rivista anarchica
anno 31 n. 276
novembre 2001


dopo l'11 settembre

Tra il dire e il fare
di Antonio Cardella

A parole, tutti solidali con gli USA e con Bush. Ma se...

Debbo confessarvi, da uomo passabilmente razionale ed equilibrato, di cultura laica, che non capisco come si possa convivere per mesi, forse per anni, con la prospettiva di essere parte attiva in un progetto di omicidio indiscriminato di massa.
Metto nel conto tutto: le frustrazioni di un popolo oppresso, la necessità di controbilanciare lo strapotere del nemico, l’arditezza del disegno operativo, la difficoltà di scegliere un bersaglio che, per essere tale, deve avere un alto valore simbolico ed è, quindi, adeguatamente protetto.
Ma è proprio nella scelta operativa che trovo, nell’attentato di New York, un valore aggiunto di efferatezza, non necessario, un fanatismo religioso che, a mio giudizio, non consente di perorare alcuna causa, condivisibile o meno che sia.
Mi stanno bene le due torri, simbolo della potenza e dell’arroganza economica (e non) dell’opulento occidente, ma perché colpirle nell’ora in cui erano più frequentate da decine di migliaia di persone inermi, che non incarnavano certo, nella stragrande maggioranza, il simbolo di tale potere e comunque non più di quanto non lo incarni ciascuno di noi che, per sopravvivere, è forzatamente complice, come prestatore d’opera o consumatore, del sistema capitalistico?
Questo dettaglio (diciamo così) non riesco a digerirlo e richiama alla mia mente la ferocia degli integralisti islamici che, in Algeria, sgozza da decenni, senza il minimo moto di pietà umana, centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini inermi dei più sperduti e poveri villaggi dell’entroterra.
Né mi commuove l’assai discutibile coraggio dei kamikaze, con i loro testamenti pubblici e le preghiere con le braccia incrociate attorno ad un kalasnikof.
Detto tutto questo con il massimo di chiarezza possibile, non mi sento di unirmi al coro di quanti sostengono che ci troviamo di fronte ad un mutamento radicale della politica mondiale: se correzione di rotta ci sarà, essa andrà nella direzione di una maggiore arroganza, di una reazione livorosa e cieca della bestia che si sente ferita e per la prima volta, vulnerabile nel proprio covo.
Bush ha subito esplicitato “urbi et orbi” il suo sentimento più profondo. Ha detto testualmente: “Noi libereremo il mondo dal male”, frase che, in fatto di integralismo fanatico non è seconda a nessuna e che fa il paio con l’altra, pronunciata da bin Laden: “Stermineremo gli infedeli senza pietà e con ogni mezzo”.
Certo tra il dire e il fare c’è di mezzo il fatidico mare e non credo che i popoli dell’occidente e quelli dell’oriente consentiranno a questi sedicenti unti dal Signore di perseguire i loro disegni deliranti. Questo però non significa che non si corrano pericoli assai seri.
Finora l’America ha giocato sullo scacchiere internazionale come in un suo campo privato, dove tutto era consentito a condizione che non interferisse con gli interessi a stelle e strisce, che sono poi gli interessi delle lobbies che pagano le spese dei presidenti che si avvicendano alla Casa Bianca e che presentano subito il conto agli eletti. Per tutelare questi interessi non si arretra di fronte a nessun ostacolo: si destabilizzano governi legittimi, si instaurano regimi militari spietati e brutalmente repressivi, si sconvolgono intere aree del pianeta e, infine, si cavalcano tigri, come lo stesso bin Laden, che poi, per destini tutt’altro che cinici e bari, finiscono col mordere la mano dei loro benefattori.
Questo gioco è costato all’intera umanità milioni di vittime, altrettanto innocenti di quanto non lo fossero gli sfortunati frequentatori dei due grattacieli newyorchesi e i passeggeri degli aerei lanciati contro il Pentagono e gli altri bersagli.
La novità assoluta dell’evento di cui ci occupiamo sta nel fatto che, questa volta, mancano le condizioni per scatenare la potenza militare contro uno stato, assunto come nemico da abbattere.
Forse è questa la vera ragione per cui i paesi tradizionalmente alleati dell’America e gli altri (Cina e Russia in testa) si sono subito dichiarati disposti ad appoggiare sul piano militare le iniziative che prenderanno contro i terroristi gli Stati Uniti: ve la immaginate una “task force” della NATO, messa insieme tra tutti i paesi aderenti che attacca qualche area sperduta dell’Afganistan? Sarebbe come sparare ad una mosca con un cannone, con il pericolo di rimanere imbottigliati nel traffico in strade praticamente inesistenti e sentieri impervi. E proprio nell’assurdità di una tale ipotesi sta il fatto che tutti i fedelissimi della NATO mostrano i muscoli, compreso il nostro Berlusconi, novello Feroce Saladino, e la Lucia Annunziata di turno, dal volto soffuso di austera preoccupazione ma che si vede lontano un miglio con quale ansia attenda il momento di indossare l’elmetto e di partire per una nuova crociata contro gli infedeli.
Per tutti questi paesi il discorso sarebbe assai diverso se si dovesse aprire un conflitto militare con tutto o anche soltanto con parte del mondo arabo. Allora il famoso articolo 5 dello statuto della NATO (che prevede la mobilitazione generale nel caso che uno dei paesi membri venga attaccato dall’esterno), andrebbe subito a farsi benedire. Allora l’unanimità di intenti si scioglierebbe come neve al sole, tanto contrastanti risulterebbero gli interessi in gioco.
Intanto né la Russia né la Cina sarebbero interessate ad una spedizione punitiva che le vedrebbe inevitabilmente al rimorchio di una potenza (e di una alleanza) che sono ben lontane dal considerare acriticamente alleata.


