rivista anarchica
anno 30 n.268
dicembre 2000 - gennaio 2001


globalizzazione

Il capitalismo ed il suo doppio
di Maria Matteo

Che il capitalismo sia un male oggi purtroppo sembrano crederlo in pochi. E persino nei movimenti contro la globalizzazione...

 

È, credo, ampiamente condivisa la convinzione che la conoscenza apra le porte del mondo, consentendo a chi lo abita di farlo in modo consapevole e, all’occorrenza, critico. Ricordate lo slogan di una campagna sull’AIDS di qualche anno fa? Se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide. La campagna risultò tanto efficace sul piano comunicativo che non se ne contarono le parodie. Rammento in particolare il manifesto di un gruppo anarchico che lo applicò ai politici dell’epoca per una campagna astensionista. Ignoro quale reale efficacia tale slogan abbia avuto per prevenire l’AIDS o per distogliere qualcuno dal vezzo elettoralista. Ho tuttavia da qualche tempo maturato l’opinione che troppo spesso conoscere un male non sia affatto condizione sufficiente ad evitarlo e, se necessario, combatterlo.
Che il capitalismo sia un male oggi purtroppo sembrano crederlo in pochi. Prevale il convincimento che "extra ecclesia nulla salus", fuori dalla chiesa universale del capitale, fuori dalla logica totalizzante del profitto non vi sia alcuna salvezza. Benessere, libertà, salute, felicità sono connaturati con il capitalismo. Benessere, libertà, salute, felicità non possono darsi che all’interno del capitalismo. Chi è fuori, chi sta ai margini è condannato irrimediabilmente all’esclusione, alla povertà, alla privazione. Di fronte a ciò tutto diviene lecito: la predazione delle risorse essenziali, la distruzione dell’ambiente, la fame e la sofferenza di centinaia di milioni di uomini, donne, bambini. La guerra, naturalmente in veste "umanitaria", entra a far parte del panorama quotidiano. È la guerra guerreggiata, la guerra condotta a suon di bombe "intelligenti" ed è la guerra che sordidamente ogni giorno lascia le proprie vittime lungo le mille frontiere che separano il mondo dei vincitori da quello dei vinti.
L’essenziale è che il lezzo della povertà, la violenza della repressione non sporchino i marciapiedi lindi del nostro condominio. All’inizio di novembre nel centro di detenzione per immigrati di corso Brunelleschi a Torino scoppia una rivolta. Iniziata nella sezione femminile della galera, dove le recluse spaccano le suppellettili per impedire la deportazione di una di loro, si estende rapidamente a tutti i container dei prigionieri. La polizia reprimerà con la forza la protesta. Un abitante del condominio situato di fronte ai muri, oltre i quali uomini e donne sono rinchiusi in attesa di espulsione, si lamenta con il cronista de "La Stampa" perché paga l’ICI delle case di lusso. Una tassa evidentemente ingiusta per un appartamento deprezzato perché prossimo ad un luogo dove l’eco della sofferenza che vi è racchiusa rischia di oltrepassare il filo spinato della recinzione. Per lui e per tanti come lui l’importante è spostare altrove la prigione, lontano dal suo appartamento, dove si paga l’ICI per le case di lusso.

