È, credo, ampiamente condivisa
la convinzione che la conoscenza apra le porte del mondo, consentendo
a chi lo abita di farlo in modo consapevole e, all’occorrenza,
critico. Ricordate lo slogan di una campagna sull’AIDS di qualche
anno fa? Se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide.
La campagna risultò tanto efficace sul piano comunicativo che
non se ne contarono le parodie. Rammento in particolare il manifesto
di un gruppo anarchico che lo applicò ai politici dell’epoca
per una campagna astensionista. Ignoro quale reale efficacia
tale slogan abbia avuto per prevenire l’AIDS o per distogliere
qualcuno dal vezzo elettoralista. Ho tuttavia da qualche tempo
maturato l’opinione che troppo spesso conoscere un male non
sia affatto condizione sufficiente ad evitarlo e, se necessario,
combatterlo.
Che il capitalismo sia un male oggi purtroppo sembrano crederlo
in pochi. Prevale il convincimento che "extra ecclesia
nulla salus", fuori dalla chiesa universale del capitale,
fuori dalla logica totalizzante del profitto non vi sia alcuna
salvezza. Benessere, libertà, salute, felicità
sono connaturati con il capitalismo. Benessere, libertà,
salute, felicità non possono darsi che all’interno del
capitalismo. Chi è fuori, chi sta ai margini è
condannato irrimediabilmente all’esclusione, alla povertà,
alla privazione. Di fronte a ciò tutto diviene lecito:
la predazione delle risorse essenziali, la distruzione dell’ambiente,
la fame e la sofferenza di centinaia di milioni di uomini, donne,
bambini. La guerra, naturalmente in veste "umanitaria",
entra a far parte del panorama quotidiano. È la guerra
guerreggiata, la guerra condotta a suon di bombe "intelligenti"
ed è la guerra che sordidamente ogni giorno lascia le
proprie vittime lungo le mille frontiere che separano il mondo
dei vincitori da quello dei vinti.
L’essenziale è che il lezzo della povertà, la
violenza della repressione non sporchino i marciapiedi lindi
del nostro condominio. All’inizio di novembre nel centro di
detenzione per immigrati di corso Brunelleschi a Torino scoppia
una rivolta. Iniziata nella sezione femminile della galera,
dove le recluse spaccano le suppellettili per impedire la deportazione
di una di loro, si estende rapidamente a tutti i container dei
prigionieri. La polizia reprimerà con la forza la protesta.
Un abitante del condominio situato di fronte ai muri, oltre
i quali uomini e donne sono rinchiusi in attesa di espulsione,
si lamenta con il cronista de "La Stampa" perché
paga l’ICI delle case di lusso. Una tassa evidentemente ingiusta
per un appartamento deprezzato perché prossimo ad un luogo dove
l’eco della sofferenza che vi è racchiusa rischia di
oltrepassare il filo spinato della recinzione. Per lui e per
tanti come lui l’importante è spostare altrove la prigione,
lontano dal suo appartamento, dove si paga l’ICI per le case
di lusso.
L'ingiustizia è altrove
Le violente alluvioni che hanno devastato varie parti dell’Europa
in questo primo scorcio d’autunno non rappresentano un mistero
per nessuno. È ormai un patrimonio che va ben oltre la
ristretta cerchia degli ecologisti radicali la consapevolezza
che il riscaldamento del pianeta dovuto al buco nell’ozono provoca
un aumento delle precipitazioni. Credo inoltre che ben pochi
ignorino che lo sfruttamento indiscriminato delle risorse boschive,
la cementificazione di corsi d’acqua, l’imbrigliamento dei fiumi
e la costruzione di dighe accresca i rischi legati alle emergenze
climatiche. Ma sappiamo bene che, finite le emergenze, seppelliti
i morti, riaperte le strade, sopite le polemiche giornalistiche
di rito, tutto torna come prima. Sino alla prossima alluvione,
alla prossima frana, ai nuovi lutti e distruzioni.