Il ruolo dell’Europa

Ma i contrasti maggiori, a mio giudizio, sorgerebbero dall’Occidente europeo, e per diversi ordini di motivi. Il primo di questi motivi è che il Medio Oriente lo abbiamo, se non proprio in casa, alle porte e consistenti minoranze islamiche vivono e lavorano in Francia, Germania, Inghilterra e in tutti gli altri paesi del continente. Un conflitto aperto di tal genere renderebbe fortemente instabili gli assetti sociali e le economie dei singoli Stati, generando o esasperando, sul piano della politica interna, conflitti etnici, religiosi e culturali che costituirebbero seri ostacoli allo sviluppo economico ed alla sicurezza dei cittadini.
Il secondo motivo – forse il più immediatamente importante – è che l’Europa, nel suo complesso, è sotto sforzo per un processo di unificazione che si rivela tutt’altro che semplice e che, per ragioni obiettive, la pone in concorrenza con la potenza economica degli Stati Uniti.
Le dinamiche capitalistiche, fondate in larga misura sulla logica della concorrenza, sulla capacità di conquistare mercati, di capitalizzare al meglio le risorse intellettuali, di frenare, quindi, le emorragie di cervelli per poter vendere e non acquistare (a caro prezzo anche in termini di indipendenza) brevetti e nuove tecnologie, non consentono indulgenze.
Cessato, quindi, il momento di suggestione emotiva, ciascuno si farà i conti in tasca e stabilirà la strategia adeguata per non presentarsi come la cenerentola del sistema. Allora non ci saranno fronti unici e il richiamo a presunti valori condivisi sarà assai flebile.
Tutt’altro discorso è invece quello sulle opportunità che l’attacco portato al cuore dell’America l’11 di settembre offre ai singoli regimi nazionali.
Lo hanno dichiarato più o meno esplicitamente tutti i responsabili dei dicasteri degli interni e della difesa: “da oggi, saremo (sarete) meno liberi”.
C’era da scommetterci.
Tutto il mondo occidentale attraversa un momento difficile. Nel complesso, l’economia non tira e si son dovuti rivedere al ribasso tutti gli indici di crescita, previsti forse con eccessivo ottimismo. E le prospettive nel medio termine non sono rosee. Cresce la disoccupazione e i consumi si deprimono. Le borse hanno dilapidato risorse immense (a scapito soprattutto dei piccoli risparmiatori), valutabili in milioni di miliardi, andati in fumo in pochi giorni e, in parallelo con la recessione in atto, non si capisce come possano recuperare. Sono più che una minaccia i processi inflativi, che elevano obiettivamente i livelli di scontro sociale.
In questo quadro, la presunta necessità di limitare la libertà dei cittadini per far fronte al pericolo del terrorismo – islamico o di qualunque altra origine – cade proprio a fagiolo: è una vera e propria manna dal cielo per portare a compimento disegni repressivi e per arginare le spinte di un’opposizione che cresce tra la gente comune più che in categorie ben definite o in raggruppamenti politici più o meno istituzionali.
Occorre, quindi, alzare più che mai la guardia, perché è vero che la storia non si ripete, ma le logiche del potere, quelle sì che si ripetono.


