Dopo il Forum Social Mundial
Porto Alegre è stata la sede, lo scorso
anno, dell'incontro tra realtà ecologiste ed anti-globalizzazione.
È anche una città al centro di un originale progetto
politico e sociale. Ne parliamo con un medico di base, eletto
nelle file del PT.
Porto Alegre è una città
vivace, elegante, attraente. Adagiata su un mantello di verdi
colline, ha sviluppato una caratteristica trama di cañon
metropolitani. Dei secoli passati, testimoniano i pochi edifici
superstiti del centro storico e la mai sopita smania indipendentista
del popolo gaucho. Gli indici dello stato sono cresciuti negli
ultimi anni a un ritmo accelerato, ponendo la sua economia in
una posizione privilegiata a livello federale (1). Da 12 anni
il governo della città è nelle mani del Partido
do Trabalhadores, stella nascente del firmamento politico brasiliano.
Il Pt è nato dall’opposizione sindacale alla dittatura
degli anni ’70, maturando un forte legame con la Teologia della
Liberazione. Il rapporto con i movimenti di massa, in particolare
i Sem Terra, si è mantenuto stretto negli anni, contribuendo
ad alimentare il mito di un partito libertario.
L’attuale trend contrasta con le catastrofiche previsioni della
destra. L’opposizione accusava i neo eletti di incompetenza
e sosteneva che lo sviluppo economico fosse incompatibile con
l’investimento sociale: l’esperienza si sarebbe rapidamente
risolta in un fallimento. Il Pt nel ‘99 ha insediato un proprio
governatore in Rio Grande, è al potere nel Mato Grosso
do Sul e nell’Acre e la sua marcia a livello nazionale sembra
inarrestabile. I risultati del “buon governo” appaiono concreti:
potabilizzazione dell’acqua, riorganizzazione dei trasporti,
bonifica delle favelas e riforma agraria. Un quadro che a Brasilia
inquieta il blocco al potere, che in questi mesi sta reagendo
con una campagna televisiva dai toni particolarmente aggressivi.
L’atmosfera nel campo Pt si è d’altra parte elettrizzata
con la recente conquista di San Paolo, la municipalità
più popolosa del paese, a opera di Marta Suplicy. In
una recente intervista Lula, lo storico presidente, dichiarava
trionfalmente: “Siamo il partito di sinistra più importante
del mondo” (2).
Coperti di stracci
E da questa inedita vocazione della capitale del Rio Grande
a ombelico del mondo, è scaturita l’idea del Forum Sociale
Mondiale dello scorso gennaio. Riunire le menti e i rappresentanti
del vasto e ancora indistinto movimento che si oppone alla globalizzazione,
per consolidarne l’identità. Il forum ha avuto ampia
eco di stampa ed è riuscito a rappresentare una alternativa
al meeting di Davos sul libero commercio. I militanti del Pt
ne vanno giustamente fieri, anche se le voci critiche ne hanno
sottolineato l’alto costo finanziario a discapito dell’attivazione
di nuove politiche sociali, in particolare verso gli indigenti.
La situazione risulta in questo senso contraddittoria e l’esercito
dei senza casa appare essersi ancora ampliato. Le notti del
centro offrono il desolante spettacolo dell’abbrutimento: con
la chiusura dei negozi le strade pedonali divengono un ospizio
a cielo aperto. Da ogni dove spuntano materassi, coperte, ripari
improvvisati.
Degli indigenti di Porto Alegre, colpiscono le condizioni. Coperti
di stracci, anestetizzati da alcool, colla e droghe a basso
prezzo appaiono indifferenti al freddo, la pioggia, il disprezzo
della gente. La maggioranza è tra i 30 e i 40 anni, ma
numerosi sono anche i bambini, vitali e imploranti a qualsiasi
ora del giorno e della notte. Molti tra loro soffrono di problemi
mentali e vagano, in preda a delirio. La gente con gli anni
si è abituata alla loro presenza, e un corpo abbandonato
e immobile in un angolo non fa notizia. Un fenomeno che di recente
sta interessando sia i quartieri residenziali, sia la periferia,
riguarda una inedita e disperata forma di organizzazione. Gruppi
di indigenti, in condizioni un poco migliori di quelli del centro,
prendono possesso delle vie di una data zona. Sono carenti di
tutto, tranne che di tempo. Aspettano appoggiati a un muro,
per giorni, quasi senza mutare di posizione. Osservano. La gente
che abita nei dintorni, un po’ per stare tranquilla, un po’
per evitare che muoiano nella loro strada, dopo qualche tempo
prende a gettare una moneta.
Le uniche vie sgombre di rottami umani sono quelle della vita
notturna. Un efficiente servizio si occupa del parcheggio abusivo
e di tenere lontano gli indesiderati. Sono giovani dai 20 ai
30 anni, che si sono inventati una professione, oggi generalmente
valorizzata. Sono vestiti decentemente, e hanno elaborato uno
specifico codice: ti ricevono correndoti incontro con uno straccio
colorato e uno smagliante sorriso. Ognuno ha la propria frase
di benvenuto da offrire; rappresentano la casta immediatamente
superiore a quella degli indigenti. Dalla presenza di quest’ultimi,
o meglio, dalla minaccia che costituiscono per le eleganti mise
da sera, dipendono le fortune dei parcheggiatori.
Né ricette né certezza
Henrique Fontana ha lavorato come medico di base in un quartiere
degradato della periferia di Porto Alegre per poi candidarsi
a Brasilia nelle file del Pt. Lo incontriamo nel suo piccolo
e affollato studio riograndense, strappandolo al quotidiano
tour de force, incuriositi dai contrasti della sua storia personale
e dalle capacità che gli sono attribuite.
“Qual è la relazione tra il passato impegno sociale
e l’attuale scelta politica, considerando in particolare i rischi
di alienazione dalle esigenze reali che questa può comportare?”
“E’ importante tenere presente che la paura che la scelta di
partito possa implicare una burocratizzazione dell’attività
è giustificata. Tuttavia la politica rappresenta una
sfida ineludibile. Pur valorizzando il lavoro dei movimenti
di base, penso che la complessità della lotta per il
potere esiga una sintesi. Si tratta di distillare lo strumento
adatto per veicolare le istanze dei movimenti, senza che questo
diventi un mezzo per addomesticarli. Noi del Pt non abbiamo
ricette né certezza di successo, ma alcune convinzioni
di fondo. In primo luogo bisogna riconoscere come strategica
l’indipendenza di ciascun gruppo. Un partito non può
sostituirsi ai movimenti, ma può rappresentare una punta
di lancia per le loro aspirazioni. Può difenderne gli
spazi e le lotte: in particolare, e a prescindere da ciò
che sostengono i nostri avversari, il movimento Sem Terra è
totalmente indipendente dal Pt.
La mia esperienza come medico risale a 6 anni fa e si è
svolta in un quartiere della periferia chiamato “il Vallone”.
Assistevamo una popolazione di 8.000 persone con una équipe
di 7 medici, coadiuvati da infermiere e assistenti sociali.
L’Unità di salute era profondamente integrata nella comunità,
che mostrava una significativa componente negra. Entravamo nelle
case, partecipavamo alla vita sociale, condividevamo il quotidiano
della gente. L’edilizia popolare conviveva con la favela: operai,
classi medio-basse, immigrati recenti. La mortalità infantile
e la dissenteria erano elevati, senza raggiungere gli indici
riscontrabili in altre aree del Brasile. Ci rendemmo presto
conto che per realizzare il risanamento bisognava elevare il
livello di coscienza. Era frequente l’idea che per curare la
poliomielite, piuttosto che l’antibiotico, fosse necessario
benedire i bambini. Sviluppammo un lavoro integrato con le chiese,
evitando di criticarne le pratiche, e ottenendo che dopo la
benedizione ci inviassero i malati. Il quartiere evidenziava
molti problemi di droga, e noi avevamo un’alta incidenza di
pazienti sieropositivi. Avviammo una campagna di prevenzione
sull’AIDS, che fu realizzata con le chiese, le sette locali
e i leader delle comunità. I prospetti illustrativi furono
distribuiti all’interno dei centri sociali e religiosi.
Oggi mi rendo conto che il mio lavoro come deputato non mi consente
di mantenere la relazione di allora con i problemi sociali.
C’è un limite fisico, ma cerco il maggior contatto possibile
con la gente e di tenere sempre presenti i motivi per i quali
ho affrontato la scelta politica. La società necessita
di militanti di base, quanto di persone impegnate nella rappresentanza.
Il Pt possiede molti leader che si formarono nelle lotte sociali,
nel sindacato, nelle comunità e nei movimenti ecclesiali.
La sua è la particolare storia di un partito orientato
ai movimenti di base.
“Puoi raccontarci come avvenne il tuo passaggio alla politica?”.
Ognuno segue un cammino specifico, ma la causa principale fu
la presa di coscienza che l’origine della sofferenza stava al
di là delle nostre possibilità d’intervento. Cominciai
a chiedermi in quale luogo e da quale posizione potessi lottare
per cambiare. Sapevo che era la politica l’ambito dove si decidevano
le cose, e giunsi alla conclusione che lì dovevo dirigermi.
Ogni persona è un essere politico, che fa politica nel
quotidiano, tuttavia alcuni devono prendere le decisioni generali
e dedicarsi alla casa pubblica. Risolsi di divenire uno di coloro
che prendono queste decisioni.
“Non è facile...”
“Qual è ora il tuo rapporto con i movimenti di base?”