Tutti sanno che la ricerca sfrenata del profitto provoca danni
irreparabili all’ambiente, ma finché l’acqua non entra
nel loro condominio, finché la frana non tocca la propria
auto, finché un amico od un parente non sono inghiottiti
dalla piena il male è sempre altrove, lontano e, soprattutto,
irrimediabile. Perché porvi rimedio significherebbe smettere
di riempire all’inverosimile i propri frigoriferi, smettere
di passare i pomeriggi nei centri commerciali, smettere di pensare
che questo sia il migliore dei mondi possibili. Eppure alluvioni
e frane non risparmiano nessuno. Ma evidentemente rischiare
persino la propria vita appare meno spaventoso che rischiare
di cambiarla. Allora si chiudono gli occhi e si spengono le
coscienze. Si chiudono gli occhi di fronte alle ingiustizie
di cui sono vittime uomini e donne che chiedono solo di avere
una opportunità di vita, uomini e donne la cui unica
colpa è essere nati nel luogo sbagliato, di avere in
tasca il pezzo di carta sbagliato. Si spengono le coscienze
che obbligherebbero a riflettere sul proprio stile di vita.
Tanto, con un po’ di fortuna, il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia
sono altrove. Oltre il filo spinato dei lager per immigrati,
sull’altra riva del fiume, nel paese vicino. Il male, se lo
conosci, non lo eviti. Ti limiti ad aggirarlo, sperando che
il numero buono continui ad uscire.
Il concetto di limite che, dopo l’affermarsi della critica ecologista,
aveva incontrato numerose fortune nella sinistra nostrana, viene
destituito di ogni significato. Il limite oltre il quale l’ambiente,
le coscienze o la possibilità stessa della sopravvivenza
diventano rischiose non solo viene continuamente spostato dagli
alchimisti della politica ma finisce col perdere ogni contorno
e sparire. Finché si riterrà che questo modello
di organizzazione politica, sociale ed economica è il
solo possibile non sarà possibile porre dei limiti che
non vengano costantemente elusi e scavalcati.
Se il capitalismo è la linfa vitale cui attingiamo perché
la nostra vita abbia un senso, la critica non trova appigli,
scivolando inascoltata ed inutile lungo pareti levigate e ripide.
Il consumo è ciò che disegna i contorni delle esistenze
individuali e poco importa quel che divora lungo il cammino,
purché possa continuare a riempire le vetrine delle nostre
vite. La logica del profitto si è finalmente congiunta
con il proprio doppio: la logica del consumo. Una logica pervasiva
ed ammaliante che permea di se tutto l’ambiente sociale. E quel
che è in gioco non è certo la qualità dei
consumi, ché troppo spesso il supermercato globale offre
prodotti scadenti, inquinati ed inquinanti, massificati e spesso
dannosi. Quel che conta è l’atto del consumare con cui
si attua un’acquisizione di senso, una definizione del sé.
La socialità passa attraverso il consumo e lo spazio
comune, lungi dall’ancorarsi alla dimensione del politico -
a sua volta mercificata come spettacolo - si dispiega nei luoghi
della merce, nelle città-supermercato, tra aiuole di
plastica e commesse-majorette in pattini a rotelle.
Tensione rivoluzionaria
Per spezzare questo meccanismo infernale non basta la critica,
non è sufficiente la conoscenza delle pesanti esternalità
negative di questo modello di sviluppo, sia quelle che riguardano
i due terzi degli esclusi del pianeta sia quelle che toccano
persino gli abitanti del nord opulento. Su di un piano culturale
gli incubi del ’900, le distopie realizzate fanno da sfondo
al pianeta unico che, pur divorando se stesso e chi lo abita,
pur attraversato da sperequazioni sociali sempre più ampie e
incolmabili riesce a relegare ai margini l’immaginario radicale,
quello capace di prefigurare nuovi mondi, nuove possibilità,
diversi linguaggi. Persino nei movimenti di controglobalizzazione
che si sono affacciati nelle piazze del pianeta nell’ultimo
anno pare affermarsi la tendenza a perseguire un "capitalismo
dal volto umano", un capitalismo controllato da organismi
sovranazionali democratizzati, referenti di una rinnovata "società
civile".
È il segnale inquietante di una rinuncia a pensare, sperimentare
e conflittualmente proporre un mondo altro. Per ridare fiato
ad una tensione rivoluzionaria non basta la conoscenza, occorre
percorrere le vie difficili dell’esperienza, della vita che
si fa esperienza, che si svincola dall’universo della merce;
ci serve un sapere che sia saper fare, produzione di senso,
creazione di opportunità. Bisogna ribaltare lo slogan "se
lo conosci, lo eviti" perché per poterlo davvero
conoscere occorre cominciare ad evitarlo.
Maria Matteo
“Che
il capitalismo
sia un male
oggi purtroppo
sembrano crederlo
in pochi.”
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