rivista anarchica
anno 30 n.268
dicembre 2000 - gennaio 2001


Il papa in parlamento
di Carlo Oliva

Considerazioni in margine della servile presenza di quattromila politici in piazza San Pietro.

 

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

 

Chissà cosa avrà pensato il papa, sabato quattro novembre (giorno – oltretutto – del Suo onomastico) nel trovarsi di fronte a una folla di tre-quattromila parlamentari e uomini di governo, provenienti dal mondo intero e ansiosi di festeggiare, alla Sua augusta presenza, il "Giubileo del politico". Avrà pensato, probabilmente, che non se ne poteva più e che anche se l'anno santo finora aveva rappresentato - a detta di tutti - un grande successo, nonché il degno coronamento del Suo pontificato, era una bella fortuna che stesse volgendo alla fine e che di categorie socioprofessionali da ricevere, laudato Deo, ne restassero soltanto tre o quattro. Si sarà chiesto, anche, che cos'altro gli sarebbe toccato nella prossime settimane, visto che per il Giubileo degli sportivi era stato costretto a sorbirsi una noiosissima (finta) partita di calcio e per quello dei politici a presenziare, sia pur solo in parte, a una altrettanto noiosa (e altrettanto finta) assemblea parlamentare. La prossima volta sarebbe toccato, salvo errore, alle forze di polizia, il che comportava l'inquietante possibilità di doversi sorbire, per motivi di protocollo, chissà quale altra sceneggiata: un falso scontro a fuoco, per esempio, o una finta perquisizione o un arresto simulato. Magari, per amor di realismo, quello del Cardinale Giordano.
Ma forse i Suoi pensieri saranno stati di un tono più alto e più compiaciuto. Avrà riflettuto, da uomo di cultura qual è, sul fatto che quell'incontro, in definitiva, poneva fine, ancorché nessuno avesse sentito il bisogno di farlo notare, a una lunga, lunghissima disputa, quella della Chiesa contro il sistema rappresentativo parlamentare, e che il bilancio - tutto sommato - non poteva considerarsi negativo per l'organizzazione alla cui testa era stato posto dallo Spirito Santo. Un tempo la Chiesa, in quanto incarnazione storica del principio di gerarchia, disprezzava e temeva il parlamentarismo, che, d'altronde, era nato e si sviluppava in dichiarata opposizione ai suoi principi e ai suoi interessi. I teorici dell'assolutismo clericale, i Bossuet, i Lemaistre, i padre Gemelli, avevano bollato a lettere di fuoco le teorie di chi voleva che l'autorità promanasse dal basso e risedesse, in ultima analisi, in quel "popolo" che l'episcopato considerava da sempre un soggetto passivo di indottrinamento, incapace di acquisire valori che non gli fossero proposti da un'Autorità debitamente accreditata. Ancora ai tempi di Pio XI, che non ha regnato nel Medioevo remoto, ma settant'anni fa, non mancavano i teorici che, per giustificare la firma di un Concordato con Mussolini, spiegavano con tono di sufficienza come la Chiesa non potesse non preferire, per sua natura, di addivenire a un accordo con quei governi che non avessero il bisogno di affrontare i rischi di una ratifica parlamentare.

Il bacio della pantofola

Oggi, certo, questa polemica non ha ragione di essere. I rappresentanti del popolo giunti dai quattro angoli del mondo si sono affollati al bacio della Divina Pantofola e non hanno mostrato in alcun modo di avere una qualche considerazione dell'autonomia del loro ruolo e dell'impegno che laicamente li avrebbe dovuto legare ai propri elettori. Erano lì, ansiosi come cagnolini quando il padrone distribuisce i biscotti, intenti a concentrare quante più banalità potessero nei tre minuti che il programma gli concedeva e a sorbirsi, in cambio, le solite prediche pontificie sui diritti umani, che sono una gran bella cosa, ma non vanno intesi in senso individualistico (e chissà in quale senso, allora, dovrebbero essere intesi, visto che gli individui, in definitiva, ne sono i soggetti) e a prendere buona nota delle raccomandazioni con cui li si esortava a vietare a tutti per legge quei comportamenti che la Chiesa, in base ai propri principi, considera disdicevoli. Assentivano compunti quando il pontefice li esortava a rispettare il diritto alla vita (nel senso di rendere impossibile l'aborto e di ostacolare ogni possibile forma di contraccezione) e il ruolo naturale della famiglia (che significa meno divorzio e, soprattutto, niente legalizzazione delle coppie di fatto, omo o etero che siano). Si compiacevano, pensando ai titoli dei giornali del giorno dopo, agli inviti alla clemenza verso i carcerati e all'ospitalità verso i reietti, anche se il loro programma elettorale si fondava, più o meno larvatamente, sull'idea di sbattere in galera tutti gli extracomunitari e di tenerceli quanto più a lungo possibile.
Sia che parlassero a nome del Comitato di Accoglienza, come Andreotti, del Comitato dell'Anno Santo, come Rutelli, dell'Internazionale Democristiana come Casini o dell'Internazionale Socialista come Veltroni, non sentivano in nessun modo il bisogno di distinguere l'autorevolezza che è sempre opportuno riconoscere a un pontefice dall'Autorità che costui concretamente rivendicava al di fuori di quelle garanzie democratiche alla cui difesa avrebbero dovuto essere istituzionalmente tenuti. Partecipavano a una finzione, perché era ovvio che quella loro assemblea non poteva far altro che simulare la logica delle assise parlamentari, ma lo facevano con tanto convincimento da giustificare la perplessità di chi si chiedeva se anche nei rispettivi Parlamenti il dibattito fosse tanto predefinito e le conclusioni tanto scontate. Di un parlamentarismo del genere, che non può rappresentare altro che se stesso, non c'è Autorità che debba o possa avere paura.
Perché se il parlamentarismo non serve a limitare, in nome della Rappresentanza, i poteri dell'Autorità, a cosa credete che possa servire?

Carlo Oliva