Non è profondo come vorrei: la vita nel Congresso è
totalmente virtuale. Le persone che incontrano i deputati fanno
parte di delegazioni, rappresentano degli interessi, e in questo
senso sono già una gerarchia. A Brasilia si vive lontani
dalla base sociale: una vita mediatica, fatta di statistiche,
dibattiti e interviste. Il rapporto con i media, in particolare
radio e televisione, impedisce di vedere le reazioni degli interlocutori,
ma consente di raggiungere migliaia di persone. Il nostro messaggio
può incidere sulla coscienza della gente e indurla a
lottare per il cambiamento. Quando rientro a Porto Alegre cerco
di garantire degli spazi di ascolto a chi vuole comunicare con
me. Ho organizzato la mia vita in modo da restare a Brasilia
tre giorni alla settimana, e passare gli altri qui. Questo week
end andrò a visitare un accampamento di Sem Terra, un
ospedale, una fondazione per minori. E’ ciò che chiamo
“l’Agenda della vita reale”. C’è molta gente che studia,
che parla della povertà, ma penso sia importante vivere
il contatto con la povertà. E’ necessario ascoltare e
in ogni incontro cerco di invitare gli altri a parlare prima
che lo faccia io. Ogni persona deve essere messa in condizione
di esprimere ciò che ritiene importante.
Per un politico mantenere il contatto non è facile, ed
è per questo che le critiche che la gente porta alla
democrazia rappresentativa sono motivate e devono essere tenute
presenti. Il parlamentare dovrebbe avere una forte coscienza
sociale, ma nella realtà accade tutt’altro. Siamo convinti
che debba svilupparsi un alto grado di democrazia partecipativa,
e stiamo lavorando in questo senso. Pensai a questo ieri, quando
seppi della morte di Nega Diaba, che fu prostituta e aveva alle
spalle una storia di povertà e favela (3). I partiti
di destra cercano di coinvolgere i leader dei quartieri degradati,
per usare il loro ascendente in termini politici. Questi sono
trasformati in deputati ed entrano in una macchina che gli toglie
la possibilità di lottare. Le motivazioni sono schiacciate
dalla logica di parte: ci si deve adeguare alla linea del partito.
La democrazia diretta può correggere le distorsioni della
politica.
La gente ha molte fantasie su ciò che un deputato può
fare. Ci sono persone che ne hanno una visione magica: pensano
che il politico possa risolvere tutto, dal lavoro al risanamento
del quartiere. Noi possiamo sollevare i problemi in termini
generali e fare in modo che vengano discussi, ma non garantire
che le richieste locali vengano esaudite. La personalizzazione
genera un fenomeno di clientelismo, attualmente molto diffuso
in Brasile. La gente punta su un deputato per ottenere vantaggi
e opere pubbliche per la propria comunità. Il politico,
invece di affrontare i grandi problemi del paese, diviene colui
che deve procacciare le risorse per un dato gruppo. Una concezione
che stiamo combattendo.
“Un aspetto che colpisce nel contesto del Rio Grande è
la relazione che il Pt è riuscito a mantenere con la
gente. Tuttavia ciascuno individua all’interno del partito la
propria corrente; esiste un orientamento moderato che manifesta
disagio, quando non timore, per i metodi dei Sem Terra, e d’altro
lato ci sono i marxisti-leninisti. Come è possibile conciliare
punti di vista tanto lontani?”
Credo che le correnti siano salutari perché rappresentano
delle volontà differenti. Costruire un partito di massa
e giungere al potere per via istituzionale significa convincere
il 50% più uno dei brasiliani. Comprendere un ampio ventaglio
di posizioni e realizzare la giusta sintesi. Le correnti sono
la forma organizzata di espressione dei gruppi all’interno del
partito. Con un esempio concreto: la settimana passata il Pt
ha lanciato il proprio programma economico, che è stato
attaccato da destra e da sinistra. Noi stiamo dicendo a chiare
lettere che non si può prendere in giro la gente sul
tema del debito: la strategia della sospensione dei pagamenti
non può più essere sostenuta. Fare ricorso a semplificazioni
condurrebbe a perdere l’indispensabile appoggio dell’elettorato
di centro e la chance di governare. Ciò non significa
avvallare la politica e le condizioni accettate dall’attuale
presidente Fernando Henrique Cardoso.
Da un altro punto di vista, se come deputato difendo il movimento
Sem Terra, so che utilizza metodi che spaventano elettori che
vorrei vicini al Pt. Ma esiste una dialettica politica: non
possiamo forzare l’Mst a fare le scelte che ci appaiono giuste.
La politica è complessa, la sfida è confrontarsi
in presenza di opinioni contrarie. Le correnti hanno anche delle
implicazioni negative, che si amplificano quando smettono di
agire in armonia, di sentirsi parte di un ambito più
ampio. Ci sono persone che spingono per dissolvere le correnti
per fini personali. Si creano movimenti non fondati sulla identità
di idee, ma sulla volontà di appoggiare determinate candidature.
E’ un problema connaturato alla massificazione del partito.
Oggi, in Brasile
In Europa come in America latina, i partiti vanno al potere
con un programma di sinistra, per poi sviluppare una politica
di destra. L’esempio più recente mi pare l’Argentina:
i radicali hanno sconfitto i peronisti, ma hanno finito per
integrare Cavallo, dandogli poteri eccezionali. Per molti si
è trattato di un tradimento, in quanto De La Rua era
stato eletto per contrastare il corso che Cavallo aveva avviato.
Pensi che l’esigenza di mantenere l’equilibrio in un ipotetico
governo federale possa originare la svolta a destra del Pt?
La domanda è provocatoria, profonda e corretta; si tratta
tuttavia di dinamiche che non dipendono dai singoli, quanto
da un contesto di confusione politica. Quando due mesi fa andai
a Buenos Aires a parlare con i compagni del Frepaso, espressi
il mio disaccordo. Il Pt, che ha 21 anni di storia e si è
costruito dalla base, ha avuto una evoluzione graduale; ha saputo
evitare le scorciatoie. Ferdinando Cardoso, che aveva influenza
sull’elettorato di centro, scelse invece di farsi veicolo della
presa di potere della destra. Avrebbe potuto agire diversamente:
il Partito Federal Liberale sarebbe stato sconfitto e da sei
anni Lula sarebbe presidente del Brasile. Già allora
potevamo contare su di un 30% dei voti. Oggi la maggioranza
dell’elettorato vuole chiudere con il governo in carica: sono
sicuro che l’opposizione vincerà le prossime elezioni.
Non so tuttavia quali saranno gli equilibri nello schieramento
di sinistra, quale il peso di Ciro Gomes o di Itamar Franco
nel nuovo governo (4). Se Ciro fosse eletto e Lula divenisse
suo vice, nel caso della presentazione di una proposta indecorosa
in Senato, le cose andrebbero altrimenti. Lula si dimetterebbe
come ha fatto Chacho Alvares, ma aprirebbe una vera crisi politica.
D’altro lato dobbiamo aver chiaro come il neoliberalismo sia
riuscito ad avanzare e a divenire egemonico a livello mondiale.
Come abbia vinto la lotta per la deregolamentazione dei mercati,
la difesa dei paradisi fiscali e come il sistema che ne è
nato costituisca una brutale aggressione ai diritti dei più
poveri. Nel braccio di ferro tra potere politico e potere economico,
i liberali sono riusciti a piegare il sistema alle proprie necessità.
La supremazia dei loro interessi impedisce una vera autonomia
ai governi, che non possono difendere le economie e il risparmio
nazionali. Nel caso brasiliano, la faccia tosta di coloro che
chiedono l’indipendenza del Banco centrale è evidente.
Il Banco dovrebbe essere uno strumento per realizzare le strategie
di chi è al governo. Strumento sottomesso alla volontà
popolare: gli elettori scelgono il presidente, il quale ha mandato
di decidere le politiche monetarie.
Abbiamo la convinzione che oggi in Brasile esistano le condizioni
per realizzare un programma di sinistra. Certamente non potremo
fare miracoli e risolvere il problema del debito in 4 anni,
ma il Rio Grande rappresenta un prezioso laboratorio e un precedente,
e le soluzioni che vi stiamo adottando ci saranno di grande
aiuto. Un riferimento negativo è invece costituito dall’esperienza
di Spirito Santo. Victor Boias, il governatore, è giunto
alla conclusione che per risolvere i problemi regionali fosse
necessario negoziare con il Governo federale e farsi carico
dei relativi compromessi. Brasilia ha vincolato l’erogazione
dei fondi per strade e infrastrutture all’approvazione di un
programma statale di incentivazione alla dimissione volontaria
dei lavoratori. Si tratta di un esempio di pressione da parte
del governo centrale. Accettando, Boias ha perso in coerenza
con le idee che lo avevano fatto eleggere (5). A nostra volta
in Rio Grande stiamo vivendo una situazione di difficoltà
con quanti contavano potessimo risolvere il problema dei salari
universitari. Nonostante tutto, posso dire che nel cercare una
soluzione non ci siamo resi disponibili a compromessi che ci
facessero scostare dal nostro programma.
Molti pensano non esistano alternative a una democrazia asservita
al potere economico e perdono la volontà di lotta. Due
anni fa, quando l’attuale presidente vinse, chi è sceso
in piazza a festeggiare? L’elezione di Lule sarà una
grande festa. Abbiamo iniziato cercando di unire sindacato,
movimenti cristiani, ambientalisti e parte della classe media.
