. All’interno
della Prima Internazionale gli antiautoritari si definirono
dapprima collettivisti e, dopo la rottura con Marx, adottarono
progressivamente la denominazione di comunisti. Fu in quel periodo
che il comunismo si tolse le vesti sia di generica aspirazione
all’uguaglianza, sia di elucubrazione intellettuale, e divenne
un programma concreto di riorganizzazione della produzione.
Anarchici furono i principali teorici del comunismo: Kropotkin,
Reclus, ecc., e solo gli anarchici continuarono a definirsi
tali fino al 1917 e alla tragica caricatura che ne fecero Lenin
e compagni. Intanto gli autoritari, abbandonando nei fatti ogni
prospettiva di trasformazione sociale, preferirono adottare
il nome di collettivisti. Praticamente, dalla fine della Prima
Internazionale fino alla Rivoluzione russa, solo gli anarchici
si chiamavano comunisti e anche dopo la Rivoluzione russa solo
una minoranza degli autoritari (gli aderenti alla Terza Internazionale)
adotterà la denominazione di comunista; i socialdemocratici
(che continueranno a costituire la componente più influente
del socialismo autoritario) rifiuteranno di chiamarsi comunisti.
Si può parlare di obiettivo di fondo comune solo se esso
si esprime nei termini di abolizione della proprietà
privata dei mezzi di produzione.
Usando una formulazione così generica, però, si
finisce per intorbidare le acque, in realtà:
- i socialisti libertari, i comunisti pensano che sia da subito
possibile riorganizzare produzione e distribuzione attraverso
le libere associazioni di produttori e consumatori, che premessa
indispensabile di questa riorganizzazione sia l’abbattimento
del Governo e l’abolizione dello Stato, per questo la loro azione
punta a spingere il popolo ad autoorganizzarsi;
- i socialisti autoritari si basano invece sulla conquista del
potere politico, sulla base di libere elezioni (come la generalità
dei socialisti autoritari prima della 1ª guerra mondiale) o
di atti insurrezionali (i bolscevichi e i partiti satelliti
di Mosca): ai proletari spetta il compito di attendere le indicazioni
dei vertici e che una legislazione emanata dal futuro governo
socialista ponga fine al modo di produzione capitalistico; va
da sé che per le burocrazie socialdemocratiche e bolsceviche
l’abolizione della proprietà privata è solo una
giustificazione, di fronte alle masse, della loro brama di potere.
Condanna senza appello
Vale la pena di fare un’ulteriore considerazione: la critica
anarchica dello Stato e del Governo viene riportata da Adamo
più avanti: alla luce di questa critica, in qualsiasi
epoca, essi sono o la dominazione brutale, violenta, arbitraria
di pochi sulle masse, o è uno strumento ordinato ad assicurare
il dominio e il privilegio a coloro che hanno accaparrato tutti
i mezzi di vita.
Alla luce di questa critica è possibile comprendere la
distanza che separa socialismo autoritario e socialismo libertario:
l’ordinamento democratico o dittatoriale dello Stato è
una differenza superficiale che legittima comunque la sostanza
del dominio di pochi su molti.
Come è possibile, a questo punto, ipotizzare una qualsiasi
condivisione di obiettivi tra socialisti libertari e socialisti
autoritari?
Si arriva così, nell’articolo di Adamo, ad una condanna
senza appello del marxismo: nell’ideologia di Marx sono presenti
elementi che avranno una funzione importante nel plasmare l’ideologia
totalitaria. A questo punto si traggono le conclusioni:
1) il marxismo è il male;
2) l’immaginario del marxismo è stato condiviso da buona
parte degli anarchici;
3) gli anarco-comunisti, lungi dal rivelarsi diversi dai loro
“compagni di strada” autoritari, ne condividono in parte le
premesse storiche, epistemologiche e antropologiche. Il percorso
anarchico verso la società comunista riproduce gli stessi
temi e le stesse fallacie che i libertari attribuiscono ai loro
avversari/compagni marxisti.
4) Tutto ciò è dimostrato dalla letteratura e
dalla pratica degli anarco-comunisti.