L’opzione nucleare

Tuttavia non vorrei che il tono di ciò che sin qui ho scritto appaia come un messaggio tutto sommato rassicurante circa l’eventuale globalizzazione del conflitto.
È vero: è difficile che sotto una spinta emotiva, interessi così diversi si ricompattino, che ci si aggreghi senza resistenze ad una crociata che è ben lungi dall’essere la crociata di tutto l’Occidente. Ma è altrettanto vero che, una volta innescato il conflitto, è difficile controllarne tutti gli sviluppi.
Nel suo delirio di onnipotenza, Bush ha minacciato che l’opzione nucleare non è esclusa nella lotta contro il terrorismo.
È difficile capire che cosa intenda veramente ottenere con una affermazione così azzardata.
Può darsi che voglia soltanto terrorizzare l’intero popolo afgano per spingerlo, sotto la minaccia del fungo mortale, a liberarsi autonomamente del cancro talebano, con un effetto domino sugli altri paesi che hanno fama di ospitare frange terroristiche.
Ma vi è anche la possibilità che si intenda ricorrere ad armi atomiche tattiche (come la bomba ai neutroni, che elimina ogni essere vivente, lasciando intatti gli ambienti), che potrebbero rispondere bene alla necessità di colpire uomini che si proteggono in cavità naturali, difficilmente raggiungibili da altre armi più o meno intelligenti.
L’effetto psicologico di una svolta così radicale del conflitto, potrebbe innescare processi di incalcolabile portata.
Sul piano degli attuali schieramenti, è prevedibile -nell’eventualità di un attacco nucleare - lo sganciamento dal fronte occidentale di quella parte del mondo mussulmano moderato per il quale il fondamentalismo rappresenta certo un problema interno ai singoli governi, ma non certamente tale da giustificare una soluzione bellica che provocherebbe non solo una strage immediata, ma comprometterebbe il futuro di intere generazioni.
Anche all’interno del fronte occidentale, l’opzione nucleare, se attuata, provocherebbe effetti destabilizzanti sui singoli regimi nazionali. Per cultura, prima ancora che per scelta di campo, l’Occidente europeo rifiuterebbe oggi gli attacchi indiscriminati, le reazioni cieche, comunque li si voglia giustificare. Non è un caso che, a distanza di circa sessant’anni, si continui a discutere sulla legittimità morale e politica delle bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki.
Poi, le suggestioni patriottarde, di cui tutti i servizi televisivi dall’America forniscono testimonianze ossessive quotidiane, non fanno vibrare le corde dei nostri sentimenti. L’inno nazionale, il “Dio salvi l’America”, cantato dalla star di turno per l’inaugurazione del canile municipale, con tanto di alza bandiera e palmo di mano compresso sul cuore, confessiamolo, ci fa un po’ sorridere, anche perché siamo, molto più di loro, vaccinati contro i virus del nazionalismo. E allora, se istintiva è stata la condanna per gli attentati alle torri gemelle di New York e la pietà per le vittime innocenti, ben diversa sarebbe la reazione dell’opinione pubblica europea se a questi fatti tragici si rispondesse con atti altrettanto efferati, soprattutto se unilateralmente decisi da una sola delle potenze chiamate alla lotta contro il nemico comune..
Tutto ciò a rigor di logica, anche se sono evidenti le preoccupazioni per un conflitto che potrebbe vanificare ogni tentativo di dare un ordine razionale agli eventi.

Antonio Cardella