Non mi sarebbe spiaciuto, ve lo confesso,
assistere all’incontro dei primi di ottobre tra Berlusconi e
gli ambasciatori islamici, quello in cui il capo del governo
italiano, con la solita faccia di bronzo, ha giurato e spergiurato
di non avere assolutamente detto quello che, in tema di superiorità
della “civiltà occidentale” sull’Islam, tutti gli avevano
sentito dire. Dev’essere stato un bel match. Quei degni diplomatici,
naturalmente, hanno dovuto far finta di credere a quanto veniva
loro assicurato, ma suppongo abbiano trovato il modo di far
capire al loro disinvolto interlocutore che, in futuro, avrebbe
fatto meglio a riflettere prima di parlare. Una pretesa in sé
ragionevole, ma, nel caso, illusoria, perché il nostro
presidente del consiglio ama parlare e non è sempre disposto
a riflettere e il suo modello comportamentale, comunque, ricorda
assai quello del bambino, che appena libero dalla sorveglianza
della maestra ne approfitta per dire le parolacce, salvo poi
negare, quando si giunge al redde rationem, di aver detto
alcunché.
E dire che quando, una decina di giorni prima, Berlusconi, a
Berlino, aveva portato la sua pietruzza nella dilagante polemica
contro il “relativismo culturale”, avevo avuto, per un brevissimo
istante, la tentazione di dargli, una volta tanto, ragione.
Non perché confidi, come lui, in alcun primato o in alcuna
supremazia dell’Occidente, naturalmente, ma perché sono
davvero un po’ stanco, come immagino voi, di quella forma di
relativismo istituzionale secondo la quale usi, costumi e valori
altrui, proprio perché altrui, vanno, se non rispettati
e ammirati, almeno sottratti a un franco e sincero giudizio.
Di una tolleranza che rispetta quello in cui credono gli altri
solo perché a crederci sono, appunto, degli altri, mi
sembra sia il caso di diffidare un po’. Io credo, al contrario,
che qualsiasi presa di posizione umana meriti di essere valutata
e giudicata, in nome di quell’umanità che, al di là
delle opzioni culturali, ci accomuna tutti. Non credo che si
manchi di rispetto a nessuno rifiutandosi di condividere le
sue credenze e mi sembra doveroso, ove quelle credenze appaiano
errate e nocive, dichiararlo con quanta più chiarezza
possibile.
Quella dell’Islam è una grande civiltà, che può
vantare una storia gloriosa e delle notevoli realizzazioni,
ma alcuni dei suoi atteggiamenti attuali mi sembrano, senza
offesa, un po’ discutibili. Non mi riferisco soltanto alla vexata
quaestio della posizione delle donne nella maggior parte
dei paesi islamici, che pure non è problema da poco.
Mi sembra, più in generale, che in molti di quei paesi
si tenda a dare ai portati della tradizione più peso
di quanto, francamente, non meritino e che da questo atteggiamento
discenda, di giocoforza, una serie di conseguenze piuttosto
gravi, quali un deficit generale di democrazia e la difficoltà
nel separare, sul piano ideologico e su quello dell’organizzazione
sociale, gli elementi di natura religiosa da quelli puramente
civili. Il problema non riguarda soltanto l’Islam, naturalmente
– dobbiamo fare i conti anche noi con i nostri Wojtyla e i nostri
Formigoni – ma appunto per questo merita di essere posto. Come
merita sempre di essere posto il problema dell’oppressione e
della prevaricazione, ovunque si eserciti e in nome di qualsiasi
pretesa ideale venga esercitato.
Più sofferenze e più lutti
Naturalmente la tentazione di dar ragione a Berlusconi mi è
passata subito. È fin troppo ovvio che lui con tutto
questo non c’entra. I tipi come lui concepiscono i rapporti
tra le culture in termini di superiorità e di inferiorità,
come a dire che loro si considerano superiori agli altri (e
quindi si sentono autorizzati a disporre ad arbitrio delle risorse
disponibili) e quando qualcuno manifesta un pur timido disaccordo
sono sempre pronti a risolvere la questione a suon di botte.
È una pretesa, questa, in cui nessuna persona seria può
riconoscersi, anche perché è intrinsecamente pericolosa.
Di fatto, la superiorità dell’Occidente come la intendono
loro ha creato, in questo povero mondo, più sofferenze
e più lutti di quante ne abbia mai provocato la supposta
arretratezza delle società tradizionali.
Le culture, in fondo, non esistono. Sono delle entità
teoriche, dei flatus vocis sotto i quali può essere
comodo raggruppare le più varie manifestazioni ideologiche
e sociali. Sappiamo tutti che non c’è un unico Islam,
come non c’è un unico Occidente o un unico Cristianesimo.
Le rispettive definizioni dipendono dai criteri di classificazione
e giudizio che di volta in volta decidiamo di utilizzare o di
non utilizzare. La pretesa di fare di quelle astrazioni un soggetto
concreto di valore risale a quel filone (reazionario) del pensiero
sociologico ottocentesco che utilizzava in senso anti-illuministico
la contrapposizione tra “comunità” e “società”,
tra Gemeinschaft e Gesellschaft. La libertà
dei singoli, in quella prospettiva, tende a identificarsi con
l’adesione al sistema di valori della comunità in cui
sono inseriti. È la libertà, sempre cara a chi
detiene comunque il potere, di aderire e obbedire, consolandosi
come si può sul piano ideologico dei propri lutti e delle
proprie sofferenze.
Il fatto è che lutti e sofferenze sono ripartiti – in
modo, certo, ineguale – tra gli uomini tutti, quali che siano
la società e la cultura in cui ciascuno si riconosce.
Il problema, allora, non è quello di giudicare in astratto
i sistemi ideologici e sociali: è quello di riconoscere,
nella varietà dei modi e delle forme storiche, le costanti
dell’oppressione e della negazione dei diritti. E senza fare
eccezioni per nessuno, perché noi occidentali siamo sempre
pronti a vantarci della nostra democrazia, ma possiamo farlo
soltanto a patto di occultarne ai nostri stessi occhi il funzionamento
reale. Non c’è società al mondo, tanto meno la
nostra, in cui una minoranza di arroganti bastardi non sfrutti
spietatamente una maggioranza di sottomessi. Su questa contrapposizione,
più che su quella tra Oriente e Occidente, o tra Cristianesimo
e Islam, mi sembra valga la pena di lavorare.
Carlo Oliva
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