Il rimedio a questa minaccia autoritaria nell’anarchismo è
partire dalla “libera sperimentazione” per introdurre il principio
della differenza economica e del libero mercato, individuando
nella rivoluzione proletaria la possibilità di una soluzione
autoritaria.
Non credo che il marxismo abbia bisogno di difensori d’ufficio:
ancora una volta merita riandare a Fabbri e a “Dittatura e Rivoluzione”.
Nella sua opera viene messo in luce che la “dittatura del proletariato”
non è l’elemento centrale della riflessione e della proposta
politica di Marx: accanto alla “dittatura” coesistevano e spesso
erano preponderanti elementi democratici (la repubblica, il
suffragio universale ecc.). Non a caso il dissidio con Bakunin
scoppia sulla questione dell’atteggiamento dell’Internazionale
sul diritto di successione; mentre l’anarchico ne proponeva
l’abolizione pura e semplice, Marx si batteva per introdurre
nel programma dell’Internazionale una riforma della tassazione.
Contrariamente a quanto diffuso per anni dalla Chiesa di Mosca
(e dalle sue sette scismatiche), a buon diritto i socialdemocratici
hanno rivendicato una continuità con Marx nella loro
azione politica.
Un altro elemento proposto da Fabbri è la non incompatibilità
tra marxismo e anarchismo, a cui abbiamo già accennato.
Più in particolare, esiste una contrapposizione fra i
partiti proletari sulla base del rapporto con lo Stato e, in
genere, i partiti autoritari si sono rifatti al marxismo. Fabbri
insiste molto su questo punto, e trova un appoggio in Malatesta,
quando afferma che le teorie “scientifiche” che pretendono di
spiegare i fatti sociali e di prevederli, si limitano spesso
a giustificarli una volta che sono avvenuti.
Possiamo benissimo concordare sul fatto che pretendere di spiegare
i fatti sociali su base scientifica implica l’esistenza di una
categoria di studiosi (il ceto politico, i “rivoluzionari di
professione”, ecc.) in una parola gli oracoli della Rivoluzione
incaricati di spiegarla al popolo ignorante. Questa è
la premessa ideologica della burocrazia, e con la burocrazia
della conquista del potere politico.
Ma possiamo altrettanto correttamente considerare anarchismo
e marxismo come appartenenti a due sfere diverse: il primo è
un progetto politico di riorganizzazione della società,
basato sull’attuazione dell’anarchia, che trova la sua giustificazione
nell’osservazione della condizione degli uomini e in una serie
di ipotesi che derivano da questa osservazione stessa e non
da teorie di ordine superiore; il secondo è un sistema
di teorie scientifiche, più o meno logicamente connesse,
più o meno verificate, finalizzato ad interpretare l’evoluzione
storica e la società, e possiamo tranquillamente lasciare
agli studiosi il giudizio su di esso.
Il passaggio decisivo del ragionamento di Adamo è quello
relativo all’influenza del marxismo sul comunismo anarchico.
Rileggere il Programma Anarchico
Dopo aver caratterizzato il marxismo come male, egli deduce
che il comunismo anarchico, in quanto non ha “regolato i conti”
con il materialismo storico, finisce con il riproporne gli stessi
temi. Questa deduzione è provata, è ancora Adamo
che parla, dalla letteratura e dalla pratica dei comunisti anarchici.
Prima di affrontare il tipo di deduzione di Adamo, è
bene ricordare che egli non dà alcuna prova di questa
pratica e di questa letteratura; questo è tanto più
significativo perché in un periodo precedente ha affermato:
“la comune matrice materialista... modella quasi per necessità
una forma mentis fondata sullo scontro, la violenza, la coartazione
e, nei casi limite, la mistica della rivoluzione proletaria,
con i suoi sogni da millennio rigeneratore.” Forse un po’ più
di documentazione sui casi di violenza e di coartazione sarebbe
stata utile, non tanto per dare credibilità alla costruzione
logica, quanto per individuare quei comportamenti da correggere.