Oggi il Pt ha un gruppo di imprenditori che lo appoggia, e ciò
non mi disturba affatto. Il partito è in condizione di
andare al governo, ma farà delle mediazioni rispettando
i programmi e le idee di base. Il Pt è una semente che
sta germogliando; nei momenti difficili ripenso al primo anno
di governo a Porto Alegre. Pareva che il mondo ci cadesse addosso
e c’è stato un periodo in cui i compagni dovevano nascondere
il distintivo. Era il 1989, il programma di riorganizzazione
del trasporto pubblico andava male. Gli imprenditori scelsero
la linea dura e giunsero a danneggiare gli autobus, mettendo
sabbia nelle scatole del cambio. Il sistema andò in crisi,
ma in breve riuscimmo a firmare l’accordo. Porto Alegre ora
vanta una rete tra le più efficienti: puoi prendere un
autobus con aria condizionata per 95 centesimi.
Confronto permanente
“Quest’anno si è festeggiato il ventennale
dell’ascesa dei socialisti in Francia. Mitterand raggiunse il
potere con la parola d’ordine “farla finita con il capitalismo”.
Il primo giorno di governo un quantità enorme di capitali
uscirono dal paese e in breve la coalizione dovette cambiare
programma. Il problema che si pone riguarda l’ingerenza che
i gruppi di pressione possono esercitare nel caso di vittoria
della sinistra. Come pensa il Pt di affrontare il problema una
volta al potere?”.
Questa è la domanda cruciale della sinistra contemporanea.
La forza del capitale fu storicamente superiore a quella degli
ideali sociali. Il neoliberalismo detiene un grande potere sui
mezzi di comunicazione e una grande capacità di costruzione
del consenso. In Brasile si dice che se dessero al Pt una ora
in orario nobile sulla rete Globo, avremmo già vinto.
La nostra analisi è centrata sulla supremazia della dimensione
economica sulla politica, linea sulla quale abbiamo recentemente
elaborato il nostro programma. Sappiamo che in virtù
della liberalizzazione i capitali brasiliani potrebbero uscire
dal paese in 24 ore. D’altro canto ci sono ancora compagni che
con una visione semplificata difendono i vecchi slogan contro
il capitalismo. Il primo passo sarà affrontare il terrorismo
ideologico scatenato contro di noi nella campagna elettorale,
in pratica già iniziata. Il Brasile sta attraversando
una nuova fase di fragilità monetaria, il real soffre
un forte attacco speculativo e il Banco Centrale sta spendendo
oltre i limiti per difenderlo. Il contesto provoca la caduta
della credibilità del governo e, come ci aspettavamo,
la responsabilità viene addossata a noi. A noi che abbiamo
lanciato la commissione sulla corruzione.
Ma cosa faremo una volta al governo? Partiremo dalle priorità,
come il salario minimo, che aumenteremo immediatamente. C’è
un grande strepitìo nel paese: conservatori e imprenditori
della destra parlano di nostra irresponsabilità. Sostengono
che le misure sociali abbasserebbero la competitività
e causerebbero la perdita di 2.000.000 di posti di lavoro. Sono
tutte bugie. Si tratta di introdurre cambiamenti sostenibili:
elevare il salario minimo da 180 a 500 real sarebbe irrealistico,
da 180 a 230 irrinunciabile. Cercheremo di consolidare la relazione
con la base popolare, facendo percepire la nostra volontà
d’intervento. I capitali possono fuggire, ma la grande impresa
ha molti interessi in Brasile e deve salvaguardare i propri
investimenti.
In Rio Grande dovemmo affrontare una controversia con due giganti
dell’automobile: la GM e la Ford. Si trattava di discutere contratti
concordati dal governo precedente. Dovemmo subire un bombardamento
mediatico pazzesco: a causa nostra lo stato avrebbe perso la
sua più grande opportunità di sviluppo. Avevamo
molti dubbi e si creò una tensione limite. Ci rendevamo
conto dell’importanza della questione, ma non potevamo firmare
alle condizioni che la Ford stava proponendo. A causa di quella
scelta perdemmo dei voti, ma oggi mi sento felice d’averla compiuta.
Due anni fa l’opposizione sosteneva che se avessimo di nuovo
vinto, sarebbe stato il caos e le imprese se ne sarebbero andate.
Oggi il Rio Grande è lo stato con indice di crescita
più alto del Brasile. La nostra è divenuta una
politica di confronto permanente, calcolato e progressivo. L’ampiezza
delle scelte dipende dalla risposta della base d’appoggio e
dalla sua coscienza di lotta: è evidente che se dovessimo
provocare una fuga di capitale, l’elettorato ci liquiderebbe.
Vogliamo cambiare la linea economica del paese, ma intendiamo
farlo con responsabilità. La politica per sua natura
è una guerra e ci dobbiamo aspettare nuovi attacchi e
menzogne. Come sempre la destra cercherà di creare un
clima di paura.
Massimo
Annibale Rossi
Dopo il Forum Social Mundial
1. Il prodotto interno lordo nel 2000 è
cresciuto del 4,6 %, la media degli ultimi 4 anni si assesta
sul 3, 4%, dato tanto più sorprendente considerando il
saldo negativo del 1998, anno in cui si fecero sentire in Brasile
gli effetti della crisi asiatica.
2. Verana Glass, Lula: cosa pensa il grande vittorioso del
momento, Caros amigos, San Paolo, anno IV, N. 44, novembre
2000. I sondaggi Ibope/CNI di giugno assegnano a Lula il 28%
dei consensi; Ciro Gomes, il secondo classificato, si attesta
su un 13%.
3. Nega Diaba Fu consigliere nella municipalità di Porto
Alegre e fu eletta nelle liste del Partido Trabalhista Brasilero.
4. Ciro Gomez è l’attuale leader del Partito Popolare
Socialista, mentre Itamar Franco guida il Partito del Movimento
Democratico Brasiliano, entrambi possibili alleati del Pt in
un prossimo governo di sinistra.
5. Victor Boias fu eletto nelle liste del Pt, per poi passare
al Partito Socialista Brasiliano.
Echi di una logora rivoluzione
Campesinos, minatori, popoli indigeni.
In viaggio attraverso la Bolivia. Con il registratore.
Il 1952 fu un anno epocale per il popolo
boliviano. Contadini, minatori e operai marciarono per sconfiggere
il colpo di stato militare che aveva abbattuto il legittimo
governo di Victor Paz Estenssoro. La nazione più povera
del Sud America approvava una serie di leggi destinate a mutare
definitivamente gli equilibri sociali ed elevare le miserrime
condizioni dei lavoratori: riforma agraria, nazionalizzazione
delle miniere, aumenti salariali generalizzati... La Bolivia
da stato arretrato ed economicamente condannato dalla mancanza
di sbocchi al mare diveniva l’avanguardia di una rivoluzione
sociale che, si sperava, presto avrebbe contagiato l’esausta
Latino America.
I laceri contadini del nuovo millennio, i minatori erosi dalla
silicosi alzano oggi gli occhi impotenti anelando riscossa.
Nelle miniere di Potosì negli ultimi 10 mesi si sono
verificati 19 incidenti mortali; il 65% degli schiavi del piccone
è condannato alla lenta agonia polmonare. I minatori
sono divisi tra salariati aderenti al sindacato e soci delle
cooperative. I contadini tra indigenas dell’oriente amazzonico,
cocaleros e campesinos dell’altipiano. Quechua,
tupi-guaranì, aymara e chiquitano, i maggiori gruppi,
parlano lingue ed hanno caratteri culturali diversi. Nel paese
ci sono 40 gruppi etnici. La Bolivia è passata attraverso
la lenta erosione dei diritti acquisiti nell’insurrezione, venti
anni di feroce dittatura, fallimentari governi popolari e l’attuale,
disperante, liberalizzazione dei mercati.
Lo scorso 27 agosto si spegneva a La Paz Juan Lechín
Oquendo, colui che nel 1953 come Ministro delle miniere firmò
lo storico decreto. Su di lui afferma Josè Morales Guillén,
suo braccio destro in quegli anni e dirigente del Movimento
Nazionale Rivoluzionario (Ricardo Zelaya, La doble vida de
Lechín, in El juguete rabioso, La Paz, A II, N. 40,
9 settembre 2001, pp. 10 - 11.): “Victor Paz non era partigiano
né della privatizzazione, né della Riforma agraria...
Tuttavia si impose il movimento operaio e non si può
dire che furono il Mnr, Lechín o Paz a sostenere le rivendicazioni,
ma la base”. E a proposito della inspiegabile rinuncia alla
presidenza di Lechín del 1963: “Paz teneva Lechín
alla corda come un bue dal 1953... Risulta che la sua fidanzata,
Coca Wisse, fu sorpresa a Cochabamba con un chilo di cocaina
e 80 milioni di bolivar”.
Drammi lontani e lotte presenti. La maggioranza della popolazione
è indigena, ma i recenti tentativi di convogliarne le
istanze in un movimento politico hanno sortito deboli risultati.
I contadini dell’altipiano prediligono l’appellativo “campesino”,
prendendo le distanze dalle comunità della selva, a loro
volta partigiane nell’identità conflittuale del singolo
popolo. Operai e minatori stentano a ritrovare il passato afflato,
centrando l’azione su rivendicazioni immediate e fondamentali.
Se da un lato gli appelli all’unità si fanno frequenti,
le difficoltà a sentirsi parte di un movimento composito
sono evidenti. Come evidente in molti settori appare lo scoramento
dovuto al progressivo peggioramento delle condizioni di vita
e al calo della traenza delle lotte sindacali. In molti si fa
strada l’idea che rivendicare leggi sociali in Bolivia possa
rivelarsi inutile, dato che il loro contenuto può essere
stravolto dai decreti attuativi, dalle procedure burocratiche,
dalle tattiche e dai compromessi governati.
Trappole e inquinamenti
È quanto emerge dalle parole di Carlos
Romero, presidente del Centro studi giuridico sociali di Santa
Cruz. È questa una associazione fondata nel 1978 a difesa
dei diritti delle comunità indigene, ora particolarmente
impegnata sul versante del riconoscimento dei titoli di proprietà.