L'ingiustizia è altrove

Le violente alluvioni che hanno devastato varie parti dell’Europa in questo primo scorcio d’autunno non rappresentano un mistero per nessuno. È ormai un patrimonio che va ben oltre la ristretta cerchia degli ecologisti radicali la consapevolezza che il riscaldamento del pianeta dovuto al buco nell’ozono provoca un aumento delle precipitazioni. Credo inoltre che ben pochi ignorino che lo sfruttamento indiscriminato delle risorse boschive, la cementificazione di corsi d’acqua, l’imbrigliamento dei fiumi e la costruzione di dighe accresca i rischi legati alle emergenze climatiche. Ma sappiamo bene che, finite le emergenze, seppelliti i morti, riaperte le strade, sopite le polemiche giornalistiche di rito, tutto torna come prima. Sino alla prossima alluvione, alla prossima frana, ai nuovi lutti e distruzioni.
Tutti sanno che la ricerca sfrenata del profitto provoca danni irreparabili all’ambiente, ma finché l’acqua non entra nel loro condominio, finché la frana non tocca la propria auto, finché un amico od un parente non sono inghiottiti dalla piena il male è sempre altrove, lontano e, soprattutto, irrimediabile. Perché porvi rimedio significherebbe smettere di riempire all’inverosimile i propri frigoriferi, smettere di passare i pomeriggi nei centri commerciali, smettere di pensare che questo sia il migliore dei mondi possibili. Eppure alluvioni e frane non risparmiano nessuno. Ma evidentemente rischiare persino la propria vita appare meno spaventoso che rischiare di cambiarla. Allora si chiudono gli occhi e si spengono le coscienze. Si chiudono gli occhi di fronte alle ingiustizie di cui sono vittime uomini e donne che chiedono solo di avere una opportunità di vita, uomini e donne la cui unica colpa è essere nati nel luogo sbagliato, di avere in tasca il pezzo di carta sbagliato. Si spengono le coscienze che obbligherebbero a riflettere sul proprio stile di vita. Tanto, con un po’ di fortuna, il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia sono altrove. Oltre il filo spinato dei lager per immigrati, sull’altra riva del fiume, nel paese vicino. Il male, se lo conosci, non lo eviti. Ti limiti ad aggirarlo, sperando che il numero buono continui ad uscire.
Il concetto di limite che, dopo l’affermarsi della critica ecologista, aveva incontrato numerose fortune nella sinistra nostrana, viene destituito di ogni significato. Il limite oltre il quale l’ambiente, le coscienze o la possibilità stessa della sopravvivenza diventano rischiose non solo viene continuamente spostato dagli alchimisti della politica ma finisce col perdere ogni contorno e sparire. Finché si riterrà che questo modello di organizzazione politica, sociale ed economica è il solo possibile non sarà possibile porre dei limiti che non vengano costantemente elusi e scavalcati.
Se il capitalismo è la linfa vitale cui attingiamo perché la nostra vita abbia un senso, la critica non trova appigli, scivolando inascoltata ed inutile lungo pareti levigate e ripide. Il consumo è ciò che disegna i contorni delle esistenze individuali e poco importa quel che divora lungo il cammino, purché possa continuare a riempire le vetrine delle nostre vite. La logica del profitto si è finalmente congiunta con il proprio doppio: la logica del consumo. Una logica pervasiva ed ammaliante che permea di se tutto l’ambiente sociale. E quel che è in gioco non è certo la qualità dei consumi, ché troppo spesso il supermercato globale offre prodotti scadenti, inquinati ed inquinanti, massificati e spesso dannosi. Quel che conta è l’atto del consumare con cui si attua un’acquisizione di senso, una definizione del sé. La socialità passa attraverso il consumo e lo spazio comune, lungi dall’ancorarsi alla dimensione del politico - a sua volta mercificata come spettacolo - si dispiega nei luoghi della merce, nelle città-supermercato, tra aiuole di plastica e commesse-majorette in pattini a rotelle.

Tensione rivoluzionaria

Per spezzare questo meccanismo infernale non basta la critica, non è sufficiente la conoscenza delle pesanti esternalità negative di questo modello di sviluppo, sia quelle che riguardano i due terzi degli esclusi del pianeta sia quelle che toccano persino gli abitanti del nord opulento. Su di un piano culturale gli incubi del ’900, le distopie realizzate fanno da sfondo al pianeta unico che, pur divorando se stesso e chi lo abita, pur attraversato da sperequazioni sociali sempre più ampie e incolmabili riesce a relegare ai margini l’immaginario radicale, quello capace di prefigurare nuovi mondi, nuove possibilità, diversi linguaggi. Persino nei movimenti di controglobalizzazione che si sono affacciati nelle piazze del pianeta nell’ultimo anno pare affermarsi la tendenza a perseguire un "capitalismo dal volto umano", un capitalismo controllato da organismi sovranazionali democratizzati, referenti di una rinnovata "società civile".
È il segnale inquietante di una rinuncia a pensare, sperimentare e conflittualmente proporre un mondo altro. Per ridare fiato ad una tensione rivoluzionaria non basta la conoscenza, occorre percorrere le vie difficili dell’esperienza, della vita che si fa esperienza, che si svincola dall’universo della merce; ci serve un sapere che sia saper fare, produzione di senso, creazione di opportunità. Bisogna ribaltare lo slogan "se lo conosci, lo eviti" perché per poterlo davvero conoscere occorre cominciare ad evitarlo.

Maria Matteo

“Che il capitalismo
sia un male
oggi purtroppo
sembrano crederlo
in pochi.”