Non pretendo di conoscere tutta la storia dei comunisti anarchici,
ma non credo che un solo episodio di “coartazione” possa essere
addotto a conferma della ipotesi sostenuta nell’articolo di
cui ci occupiamo.
Ma vediamo se è possibile “identificare un preciso elemento
teorico che spiega... affinità teoriche e vicinanza negli
obiettivi”, come dice Adamo. Nell’articolo viene riportata una
citazione di Marx che esemplifica la concezione filosofica del
materialismo storico (dalla Prefazione del ‘59 a “Per la critica
dell’economia politica”); pensare che gli uomini entrano in
rapporti determinati non dalla loro volontà, ma da oscure
forze sociali, si traduce, come abbiamo già visto, nel
giustificare l’esistenza di un ceto politico incaricato di spiegare
al popolo i suoi “veri” interessi. Guardiamo ora che cosa afferma
il Programma Anarchico:
“Noi crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono
gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale; e che
gli uomini, volendo e sapendo, possono distruggerli”.
Si tratta del primo capoverso del Programma e, in tutta la sua
semplicità, esprime la distanza fra un programma politico
empirico come quello anarchico e un’inerpretazione che vuole
eseere scientifica dei fatti storici. Da una parte quasi la
sottomissione ad oscure forze sociali, che si fanno valere al
di fuori e contro la volontà degli uomini, dall’altra
è proprio la volontà ad essere il primo fattore
di trasformazione sociale.
Le concezioni politiche che derivano dal materialismo storico
vengono dedotte dall’assunto iniziale: il fatto che gli uomini
non comprendano le forze profonde che li agitano fa sì
che la costruzione della nuova società abbia bisogno
di strateghi e di demiurghi; quelle che derivano dall’anarchismo,
basandosi sulla volontà e sulla libera scelta dell’individuo,
non possono prevedere un’approfondita preparazione teorica né
uomini di particolare valore; la proposta anarchica può
essere solo basata su ipotesi da verificare sperimentalmente.
Dalla padella nella brace
Non esiste quindi un elemento ideologico comune, come pretende
Adamo; per quanto riguarda l’immaginario comune, non so proprio
immaginare in un confronto fra partiti politici qualcosa che
non sta né nella teoria, né nell’organizzazione,
né negli obiettivi; che questo immaginario abbia potuto
influenzare azione concreta degli uomini, è solo frutto
di immaginazione.
Il fatto che il marxismo sia stato continuamente usato come
giustificazione della lotta per il potere di alcuni partiti
non deriva quindi dalla sua verificabilità come sistema
teorico, ma dalle condizioni sociali in cui tali partiti si
sono trovati ad operare. Ancora una volta le idee nascono dai
fatti e non questi da quelle.
L’influenza che la parola d’ordine della dittatura del proletariato
ha avuto su una larga minoranza del proletariato mondiale non
è derivata dall’accettazione del materialismo storico,
ma da un evento paradigmatico come la Rivoluzione d’Ottobre,
che è sembrato dar ragione alle tesi di Lenin.
Anche nell’evoluzione storica del comunismo anarchico, la progressiva
distanza che si è venuta a creare con il sistema di Marx
non deriva da una revisione del comunismo, ma dal fatto che
tale progetto ha progressivamente perso le sue incrostazioni
di risultato di leggi economiche e sociali e si è proposto
in modo più laico, come forma più efficiente di
organizzazione della produzione.
La scelta di Adamo, di aver spostato il dibattito sul comunismo
sul piano teorico, oltre ad aver prodotto risultati deludenti,
rischia di riproporre un nuovo integralismo: al posto della
sudditanza nei confronti del marxismo, la sudditanza nei confronti
dell’antimarxismo. Il problema della riorganizzazione della
produzione meriterebbe invece di essere affrontato a partire
dalla produzione stessa, senza mettere in campo eccessivi intellettualismi,
ma avendo sempre presente la necessità di rispettare
la massima libertà dei produttori reali e la massima
uguaglianza nella distribuzione del reddito.
Tiziano Antonelli
|