“Il problema fondamentale è tradurre i diritti formali
in diritti reali. Il processo di riforma agraria iniziato nel
’53 non ha provocato una significativa distribuzione della terra.
Una dinamica che rischia di riproporsi con la Legge agraria
del 1996, nata da una storica marcia indigena, e che avrebbe
dovuto sanare i problemi atavici e realizzare l’atteso Catasto
nazionale. Nel caso delle comunità, si tratta di dimostrare
di vivere su terre di diritto ancestrale, ottenendone la proprietà
collettiva”. Certificato di fondamentale importanza per combattere
le incursioni delle imprese, nazionali e straniere, impegnate
nella corsa all’oro nella nuova frontiera a est: legni pregiati,
miniere, gas e petrolio. Singoli e gruppi che, muniti o meno
di concessioni governative, accelerano lo sfruttamento indiscriminato
delle risorse. Negli ultimi tempi anche nell’Amazzonia boliviana
si sono fatte frequenti le aree morte. Rettangoli di terra brulla
al centro della foresta i cui tronchi, tagliati e lavorati,
riposano negli eleganti parquet del Primo mondo.
Nonostante la legge stabilisca la priorità del diritto
agrario su quello forestale, gli istituti responsabili rifiutano
di sospendere le concessioni, alimentando il conflitto. Conflitto
che con sempre maggiore frequenza provoca sollevazioni: blocchi
delle strade e dei lavori, occupazione degli impianti, incidenti
con operai e militari. La situazione è complicata dalla
lentezza delle procedure per ottenere il “saneamiento”. “Il
problema” continua Romero, “non è la legge, in sé
buona, quanto la normativa. Il pericolo è che, come in
passato, le finalità vengano stravolte dalle difficoltà
e dalla volontà di sabotare da parte di settori politici
ed economici contrari”.
“Spesso nel lavoro giuridico ci troviamo di fronte a trappole
e tentativi di inquinare le prove. Le imprese possiedono denaro
e in Bolivia c’è molta corruzione: funzionari che falsificano
le domande, illeciti di ogni genere”. Un altro problema rilevante
è costituito dalla tassazione, prevista per legge sulla
proprietà della terra. Molte delle comunità della
selva vivono ancora un’economia di autoconsumo, e in generale
le condizioni di vita sono tali da rendere impossibile il pagamento
delle tasse: situazione che in alcuni casi conduce gli indigeni
ad accettare retribuzioni in denaro e ad abbandonare la lotta,
favorendo dinamiche di dispersione, alcoolismo, perdita dell’identità
e dei diritti ancestrali.
Un caso che è considerato un esempio è rappresentato
dalle comunità di Monteverde, che occupano una vasta
area a trecentocinquanta chilometri nord-est di Santa Cruz.
L’équipe di Romero dovette combattere un’ardua battaglia
legale e si trovò di fronte a documenti falsificati e
numerosi insediamenti illegali. D’altra parte, sul campo, si
assistette al conflitto tra comunità e imprese coalizzate
con i proprietari locali. Il versante patronale organizzò
una milizia armata: la “Unión de la Juventud Cruzerista”.
Bruciarono case e coltivazioni, ma la gente non si perse d’animo
né optò per la via armata. Determinante per dirimere
il conflitto, fu la mediazione della diocesi locale, che in
breve ottenne la cessazione delle ostilità.
Una confederazione per gli indigeni
La Confederazione dei popoli indigeni di Bolivia
fu fondata a Santa Cruz nel 1983. Oggi raggruppa 33 popoli originari
sparsi sull’intero territorio nazionale per un totale di circa
un milione di persone. “Le questioni fondamentali riguardavano
la terra, la unità del movimento, salute, educazione,
sviluppo economico”, sostiene Nicolas Montero, presidente del
Cidob. “Questioni che a oggi si mantengono centrali, e alle
quali si è aggiunta la problematica della gestione delle
risorse naturali”. La coscienza che i diritti comunitari siano
minacciati dalla famelicità delle multinazionali è
generale. La prima grande marcia avvenne nel 1990 per il riconoscimento
della questione indigena. Preso atto degli scarsi risultati
della Riforma agraria, le comunità insorgevano nuovamente
nel 1996, ottenendo l’approvazione della “Legge Inra”. Ma le
difficoltà burocratiche ponevano il processo in una situazione
di stallo e causavano l’acutizzazione del conflitto. “Il riconoscimento
legale della terra” continua Montero, “è il tema centrale
e di maggior attrito. Ci sono imprenditori che ricevono la concessione
senza nemmeno averne presentato domanda e invadono i nostri
territori. Altri compaiono d’improvviso e tagliano illegalmente,
appropriandosi del legname. Centriamo la nostra azione sui processi
di sanatoria, alcuni dei quali si sono già conclusi.
Stiamo inoltre appoggiando l’approvazione di una legge sulla
gestione sostenibile delle risorse, che coinvolga direttamente
le comunità. Noi chiediamo il rispetto delle leggi, ma
nel caso questo non avvenga, non ci rimane che bloccare le strade
e impedire l’ingresso ai camion”.
“La marcia del ’90 ha avuto il merito di sollevare la questione
indigena a livello nazionale e ha permesso la revisione della
Costituzione dello Stato. Nel ’96 si è giunti a rimettere
in moto la Riforma agraria, a ottenere leggi sulla partecipazione
popolare e sulla riforma educativa. Quest’ultima prevede l’insegnamento
scolastico bilingue; tuttavia, dato che non siamo riusciti a
uniformare la lingua scritta, per ora il versante indigeno rimane
orale. Le nostre iniziative non sono armate, quindi la polizia
non può sparare: sanno che qualsiasi atto di aggressione
causerebbe problemi maggiori. Altro discorso riguarda le imprese
e i proprietari: ci sono stati casi di sequestro. L’anno scorso
fu rapito un dirigente chiquitano: noi ci pronunciammo dichiarando
che se non lo avessero liberato, si sarebbero trovati di fronte
a una sollevazione generale. Lo picchiarono, ma ce lo restituirono
vivo. Ora è in corso una mobilitazione a Trinidad e sono
già arrivati i rappresentanti del governo per negoziare.
I nostri metodi sono molto diversi da quelli dei campesinos:
noi non distruggiamo, facciamo resistenza passiva, chiedendo
la mediazione nel conflitto”.
Il riferimento ai campesinos richiama il problema dell’antagonismo
tra popoli della serra e popoli dell’altipiano. Entrambi sottolineano
come, al di là dei fattori culturali e ambientali, siano
mossi da rivendicazioni differenti. Prima tra tutte quella dell’identità.
I campesinos si definiscono come lavoratori e sono riuniti in
un sindacato, la Confederación sindical unica de los
trabajadores campesinos de Bolivia. Si tratta di una sigla storica
nata nel 1935 e protagonista delle lotte del secolo passato,
definita “operaista” dai militanti del Cidob. Il mondo industriale,
la classe operaia sembrano appartenere a un’altra dimensione:
“In Bolivia esistono tre confederazioni nazionali” sottolinea
Montero, “la nostra, il Sindacato unico e quella più
piccola dei coloni. Ognuno porta avanti le sue istanze, ma deve
essere chiaro che nessuno può parlare a nome degli altri.
Finché non giungeremo a un accordo, non sarà possibile
l’unione”.
I tentativi realizzati nella decade passata di costituire un
partito indigeno non hanno avuto esito. La Cidob, che al momento
non possiede propri deputati, rimprovera ai leader sindacali
l’alto livello di conflittualità interna e la scarsa
disponibilità a farsi portavoce dei settori non politicizzati.
In effetti l’unico rappresentante indigeno presente in parlamento
è Evo Morales, storico dirigente del Sindacato dei cocaleros,
il quale esprime esigenze e dinamiche specifiche. Felipe Quispe
e Alejo Veliz, ai vertici della Confederazione unica, hanno
a loro volta fondato movimenti distinti.
“La nuova legge è una frode”
Abbiamo incontrato Alejo Veliz nel suo piccolo
studio di Cochabamba. Il clima che si respira nell’altipiano
è teso, circospetto. La provincia nell’ultimo anno ha
vissuto i blocchi stradali e gli scontri sanguinosi dell’insurrezione
dei cocaleros contro il Plan dignidad, variante locale del Plan
Colombia contro il narcotraffico, le sollevazioni campesine
e la cosiddetta “Guerra dell’acqua”. Si è trattato di
un ampio movimento, con attiva partecipazione sindacale, per
contrastare il progetto di privatizzare e dare in appalto la
gestione degli acquedotti a una società nordamericana.
Mentre i primi hanno avuto risultati alterni, la Guerra dell’acqua
si è risolta in una vittoria popolare ed è considerata
una conquista a livello nazionale. Sul selciato il popolo di
Cochabamba ha lasciato altri quattro morti.
Tra i contadini lo scontento è tangibile. “L’approvazione
della legge Inra” sostiene Veliz, “non è ci è
convenuta. Si tratta di un testo contraddittorio rispetto al
precedente, che difendeva un principio fondamentale, bandiera
di tutti i poveri del campo: ‘la terra è di chi la lavora
personalmente’. La nuova legge, legge dell’oligarchia, sostiene
invece che ‘la terra è di chi paga le imposte’. Nel ’96
l’allora presidente dichiarò che la sanatoria sarebbe
stata gratuita. Tuttavia nella pratica le cose sono andate altrimenti.
Le strutture dipartimentali dell’Istituto per la riforma agraria
hanno contattato imprese, nazionali e straniere, che hanno fatto
pagare le perizie fino a 200 dollari per pietra miliare. La
spesa complessiva poteva superare gli 800 dollari, cifra assurda.
