rivista anarchica
anno 30 n.265
estate 2000



Letture senza ritorno
a cura di Dino Taddei

L’arrivo dell’estate rimane l’ultimo baluardo delle buone intenzioni: non c’è che dire, anche se appartenete a quella metà d’italiani che possono permettersi solo il lusso di una granita ai giardini sotto casa, l’istinto a vivere meglio prende il sopravvento.
Tutte le cose rimandate durante l’anno trovano la giusta collocazione quando il termometro inizia a salire: imbiancature, separazioni e naturalmente letture. Soprattutto letture.
Personalmente passo undici mesi all’anno ad accumulare mattoni di saggistica polverosa e di narrativa punitiva con il fermo proposito di rieducarmi ad agosto. Per fortuna il sopraddetto istinto a vivere meglio schiaccia queste velleità costrittive e placidamente la mia volontà si orienta verso Zagor - senza sensi di colpa.
Eppure tra Zagor e L’Uomo e la morte dal Medioevo a oggi di Philippe Ariès (Mondadori, pagg. 778, lire 25.000) esiste una nicchia di libri che mi sento di consigliare agli amici della rivista; libri che hanno passato il vaglio ferroviario della Milano Centrale - Follonica: sette ore di treno nelle quali un libro deve dare tutto. Deve passare il primo cambio a Genova Principe dove il senso del dovere è esaurito, deve resistere alle gallerie fino a La Spezia, deve trascinarti fino all’ultimo cambio di Livorno e dispiacerti che manca solo un ora all’arrivo.
Di questa sparuta schiera un posto lo merita Paolo Nori Bassotuba non c’è (Einaudi, Torino, 2000, pagg. 149, lire 14.000), un piccolo caso letterario imposto alla critica ed all’Einaudi dall’invincibile tam tam dei lettori. Un affresco feroce e smagato dell’inossidabile provincia italiana - in questo caso Parma - abitata da magazzinieri che si chiamano tra loro con nomi americanizzati (Endi, Gièc, Nic), da ninfomani ex fidanzate del capo, da miss Italia di Salsomaggiore che fanno da contorno a Learco Ferrari trentacinquenne in cerca di un editore disponibile a pubblicare i suoi romanzi e della sua donna Bassotuba che lo ha lasciato per un sociologo seguace del filosofo Vattimo. Una vita da mezza bohème emiliana senza eroismo, divisa tra il lavoro di magazziniere, traduzioni di manuali tecnici e l’assidua lettura di Umanità Nova e dei classici anarchici anche se Learco Ferrari pensa che: “mi piacerebbe essere anarchico. Però, non lo so, se sono anarchico o no. Voi siete anarchici. Be’: io sono molto, ma molto, ma molto più incazzato di voi.” Beato lui.
Comunque il libro diverte e merita di essere letto, naturalmente se resistete all’irritante modo di scrivere poetico-borgataro che flagella tutta la narrativa contemporanea italiana.
Altra figura (questa volta reale) che ha molto frequentato gli anarchici è Cesare Lombroso cui Luigi Guarnieri dedica un’insuperabile biografia ( L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso. Mondadori, Milano, 2000, pagg. 273, lire 29.000).
Un lavoro appassionato a tal punto da uscire dalla paludata saggistica per entrare nel mondo dei romanzi a sfondo biografico. Perché la vita di Lombroso è di per sé romanzesca essendo l’uomo che più ha fatto per distruggere la sua fama scientifica. Lo studioso italiano più conosciuto al mondo a cavallo dei due secoli è riuscito a trasformare i suoi studi ultra positivisti sull’uomo criminale (tra cui naturalmente l’anarchico al quale dedica un apposito lavoro) basati sulla fisiognomica, sulla misurazione del cranio e sulla pseudo anatomia alla ricerca di una fantomatica fossetta occipitale mediana nel cervello, in uno dei casi letterari più interessanti dell’ottocento.
Egli infatti non va ricordato come scienziato ma come geniale maestro del racconto gotico italiano, oggi sicuramente ricercato ospite in tutti gli horror festival della penisola. Non ci credete? Cito dalla sua opera massima Trattato antropologico sperimentale dell’Uomo Delinquente (1876): “N. d’anni 27, impiegato di commercio (...) incontra un giorno, passando per un corridoio oscuro, un povero vecchio malato e debole, al quale con un bastone di ferro spezza il cranio e lo stramazza al suolo; gli apre il cranio e ne estrae l’encefalo, che parte mangia e parte avvolge in un fazzoletto, (...) un giorno trovandosi co’ i medici nella sala delle autopsie, cogliendo un momento in cui crede di non essere veduto, s’impadronisce di un cervello e si mette a mangiarlo con avidità, chiuso nuovamente fra i pericolosi, fu sorpreso a divorare cervelli di uccelli che prende nella corte”. D’altronde un delinquente nato di questa specie è per Lombroso riconoscibile a prima vista avendo come tutti gli omicidi abituali: “sguardo vitreo, freddo, immobile, qualche volta sanguigno o iniettato; il naso spesso aquilino, adunco o meglio grifagno, sempre voluminoso, abbondanti capelli oscuri, canini sviluppati, quasi a sogghigno o minaccia”.
