Il male esiste. Concedetemi questa scarsamente
scientifica dichiarazione. Il male fa la pubblicità a
sé stesso. Ma, contrariamente alle altre forme di pubblicità,
quella del male non serve a mettersi in mostra: serve a nascondersi.
Il male non è il dolore che esplode fragorosamente attirando
lo sguardo di tutti: il male è l’inosservata lettera
nascosta, introvabile perché perennemente sotto il nostro
naso. Fa parte del paesaggio, ci abbiamo fatto l’abitudine,
non lo smaschereremo mai, finché un Dupin non ci avverta,
non ci faccia dirigere l’attenzione sulle piccole percezioni
che non ci disturbano giacché sono integrate, dalla nostra
pigra ed egoista coscienza di quadrupede sceso dagli alberi
nella savana, nel naturale dinamismo dell’ambiente circostante.
Non è l’adrenalina, l’arma chimica del male: è
la morfina. Il male compie stragi e abbatte le torri gemelle
del World Trade Center di New York. Ma non lo fa per combattere
guerra o dichiarare la sua vittoria. Non è lì
che il male combatte la sua guerra; non è lì che
il male dichiarerà la sua vittoria. Il male non è
una questione di quantità, ma di qualità. Mille
morti pesano sulla bilancia del male quanto un gatto schiacciato
sull’autostrada; una città deturpata da un terremoto
vale quanto un tumore al pancreas, nella partita doppia della
sua contabilità; una guerra civile, quanto un neonato
abbandonato in un cassonetto; la minaccia di un’arma, quanto
il ricatto del ricco nei confronti del povero; la prosperità
dell’empio, quanto le piaghe del giusto. Il terrorismo, l’Olocausto,
le Crociate, le invasioni barbariche, sono soltanto pubblicità.
Pubblicità dissimulante. Pubblicità affidata a
quel fantastico spot che è il mondo, a quello spettacolare
mezzo che è l’umanità. Allora, dove si cela il
male? Nella macchia, sulla montagna, come i partigiani; nelle
piccole cose buone che ci lavano la coscienza.
In questi giorni ho avuto modo di ascoltare spesso la radio,
e accanto alle notizie di terrore, di guerra e di rappresaglia,
ho ascoltato anche quella che proclamava l’inizio di “Trenta
ore per la vita”, condotto da Lorella Cuccarini. Avete mai pensato
a cosa succede durante manifestazioni di questo tipo, e in generale
facendo beneficenza? Molte persone di buon cuore e di buona
volontà offrono denaro per finanziare la ricerca sul
cancro, o per mandare medicinali ai bambini africani, ecc. Ma
vi siete mai chiesti come funziona la cosa? Sembra, ed è,
scontato. Le mie cinquemila lire servono per acquistare una
scatola di fiale di antibiotico che cureranno un malato. E così
sembrano cinquemila lire sante. Ma quel denaro andrà
nelle tasche dell’industria farmaceutica che produce le fiale,
producendo un guadagno, poiché di San Francesco ce n’è
uno solo, e poiché il valore di un prodotto è
uguale al lavoro impiegato per produrlo: il resto è plusvalore.
Ed ecco il nido del male: ecco un produttore che si nutre, agghiacciante
vampiro, del virus Ebola, della leucemia, della broncopolmonite,
della fame…
Direte voi: ma se facessimo pagare le fiale quanto valgono in
realtà (cioè cinquecento lire), o peggio ancora:
se le dessimo via gratis, di che pane si nutrirebbero quei lavoratori
che producono le fiale, quei ricercatori che sintetizzano l’antibiotico,
ecc.? Bella domanda. Come evitare i terremoti? Come ricucire
la faglia di San Antonio? Come guarire da un glioblastoma puntiforme,
dottor Green? Come nascere con solo due cromosomi 21? Come riconoscere
il serial killer? Come impedire il deragliamento del treno?
Come evitare quei fari abbaglianti che acciecano le mie pupille
sensibili (miao!) e mi bloccano approfittando del mio istinto?
Come lenire le piaghe di Giobbe?
Eccolo lì, il male: dietro il denaro, dietro la beneficienza,
dietro il lavoro, dietro la natura, dietro il mercato, dietro
la vulnerabilità e la mortalità dell’essere vivente.
Residuo irriducibile della relazione sociale, compravendita
di sangue, scambio di potere, fraintendimento di risorse. Ma
noi ci riempiamo il cuore di obbrobrio davanti a un aereo impazzito
che sfonda un grattacielo, e intanto accarezziamo con compiacimento
ed endorfinica commozione la siringa che regaliamo al malato,
senza renderci conto che quella nostra mano tocca il cuore pulsante
della strage, rovista fra gli intestini nudi del disastro, scompiglia
i capelli polverosi di cinquemila vittime delle mie cinquemila
lire.
Carlo E. Menga
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