La gente di Bolivia è povera; ogni famiglia ha una media
di 7 figli e il prodotto pro capite non supera i 60 dollari
annui. Per pagare avrebbero dovuto vendere tutto”.
“Nella pratica la nuova legge è una frode. Chiediamo
che venga riformulata e che si torni al principio della Riforma
agraria e alla gratuità della sanatoria. In Bolivia il
campesino non gode di alcun beneficio: assistenza sociale, assicurazione
contro incidenti e calamità naturali. Sta vivendo come
mille anni fa, in condizioni di disperazione e sopravvivenza.
Gli indigeni in questo paese sono 5 milioni su 8 totali; in
cambio l’oligarchia non comprende più di 200 famiglie,
che occupano la maggioranza della terra. Tre milioni di ettari
permangono improduttivi: proprietà che chiediamo vengano
distribuite al movimento campesino. Rivendichiamo l’annullamento
delle imposte di rendita e l’approvazione di provvedimenti seri
contro la corruzione. Se la situazione non cambia in tempi brevissimi,
esploderanno i movimenti sociali, e sarà messo in discussione
il sistema medesimo”.
Viaggiando per l’altipiano sembra di fare un passo indietro
nel tempo. Le case non hanno servizi, il pavimento in terra,
i tetti sono spesso in paglia. Attrezzi e aratri appaiono rudimentali
e prevalgono la trazione animale e il lavoro manuale, cui le
famiglie partecipano collettivamente. La rete stradale è
sommaria e in molte zone il mezzo di trasporto più comune
è il mulo. Nell’interno i presidi sanitari sono rari
e malattie endemiche come la tubercolosi risultano in aumento.
La mortalità infantile è ancora altissima e frequenti
sono i casi di malati gravi che giungono agli ospedali in condizioni
disperate o che esalano l’ultimo respiro durante il viaggio.
“Il nostro strumento di lotta è la mobilitazione. Marce
immense; migliaia e migliaia di contadini che potrebbero finalmente
giungere alla capitale e prendere il Palazzo. Una seconda opzione
è il blocco delle strade. Blocco che a livello nazionale
potrebbe durare 40 giorni. Il popolo boliviano sta vivendo un
fase molto diversa rispetto agli anni ‘70 e ’80: oggi l’esercito
è nell’angolo. Il nuovo secolo ci offre la possibilità
di realizzare cambi strutturali profondi. In questo paese
devono volare delle teste”.
Nelle parole di Veliz il problema dell’attuale divisione politica
del movimento appare acutizzarsi, quanto mostrare la propria
conflittualità rispetto alla imminente panacea insurrezionale.
I toni sono sprezzanti, i giudizi severi. La tesi è quella
del complotto ai danni dell’unità indigena; irrisolto
rimane il nodo del come giungere a una composizione. “In Bolivia
già esistono le premesse per realizzare il partito indigeno,
esiste l’Assemblea per la sovranità dei popoli “movimento
di Veliz”. Tuttavia l’oligarchia è riuscita a dividerci:
stavamo lavorando con Evo Morales. Ma Evo fu isolato, lo strapparono
dal progetto e fondò il suo partito. Il Movimento al
socialismo non è altro che una sigla comprata, che in
breve è giunta ad appoggiare il Movimento sinistra rivoluzionaria,
una delle formazioni più corrotte di Bolivia. Tra i dirigenti
manca cultura politica, preparazione. Evo Morales dal punto
di vista della formazione è un ignorante. Si fa maneggiare
da quattro figuri pagati dallo stato. Ha venduto, ha permesso
che l’esercito penetrasse e distruggesse 7.500 ettari di coca.
In questo momento l’ingerenza del governo tra i leader è
fortissima: Felipe Quispe e il suo partito sono a loro volta
manovrati. Per vincere dobbiamo fare nostra la comune coscienza
rivoluzionaria della quale parlava il Che, una coscienza che
ci renda realmente impermeabili alla corruzione”.
“In ogni progetto serio i rappresentanti devono essere espressione
del popolo che lotta. Ora i deputati sono rubapane, spreconi
e bugiardi, ma noi miriamo alla costruzione di un nuovo potere.
Un nostro rappresentante non deve perdere il rapporto con la
base, e nel caso giungesse a corrompersi dovrebbe essere frustato,
frustato con le spine. L’Asp intende riunire tutti i
popoli in un’unica nazione. Recuperare il pensiero marxista
e coniugarlo con la cosmovisione andino-amazzonica. Il marxismo
è portatore della lotta di classe, la cosmovisione del
tema dell’identità. Noi non consideriamo l’opera di Marx
una Bibbia, ma ne applichiamo le teorie che si adattano alla
nostra realtà. Ci sono stati rivoluzionari, come Lenin,
che hanno pensato e agito in modo proprio. I nostri popoli posseggono
un grande patrimonio culturale: vogliamo unire i poveri del
campo con i poveri delle città. È importante chiarire
come la nostra non sia, come per alcuni movimenti indigeni,
una lotta di razza. Il problema non è la razza; il problema
è la povertà”.
“Il movimento campesino” conclude Velis affrontando il tema
del degrado ambientale, “è per sua natura ecologico.
Amiamo la terra, benediciamo il sorgere del sole; c’è
un profondo rispetto per la pacha mama. Sempre è
stato così ed è una grande virtù. In alcuni
luoghi, attraverso la propaganda, sono riusciti a introdurre
prodotti chimici, prodotti rifiutati dai paesi sviluppati. Non
sono però riusciti a convincere tutti e noi stiamo lottando
per conservare il nostro patrimonio: abbiamo 60 varietà
di mais e 200 di patata e i nostri contadini producono autonomamente
le sementi. Nell’ultimo congresso della Confederazione abbiamo
rifiutato l’utilizzo dei fertilizzanti chimici e intimato al
governo di non fare entrare i prodotti transgenici nel paese.
In Bolivia non abbiamo bisogno di alcun prodotto modificato”.
Massimo
Annibale Rossi
Sulla
sacra foglia di coca
intervista con Evo Morales
di Massimo Annibale Rossi
Complici dei narcos o martiri?
Viaggio tra i cocaleros, schiacciati tra demagogia, repressione
e povertà
Cochabamba, 22 settembre 2001. La città
ospita il terzo incontro dell’Azione Globale dei Popoli, coordinamento
nato per contrastare il processo di globalizzazione economica
sostenuto dai paesi ricchi. Partecipano gruppi provenienti dai
cinque continenti per un totale di circa 200 persone. Sono principalmente
giovani, tra i quali emergono le delegazioni latinoamericane.
Numerosi i rappresentanti indigeni, i cui costumi tradizionali
fanno contrasto con il look postmoderno di quelli del nord Europa.
Il compito è maturare una posizione comune e pianificare
azioni efficaci per il movimento nato a Seattle. Si tratta di
un nuovo internazionalismo, che intende sintetizzare la lotta
di classe e la divisione internazionale del lavoro con il terzomondismo
e la questione ecologica. Il convegno è organizzato dalla
Confederazione del tropico, il sindacato dei coltivatori di
coca protagonista degli scontri con l’esercito del giugno passato.
È il giorno conclusivo, e il programma prevede il trasferimento
dei partecipanti a Chimoré, capitale dei cocaleros. La
carovana, alla quale si è unita un’ampia rappresentanza
della stampa, si muove al levar del sole per coprire i 160 chilometri
che la separano dalla meta. Viaggiamo nella jeep di Evo Morales,
condividendo le sue preoccupazioni per l’esito dell’iniziativa
e per il trattamento che ci sarà riservato da parte dell’esercito.
In Chapare sono stanziati 800 “umopae”, polizia d’élite,
cui dal ’98 è affidata la funzione di garantire il compimento
del Plan dignidad contro il narcotraffico. Agli effettivi sono
affiancati 2.000 giovani di leva con funzioni d’appoggio nelle
operazioni di sradicamento. La provincia è in stato di
guerra. La popolazione non accetta l’occupazione e chiede si
aprano nuove trattative. I tentativi intrapresi nella decade
passata per introdurre coltivazioni alternative sono praticamente
falliti. Paz Estenssoro, Paz Zamora e Sánchez de Lozada,
i precedenti presidenti, avevano sostenuto la riduzione annuale
di 5.000 ettari di piantagione offrendo compensi tra i 1.500
e i 2.000 dollari per ettaro. Cifre considerevoli, che tuttavia
non riuscivano a risolvere il problema della sopravvivenza economica.
Il sindacato afferma che banana, maracujá, palmito, ananas
e peperoncino, prodotti considerati alternativi, in realtà
non abbiano mercato e che le economie del nord non abbiano fatto
nulla per crearlo.
La responsabilità della situazione è attribuita
agli Stati Uniti, i quali stanno finanziando il piano con 200
milioni di dollari e partecipano alle azioni con propri consiglieri,
tecnici e istruttori della DEA. La “Fuerza de Tareas Conjuntas”
viene completata da alcune centinaia di funzionari, tra i quali
operano molti agenti coperti. Banzer, ex dittatore eletto nelle
file dell’Alleanza democratica nazionale e recentemente sostituito
per motivi di salute, dichiarò di garantire le coltivazioni
destinate al consumo tradizionale, ma d’essere determinato a
eliminare le “eccedenze”. Si tratta di 38.000 dei 50.000 ettari
che rappresentavano il sostentamento delle 40.000 famiglie cocaleras
del Chapare. Fino alla fine di quest’anno, ai coltivatori disposti
a collaborare si sarebbero corrisposte somme minime; a partire
dal gennaio 2002, più nulla. La mobilitazione fu massiccia:
blocchi stradali, marce e proteste. La repressione durissima:
il sindacato a partire dal ’98 ha denunciato 49 morti, 2.500
feriti e 4.500 arresti. L’acme del conflitto si registrò
nel settembre dello scorso anno, quando l’insurrezione riuscì
ad arrestare temporaneamente la costruzione delle nuove caserme.