In questo mondo popolato da “urlatori a squarciagola”, “imbecilli”, “beoni” e donne che normalmente assomigliano a “cinesi, negroidi ed affetti da cretinismo” il grande Lombroso riesce a toccare le vette del genio puro, nell’articolo ‘scientifico’ (ma sarebbe meglio dire pre-dadaista) Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle Ottentotte, cammelli e zebù nel quale arriva a teorizzare che la caratteristica gobba presente sul collo dei facchini torinesi non è il frutto del bestiale lavoro bensì un tratto ereditario comune ai cammelli ed ai voluminosi deretani delle donne africane... non c’è che dire un libro da non perdere.
Se i criminali del professor Lombroso ci fanno ridere, i criminali guerrafondai ci lasciano sgomenti. Tanto più oggi quando anche le ipocrite e tenui convenzioni internazionali sul rispetto dei prigionieri e della popolazione civile sembrano ridicole barzellette, dato che gli ultimi conflitti c’insegnano che non si fanno prigionieri e la guerra la si fa contro la popolazione civile.
Quello che a scuola ci raccontavano per edulcorare la cupa realtà: una sorta di onesto confronto tra gentlemen in divisa è definitivamente svanito lasciandoci sempre più intendere che la guerra contemporanea ha i suoi nuovi codici d’onore nello stupro etnico, negli squadroni della morte, nelle mine antiuomo. Crimini di guerra. Quello che tutti dovrebbero sapere (Internazionale, Contrasto, Roma, 2000, pagg. 399, lire 38.000) è un coraggioso dizionario dell’orrore curato da Roy Gutman e David Rieff che affrontano il tema da una prospettiva originale: il diritto di guerra.
Forse a qualche lettore sembrerà inopportuno che su una rivista anarchica si vada a rivendicare il diritto internazionale sottoscritto da stati ma io penso che su questo tema abbiamo il dovere morale di utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione per inchiodare i signorotti della guerra alle loro responsabilità, compreso ritorcergli contro quello che hanno messo in campo in termini giuridici per dimostrare che si può fare una guerra pulita. Ebbene, concorderete con me che ammazzare la gente non può essere mai una cosa ‘pulita’ ma non possiamo accettare l’imperante propaganda militarista che spinge l’opinione pubblica verso un pericoloso relativismo dove i campi di sterminio ed il genocidio tutto sommato rientrano tra le opzioni ragionevoli di una guerra moderna.
Chi invece continua la sua guerra da solo come un giapponese nella giungla è il papa, che a forza di chiedere scusa per le malefatte compiute dalla sua chiesa intollerante nei secoli passati, si è accorto tardi che a guastargli il giubileo ci vogliono provare i gay... d’accordo Giordano Bruno ma adesso anche gli omosessuali gli deve essere sembrato troppo. Del resto il prete perde il pelo ma non il vizio.
Così, giusto per infastidire i nostri amici clericali, consiglio la lettura de Il manuale dell’inquisitore. (Nicolau Eymerich, Fanucci Editore, Roma, 2000, pagg. 266, lire 20.000) una edizione curata da Luis Sala-Molins tratta dal Directorium inquisitorium scritto dal terribile domenicano Nicolau Eymrich alla fine del XIV secolo e pubblicata in stampa nel 1503 con le chiose di Francisco Peña. L’opera che aveva il preciso intento di unificare le varie procedure adottate dai tribunali inquisitoriali rimane una testimonianza inequivocabile della ferocia ecclesiastica, ben superiore alla stessa brutalità normalmente accettata in quell’epoca nei tribunali civili. Scrive infatti fra’ Nicolau: “Se, per altri delitti e davanti ad altri tribunali, la regola è di non torturare mai certe categorie di persone (per esempio i dottori, i soldati, gli ufficiali e i loro figli, i bambini e i vecchi), per l’orribile crimine di eresia non ci sono privilegi derogatori né eccezioni: tutti possono essere torturati. La ragione? L’interesse della fede”, d’altro canto almeno Francisco Peña ha il merito di parlar chiaro: “La finalità del processo e della condanna a morte non è salvare l’anima dell’accusato, ma mantenere il bene pubblico e terrorizzare il popolo”. Una tesi che troverebbe sostenitori anche oggi.
Ma i comunisti, i comunistoni di una volta, dove sono finiti? Rimpiango i bei tempi in cui ad ogni fine estate c’era qualche estimatore vacanziero del modello cubano il quale, non potendo convincerti sulla liberalità del socialismo caraibico, ripiegava sull’esaltazione del sistema sanitario, non rendendosi conto di sfiorare pericolosamente i nostalgici delle bonifiche pontine. Oggi l’appeal socialista di Fidel ha lasciato il posto ai villaggi turistici ed allo squallido turismo sessuale, eppure vale la pena rammentare che il regime è ancora lì e che Cuba ha avuto un forte movimento anarchico spazzato via dal castrismo; ce lo ricorda Frank Fernández nell’agile El Anarquismo en Cuba (Fundaciùn Anselmo Lorenzo, Madrid, 2000, pagg. 142)1. Storia di un movimento costellato di lotte anarcosindacaliste comuni a tutta l’America Latina tra ottocento e prima metà del novecento con un finale da manuale: una rivoluzione appoggiata e vinta che determina la liquidazione delle organizzazioni anarchiche, la prigionia e la lunga strada del fuoruscitismo non ancora terminato. Neanche la dittatura di Batista era riuscita a fare tanto.

Dino Taddei

1- Per contatti: Fundaciùn Anselmo Lorenzo, Paseo Palacios 2, 28021 Madrid.
Email: mferna4@roble.pntic.mec.es