Ci furono 15 morti e 30 feriti. Tra loro, Isaac Mejía
Arce, un ragazzo di 19 anni deceduto in seguito alle torture
subìte durante la detenzione.
La reazione campesina fu a sua volta violenta. Nel 1995 erano
stati fondati nuclei di “polizia sindacale”, con compiti di
vigilanza interna e lotta ai sradicamenti. Negli scontri in
settembre fecero comparsa gruppi armati, che organizzarono imboscate,
disseminarono mine di fabbricazione artigianale e catturarono
ostaggi tra i militari. Tra questi fece clamore il caso del
sergente Andrade, che con la moglie fu ritrovato senza vita,
con segni di tortura sul corpo. Nei rapporti militari gli stessi
sindacati sono definiti “bande di narcoterroristi”. Si segnalarono
attacchi contro installazioni e elicotteri in dotazione alla
Fuerza de Tareas. Per l’esercito si tratta di gruppi armati
connessi ai narcos. Per i cocaleros, di nuclei autonomi in un
quadro che produce azioni di autodifesa contro ciò che
definiscono “genocidio”. La politica Coca zero celerebbe un
piano per sradicare i campesinos dal Chapare a vantaggio delle
multinazionali.
Le mani callose
La strada che unisce Cochabamba a Santa Cruz è ancora
in costruzione: grandi insegne ne pubblicizzano il finanziamento
del governo USA. La carovana deve arrestarsi più volte
ai posti di blocco e a causa degli ingorghi dovuti ai lavori.
La sosta più lunga è all’ingresso della provincia:
tutti vengono fatti scendere e sottoposti a un minuzioso controllo
dei documenti. Le nostre facce sono riprese da una telecamera
e giovani militari appuntano i nostri dati nei loro taccuini.
Evo si occupa del suo gregge: interviene, parlamenta, tranquillizza.
É il punto di riferimento dei delegati, quanto della
maggioranza delle persone che incontriamo. Tutti lo conoscono,
tutti lo salutano e molti pretendono di raccontargli i propri
problemi dal finestrino della jeep. Tuttavia oggi l’atmosfera
è di festa: la gente sa che per la prima volta nel villaggio
di Chimoré si svolgerà un incontro internazionale.
Ci aspettano circa 7.000 persone. Sono i coltivatori dei campi
di coca: complici dei narcos per gli uni, martiri per gli altri.
Visi scavati dal lavoro e dal sole; famiglie intere con il costume
migliore e le loro bandiere colorate. Molti di loro emigrarono
venti o trenta anni fa dalle zone più povere dell’altopiano.
Sono ex minatori, pastori che, come Evo Morales, incontrarono
una speranza nel fertile Chapare. Tutti vogliono salutare i
delegati e i “compagni giornalisti”. Un uomo mi mostra le mani
callose: “sono frutto di cinquanta anni di campagna”.
Si apre un passaggio nella calca e ci mettono al collo collane
di foglia di coca. I membri della carovana sono nominati “ospiti
illustri” della municipalità. Iniziano gli interventi;
i cocaleros applaudono calorosamente sotto il sole implacabile.
Il tema di fondo è l’unità delle vittime del sistema
neoliberale e la necessità di elaborare strategie di
lotta comuni. Da parte di molti oratori si evidenziano gli effetti
dello sfruttamento indiscriminato delle risorse verso l’ambiente
e si sottolinea la comune matrice ecologica dei popoli originari.
Si applaude alla “sacra foglia di coca” e al suo significato
nella cosmogonia andina, quanto alla fine dell’occupazione militare
e alla partenza degli yankee. Il linguaggio, gli slogan, il
rapporto con la folla ricordano le adunate comuniste di prima
della caduta del muro di Berlino. Un sindacalista, dopo aver
mandato “alla merda” yankee, politici e ambasciatori, annuncia
la sconfitta del neoliberismo per il 2002. Il programma si conclude
con il leader cocalero, che invita il popolo a partecipare a
una nuova marcia contro l’occupazione e la guerra minacciata
dagli Usa in Medio Oriente.
Evo Morales, nato da padre quechua e madre aymara, è
l’unico deputato indigeno. É fondatore del Movimento
al socialismo, formazione che mira a unire la sinistra per sconfiggere
il governo nelle elezioni del prossimo anno. Mentre il paese
è scosso dalla sollevazioni campesine e dalla Guerra
del Chapare, il parlamento dibatte l’incriminazione del dirigente
cocalero per complicità negli avvenimenti dell’anno passato.
Il Mas ha recentemente presentato una proposta di pacificazione
che prevede la demilitarizzazione e la legalizzazione di un
cato di coca, 1,6 ettari, per famiglia. Si tratterebbe di un
periodo transitorio, necessario per ricostituire le basi economiche
e rilanciare lo sviluppo alternativo. Facendo un passo indietro
nel tempo, “Come è nata” gli chiediamo, “la
Confederazione del tropico?”.
“All’epoca della Guerra del Chaco, 1934 - 35, il Chapare era
zona di confino e i prigionieri paraguaiani aprirono le prime
strade. La grande immigrazione si produsse negli anni ’70 e
’80, quando giunsero i contadini dell’altopiano. La mia famiglia
viveva nei pressi di Oruro, in un’area che non ha mai visto
l’intervento dello stato. In una notte una gelata si portò
via tutto il raccolto. Mia madre piangeva e mio padre beveva
al tavolo. Lo ascoltai dire: “qui, per quanto possiamo lavorare,
non faremo passi avanti”. Così partimmo per cercar terra
nell’oriente boliviano. Gli ultimi ad arrivare furono i minatori
licenziati nelle ristrutturazioni dei primi anni ’80, i quali
portarono la propria esperienza sindacale e cultura. L’ingiustizia
ci ha uniti. All’epoca della dittatura di García Mesa
[1980-81], bruciarono vivo nel suo campo un compagno di Chipiriri.
Era un ragazzo di 18 anni. Anch’io all’epoca ero molto giovane
e nella sede del sindacato ascoltavo i commenti sulle violenze
e le azioni dei militari. Organizzammo un centro giovanile e
un coordinamento, e con il tempo, ci rendemmo conto dell’importanza
del livello politico. Noi votavamo per un partito, e quando
questo giungeva al potere, ci castigava. Decidemmo di fondare
un nostro movimento. Ora c’è coscienza ideologica, identità
e capacità di organizzazione, cosa che il governo vede
come pericoloso e vorrebbe fare sparire. Nel tropico abbiamo
conquistato sei su sette municipi. Ciò che iniziò
in Chapare potrebbe riprodursi a Cochabamba, come in tutta la
Bolivia. Persino alcuni colonnelli, che non sono d’accordo con
quanto sta avvenendo, chiedono di unirsi a noi. Nel pomeriggio
avrò un incontro con un gruppo deluso da Juan Sin Miedo,
il sindaco di La Paz, che ora vuole privatizzare anche il cimitero”.
“Qual è la situazione attuale, con particolare riguardo
al Plan dignidad?”.
“Per noi il Plan Dignidad, come il Plan Colombia e il Plan Puebla
di Panama è un’iniziativa di guerra, orientata allo sterminio
dei popoli indigeni. Con l’avanzare del processo, ci si rende
conto del fallimento e si evidenziano fratture nello stesso
governo; ma noi, oltre alla repressione, dobbiamo sopportare
il terrorismo giuridico. Polizia, forze armate e alcuni imprenditori
mi stanno muovendo accuse che possono comportare fino a trenta
anni di carcere: organizzazione sovversiva, assassinio e sequestro.
E non solo a Evo Morales: dei sei dirigenti del Chapare, quattro
sono sotto processo. Ti faccio un esempio paradossale: l’anno
passato una nostra compagna era a Praga durante il blocco delle
strade, però fu imputata ugualmente...”.
“Nell’ultimo anno si pubblicarono notizie sulla presenza
di milizie armate in Chapare, su assalti e sequestri. Che sta
succedendo?”.
“C’è della verità in tutto questo. Ogni anno sono
morti più campesinos che militari; nel 2000 la relazione
si è ribaltata. É un parametro per comprendere
ciò che sta avvenendo: di fronte all’ingiustizia, mi
rendo conto che il popolo ha diritto alla ribellione. Non ci
sono guerriglieri in Chapare, ma gruppi di autodifesa. Ignorando
le istruzioni dei dirigenti e le decisioni collettive, alcuni
prendono l’iniziativa. D’alto canto la repressione si è
fatta insostenibile. Le denunce di violazioni dei diritti umani
sono quotidiane. Durante le operazioni si saccheggia, si bruciano
case, si occupano edifici pubblici. Ieri mi hanno informato
che stanno processando cinque professori di San Salvador e Guadalupe
per insurrezione armata. In realtà difendevano il diritto
all’educazione: quando arrivano i militari requisiscono il posto
sanitario e la scuola per farne alloggi per gli ufficiali”.
“In questa fase il sindacato come sta organizzando la lotta?”.
“Blocchi stradali, concentramenti, forme di resistenza passiva.
Cerchiamo di rendere pubblico quanto sta avvenendo e invitiamo
la stampa a essere presente”.
Coca zero?
“Perché siete giunti alla rottura con il governo
e sono falliti i precedenti piani orientati a introdurre gradualmente
le coltivazioni alternative?”.
“Parlare di ‘Coca zero’ significa parlare di apocalisse andina.
Fintanto ci saranno quechua e aymara, non ci sarà Coca
zero, perché la coca è una parte essenziale della
nostra cultura. I campesinos dicono: ‘stanno tagliando la pianta
di coca, però non stanno tagliando le nostre mani’. La
legge parlava di ‘giusto compenso’ e d’indennizzo, ma questo
i governi non lo hanno mantenuto: diedero i compensi senza indenni
per le comunità. Lo sviluppo non giunse mai ed essere
alternativo. ‘Alternativo’ significa sostituire alla coca prodotti
che le siano equivalenti o superiori sul piano del mercato,
ma ciò non può avvenire per questioni di politica
macroeconomica. La libera importazione sta rovinando la nostra
economia. Il governo incentivava la coltivazione di riso, tuttavia
il prezzo del riso brasiliano era più basso: di fatto,
era più conveniente coltivare coca. Vogliono sradicare,
sradicare... Non si tratta di lotta al narcotraffico ma di interessi
geopolitici. Gli Usa pretendono di imporre il loro sistema agli
altri paesi: si lancia il Plan Colombia per combattere il terrorismo,
e dietro ci sono le multinazionali. Per il Chapare passerà
la via trans oceanica; ci sono giacimenti di gas e petrolio.
Hanno paura che le sollevazioni indigene possano pregiudicare
i loro interessi. Vogliono ridurre il territorio nelle mani
di otto imprese e ora offrono compensi di 2.000, 2.500 dollari
per ettaro, ma perché i campesino lascino i loro campi.
Non vogliamo quei soldi”.
“Si divulgò la notizia che alcuni cocaleros abbiano
sottoscritto gli accordi e in seguito siano tornati a piantare
coca...”.
“La legge parlava di giusto compenso e di sviluppo alternativo.
Hanno compensato, ma non c’è stato sviluppo. I soldi
sono sfumati e i coltivatori dovettero domandarsi: ‘e ora, che
facciamo?’ I piani si tradussero in impoverimento, indebitamento
e hanno favorito la disgregazione delle famiglie. Le donne non
volevano sradicare, però s’impose il marito firmando
gli accordi e accettando il denaro. Poi, dato che non c’erano
più soldi, ripresero i vecchi costumi e i funzionari
conclusero: ‘ricevono denaro con una mano e con l’altra piantano
coca”.
“Gli arresti per detenzione di pasta base tra i cocaleros
sono in aumento; non si aggrava il rischio che il movimento
si leghino ai narcotrafficanti?”.
“Questa è l’altra accusa constante; si dice che il 90
% della coca del Chapare vada a loro, ma è una menzogna...”.
“Il ‘Juguete rabioso’ pubblicò lo scorso giugno una
sua dichiarazione nella quale si confermava questa tesi...”
(1). “Non ho mai detto questo. Quando la coca matura, un 60%
va al mercato legale e un 40 può andare a quello
illegale. Questo non significa che ci sia una relazione diretta
con il narcotraffico. Non si può santificare tutto il
movimento ed è difficile valutare le proporzioni del
fenomeno. Ci sono sindacati che hanno introdotto multe per i
trasgressori. Si potrebbero controllare i flussi illegali tramite
le confederazioni, ma le autorità si oppongono. Fui testimone
del fatto che un sindacato cercò di ostacolare l’ingresso
dei precursori [agenti chimici per la fabbricazione della pasta
base], ponendo blocchi alle strade d’accesso, ma quelli dell’umopare
li facevano regolarmente saltare. In realtà è
il governo che alimenta il narcotraffico tramite la polizia”.
“Esiste la coscienza da parte dei campesinos delle conseguenze
dell’attuale produzione massiccia di cocaina?”.
“Dev’essere chiaro che non abbiamo mai difeso il narcotraffico;
abbiamo accettato il principio della riduzione perché
si giunga a produrre per il solo mercato legale. Il problema
del traffico internazionale è d’altro lato legato ai
consumatori. É necessario che Europa e Usa combattano
il consumo. Quechua e aymara sono totalmente estranei alla cultura
della cocaina”.
Il ruolo della grande impresa
“Qual è la proposta della Confederazione per giungere
a una reale pacificazione nel Chapare?”.
“Se il governo vuole farla finita con la violenza e affrontare
la povertà, deve riconoscere una piccola estensione di
coca per famiglia, coca destinata al consumo legale. In secondo
luogo, è necessario industrializzare i prodotti regionali.
Si tratta di frutta tropicale, che potrebbe venire lavorata
e quindi commercializzata all’estero. Fortunatamente l’80 %
dei nostri contadini possiede i titoli di proprietà.
Il problema è come riscattare nuova terra, all’interno
della legge Inra. La legge è stata concepita sul solco
di un modello economico che permette di concentrare molta terra
in poche mani, in modo che molte mani rimangano senza terra.
L’attuale politica d’incentivo agli imprenditori è una
forma ulteriore per alimentare il narcotraffico: le grandi imprese
tolgono mercato ai piccoli produttori, che tornano alla coca”.
“Si parla molto delle divisioni all’interno del movimento
campesino: qual è la relazione con Alejo Veliz, Felipe
Quispe del sindacato e con le associazioni indigene dell’Oriente
boliviano?”.
“I settori più combattivi sono a Cochabamba e a La Paz.
Quelli dell’oriente non hanno mai avuto molto seguito nell’azione,
tranne che nel ’92, quando riuscirono a organizzare una gran
marcia, però finanziata dalle ong. Chi ha ascendente
a Cochabamba è Moisés Torres. Alejo non ha alcun
seguito e deplorabilmente è diventato superbo, ha litigato
con me e ora anche con Felipe Quispe. Il quale ha la sua base
in tre province di La Paz e si crede un dirigente nazionale,
ma rappresenta solo gli aymara. Alejo invece si abituò
a chiedere soldi e ora, che ha rotto con il governo, sta spillando
denaro al Mnr, il partito che dovremmo combattere. Lamento molto
che la corruzione abbia contagiato i dirigenti campesino, e
soprattutto la Centrale operaia, di questi tempi già
tanto in crisi. Ci sono leader corruttibili e leader incorruttibili.
Quando il governo non vuole mantenere le promesse, comincia
a comprare i dirigenti. Attualmente nelle miniere quasi non
ci sono operai e il sindacato non ha base. Gli unici che rispondono
sono i contadini, e qui si comprende il nostro avvicinamento
a Felipe Quispe. Verrà un momento in cui tutti i settori
si uniranno nella lotta comune”.
“Si prepara una nuova sollevazione generale?”.
“Si, siamo in questo ordine di idee. E non solamente come aymara,
quechua o movimento campesino, ma come piccoli proprietari,
minatori, trasportatori... Ci stiamo consultando e definendo
un progetto. Abbiamo intenzione di creare un vertice sociale
che si opponga a quello dei politici, delle forze armate e della
chiesa. L’attività di quest’ultima in Bolivia è
molto discussa; i gerarchi cattolici salvarono l’Mnr, che è
uno dei partiti che stanno distruggendo il paese. Dobbiamo creare
un nuovo modello economico e un nuovo sistema di governo.
Cochabamba, settembre 2001
Massimo Annibale Rossi
1. Wilson García Mérida, Chapare: una guerra
en curso, in “El juguete rabioso”, A. II, N. 34, La Paz,
10 giugno 2000, pp. 8-9.
Lonely Planet horror tour
Per i turisti sono una meta da pochi dollari.
Ma per chi ci lavora le miniere di Potosì sono qualcosa
di molto diverso. A volte mortale.
Ad ogni angolo, grandi cartelli promozionano
il tour nelle miniere de Potosí. I pieghevoli descrivono
le terribili condizioni dei minatori come un’attrattiva, e ai
turisti per pochi dollari si offre la possibilità di
tirare due picconate alle vene. Ciò che non si pubblicizza
sono i morti: 16 nei soli sei mesi passati. Gli ingressi, che
furono armati con travature di legno al tempo della colonia,
fanno contrasto con le gallerie interne. Mancano rinforzi, condutture
d’areazione; le misure di sicurezza più elementari. I
soci guadagnano in relazione al prodotto ed esistono marcate
differenze tra le singole cooperative in funzione alla ricchezza
dei giacimenti. Nelle più povere ci si contendono gli
attrezzi fondamentali. I minatori, quando non incontrano il
metallo, scendono nelle aree a rischio, coscienti di mettere
a repentaglio la vita.
La maledizione del Cerro Rico ha una lunga storia. I giacimenti
furono scoperti da un indigeno nel 1544. Il lavoro coatto fu
introdotto nel 1572 e la città sul tetto d’America si
trasformò nella maggiore riserva d’argento dell’Impero
ispanico. Le donne preferivano uccidere i loro figli piuttosto
che mandarli nelle gallerie e gli hidalgo iniziarono a importare
manodopera schiava. L’olocausto di Potosì fu più
lento di quello del Terzo Reich, ma utilizzava i medesimi strumenti,
aveva finalità simili e ottenne gli stessi risultati.
Le condizioni di lavoro non migliorarono molto con la fine della
colonia, tuttavia i minatori ottennero il diritto di vedere
la luce del sole e di morire di silicosi qualche anno più
tardi. Nel XIX secolo i filoni iniziarono a esaurirsi, finché
cento anni più tardi nel Cerro fu trovato lo stagno.
La rivoluzione scoppiò solo nel 1952, quando gli operai
si unirono ai campesinos per abbattere la dittatura militare
e restaurare il legittimo governo di Paz Estenssoro. Nel ’53
fu varata la legge di nazionalizzazione e nasceva la Compagnia
mineraria di Bolivia: i minatori si erano trasformati in protagonisti
della vita nazionale e le loro condizioni iniziarono progressivamente
a migliorare. Diciassette anni prima erano state fondate le
prime cooperative, destinate ai reduci della Guerra del Chaco
contro il Paraguay. Si trattava di lotti marginali, dati in
concessione a ex militari che si erano ammalati nella selva,
a contatto con un clima al quale non erano abituati.
Le conquiste furono ridimensionate dagli anni di dittatura che
succedettero il golpe del 1964 e dall’impoverimento dei filoni.
Nell’80 iniziarono i programmi per reinsediare i minatori disoccupati,
molti dei quali divennero cocaleros nel Chapare. Nel
decennio successivo, molte miniere furono chiuse o date in concessione
alle nascenti cooperative. Le condizioni di vita peggiorarono
ulteriormente, fino all’acme degli ultimi anni. Potosí,
che nel XVIII secolo fu la città più grande dell’America
latina, si sta spopolando. I progetti di sviluppo non sono stati
avviati e negli ultimi anni molti sono andati a ingrossare l’esercito
dei sub occupati delle periferie di La Paz e Cochabamba.
Parla Antonio Pardo Guevara
Per parlare della situazione, abbiamo incontrato Antonio Pardo
Guevara, vice presidente della Federazione dipartimentale delle
cooperative minerarie, la quale rappresenta 42 affiliate, per
un totale di 30.000 lavoratori. “Abbiamo avuto” afferma, “una
caduta del prezzo dell’argento del 40% negli ultimi 15 anni.
A partire dall’85 il governo iniziò a cedere le nuove
miniere ai privati, contraddicendo i presupposti della nazionalizzazione.
Le cooperative continuano a sfruttare bocche marginali e le
condizioni sono divenute insostenibili. Nei due anni passati,
abbiamo avuto 20 morti e 60 invalidi e negli ultimi mesi le
statistiche si sono paurosamente impennate. Si tratta di vittime
del gas, delle esplosioni, di cedimenti e frane nelle gallerie.
Il livello delle strutture sanitarie è bassissimo e contiamo
un 65 % di minatori affetti da malattie polmonari, in particolare
silicosi e tisi. Coloro che certificano la propria invalidità
ricevono una pensione di 850 bolivar, che non bastano per mantenere
le famiglie, e continuano a lavorare. Da noi la speranza di
vita è tra i 35 e 40 anni; quasi nessuno arriva a prendere
la pensione di vecchiaia”.
Nel marzo di quest’anno la federazione ha presentato una proposta
di rilancio, centrata sulla cessione di un impianto di raffinamento
del materiale grezzo da parte del Comibol. L’impresa così
costituita potrebbe gestire autonomamente il processo di separazione
del metallo dalle scorie e commercializzare direttamente il
prodotto. Si richiede al governo di ricostituire il Ministero
delle miniere e di realizzare un cambio nell’attuale politica
di privatizzazione, favorendo le cooperative i cui giacimenti
sono in corso di esaurimento. In particolare sarebbero coinvolti
i minatori del Cerro Rico, ai quali si dovrebbero concedere
i crediti indispensabili per avviare la meccanizzazione.
Ma le Cooperative...
La Cooperativa unificata di Potosí è la più
grande della zona e conta 5.000 soci. Dalle gallerie del Cerro
ricava argento e stagno; recentemente è cambiato il metodo
di lavoro e i gruppi si danno il cambio per turni di 24 ore.
Non esiste riposo domenicale e i soci possono rimanere sottoterra
a loro discrezione, dato che le cooperative non sono soggette
alla normativa nazionale sul lavoro. Si dorme e si mangia nella
miniera e si presenta l’autogestione come una conquista, tuttavia
esiste un grave problema di alcolismo. Tutti sono coscienti
delle conseguenze della mancanza di misure di sicurezza, “ma
mancano i soldi...”. Nonostante i controlli della confederazione,
ci sono segnalazioni di lavoro minorile e di operazioni in aree
a rischio. A differenza dei salariati, i cooperativisti non
posseggono una controparte rivendicativa: il compenso dipende
dalla fortuna, dal prezzo di mercato, dalla generosità
del Cerro. I più anziani ripetono che le attese della
rivoluzione furono deluse e che le condizioni sono tornate a
prima del ’52.
Gli effetti della privatizzazione si sono fatti sentire anche
a livello di previdenza sociale. Dal 1997, la contribuzione
è divenuta volontaria; molti hanno smesso di pagare e
nei prossimi anni, a causa della silicosi, rischiano di rimanere
senza sostento. Quelli della Unificata sono in ogni caso da
considerare dei privilegiati, giungendo a guadagnare 1.500 bolivar,
224 dollari per mese. Nelle miniere marginali la situazione
è anche peggiore. La proprietà dei giacimenti
è rimasta alla Comibol, alla quale le cooperative pagano
un canone annuale. Lo stato, che nel ’97 abolì il Ministero
delle miniere, fino a ora non ha accettato di distribuire nuovi
e più produttivi lotti. La cessione avrebbe permesso
di accedere agli indispensabili crediti. I processi di estrazione
rimangano gli stessi degli anni ’50, ed esistono miniere dove
il lavoro si svolge ancora manualmente, come al tempo della
colonia.
La Cooperativa 27 di marzo trae il proprio nome dalla data di
fondazione, quando nel 1988 la Comibol cedette sette bocche
ai propri operai. Molti di coloro che ottennero la concessione
sono morti e la maggioranza degli 82 soci e dei 140 salariati
ha meno di 25 anni. Caso unico a Potosí, soci e dipendenti
guadagnano lo stesso stipendio, proporzionale all’argento, allo
zinco, allo stagno cavato dalle profondità del Cerro
un tempo ricco. Benedicto Llano Colque, presidente, ci riceve
nel piccolo ufficio a lato dell’ingresso principale. È
orgoglioso di affermare che tutti i lavoratori pagano la quota
di previdenza e che i libri contabili sono in ordine e a nostra
disposizione: “la nostra è una cooperativa democratica
e solidale”. Gli incarichi sociali sono rotativi e lui, come
il vice, rientrerà nella miniera al termine di un anno
di mandato. Tutti si dicono felici della nostra visita e manifestano
la speranza che divulgando la situazione, qualcosa possa migliorare.
“Un grande passo in avanti, oltre alla meccanizzazione, sarebbe
commercializzare e vendere direttamente. Avremmo bisogno di
un nostro impianto di separazione, che verrebbe a costare 50.000
dollari”.
Dalla fondazione, nella 27 di marzo sono avvenuti sette incidenti
mortali. Tuttavia, come invece generalmente accade, i figli
delle vittime non furono costretti a prendere il posto del padre:
la cooperativa riconosce un salario minimo alle famiglie. I
più esposti alla silicosi sono i perforatori, che usano
i martelli pneumatici, ma in tutta la miniera ci sono solo quattro
maschere. Un secondo problema si riferisce all’acqua. Bagnando
costantemente le superfici di lavoro, la polvere nebulizzata
diminuirebbe sensibilmente: “sarebbero necessari una pompa e
delle tubazioni, che ancora non abbiamo”. Entriamo dall’ingresso
principale: le gallerie si sviluppano in più livelli,
tuttavia solo le prime centinaia di metri sono rinforzate. In
una piccola grotta riposa lo “zio”, idolo in fango che rappresenta
le divinità delle profondità della Pacha mama.
È tradizione che al varcare la soglia, gli si offrano
foglie di coca, tabacco e alcol.
Grido di pietra
Incontriamo i primi minatori al lavoro. Sono giovani di vent’anni,
dei quali sette passati sottoterra. Cavano con il piccone in
uno stretto pozzo a lato della galleria, l’immancabile globo
di coca sotto la guancia, per turni di otto ore. Il minerale
è fatto salire con una carrucola a mano e trasportato
con carriole fin dove giungono i binari. Nelle gallerie non
c’è corrente elettrica e i vagoni vengono spinti da gruppi
di tre operai. In alcuni tratti, i binari mancanti sono sostituiti
da listelli di legno, e i vagoni si incagliano regolarmente.
“Come definisci le condizioni di vita dei minatori?”.
“A volte si guadagna, a volte non si guadagna... Dipende dal
valore del minerale. Portiamo a casa una media di 800 bolivar
al mese. Nella mia famiglia, tutti lavoriamo nella miniera.
Spesso le travi ci cadono addosso e ci feriscono. Abbiamo bisogno
di macchinari, di attrezzi: la sicurezza è la cosa più
importante”. “Hai un sogno nella vita?”. “Per noi non
c’è altro che la miniera; però, a pensarci bene,
mi piacerebbe fare il muratore”.
La cooperativa Grido di pietra non è meccanizzata. Dal
1994, quando la miniera fu ceduta, molti soci se ne sono andati.
L’atmosfera è pesante: i filoni si stanno esaurendo,
ci sono differenze di compenso tra soci e salariati e di misure
di sicurezza semplicemente non si parla. Qui la maggioranza
dei lavoratori non paga la previdenza. L’ingresso è un
orifizio nella parete della montagna, dal quale emergono i visi
esausti e infangati dei minatori. Si tratta di 18 soci e 40
peones, con un salario medio di 450 boliviano. Si lavora con
piccone e dinamite, e il minerale viene trasportato a spalla
e con carriole. Le gallerie sono sature del fumo delle esplosioni.
Giungiamo a una grotta sotterranea: un uomo in equilibrio sopra
un tondino in ferro, con la mazza, con regolarità, batte
un punteruolo conficcato nella roccia. Nel foro infilerà
un candelotto di dinamite. Un turista, elmetto e impeccabile
impermeabile giallo, vuole provare per tre minuti l’emozione
d’essere un “minatore del XVIII secolo”.
Massimo Annibale Rossi
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