Debbo confessarvi, da uomo passabilmente
razionale ed equilibrato, di cultura laica, che non capisco
come si possa convivere per mesi, forse per anni, con la prospettiva
di essere parte attiva in un progetto di omicidio indiscriminato
di massa.
Metto nel conto tutto: le frustrazioni di un popolo oppresso,
la necessità di controbilanciare lo strapotere del nemico,
l’arditezza del disegno operativo, la difficoltà di scegliere
un bersaglio che, per essere tale, deve avere un alto valore
simbolico ed è, quindi, adeguatamente protetto.
Ma è proprio nella scelta operativa che trovo, nell’attentato
di New York, un valore aggiunto di efferatezza, non necessario,
un fanatismo religioso che, a mio giudizio, non consente di
perorare alcuna causa, condivisibile o meno che sia.
Mi stanno bene le due torri, simbolo della potenza e dell’arroganza
economica (e non) dell’opulento occidente, ma perché
colpirle nell’ora in cui erano più frequentate da decine
di migliaia di persone inermi, che non incarnavano certo, nella
stragrande maggioranza, il simbolo di tale potere e comunque
non più di quanto non lo incarni ciascuno di noi che,
per sopravvivere, è forzatamente complice, come prestatore
d’opera o consumatore, del sistema capitalistico?
Questo dettaglio (diciamo così) non riesco a digerirlo
e richiama alla mia mente la ferocia degli integralisti islamici
che, in Algeria, sgozza da decenni, senza il minimo moto di
pietà umana, centinaia di migliaia di uomini, donne e
bambini inermi dei più sperduti e poveri villaggi dell’entroterra.
Né mi commuove l’assai discutibile coraggio dei kamikaze,
con i loro testamenti pubblici e le preghiere con le braccia
incrociate attorno ad un kalasnikof.
Detto tutto questo con il massimo di chiarezza possibile, non
mi sento di unirmi al coro di quanti sostengono che ci troviamo
di fronte ad un mutamento radicale della politica mondiale:
se correzione di rotta ci sarà, essa andrà nella
direzione di una maggiore arroganza, di una reazione livorosa
e cieca della bestia che si sente ferita e per la prima volta,
vulnerabile nel proprio covo.
Bush ha subito esplicitato “urbi et orbi” il suo sentimento
più profondo. Ha detto testualmente: “Noi libereremo
il mondo dal male”, frase che, in fatto di integralismo fanatico
non è seconda a nessuna e che fa il paio con l’altra,
pronunciata da bin Laden: “Stermineremo gli infedeli senza pietà
e con ogni mezzo”.
Certo tra il dire e il fare c’è di mezzo il fatidico
mare e non credo che i popoli dell’occidente e quelli dell’oriente
consentiranno a questi sedicenti unti dal Signore di perseguire
i loro disegni deliranti. Questo però non significa che
non si corrano pericoli assai seri.
Finora l’America ha giocato sullo scacchiere internazionale
come in un suo campo privato, dove tutto era consentito a condizione
che non interferisse con gli interessi a stelle e strisce, che
sono poi gli interessi delle lobbies che pagano le spese dei
presidenti che si avvicendano alla Casa Bianca e che presentano
subito il conto agli eletti. Per tutelare questi interessi non
si arretra di fronte a nessun ostacolo: si destabilizzano governi
legittimi, si instaurano regimi militari spietati e brutalmente
repressivi, si sconvolgono intere aree del pianeta e, infine,
si cavalcano tigri, come lo stesso bin Laden, che poi, per destini
tutt’altro che cinici e bari, finiscono col mordere la mano
dei loro benefattori.
Questo gioco è costato all’intera umanità milioni
di vittime, altrettanto innocenti di quanto non lo fossero gli
sfortunati frequentatori dei due grattacieli newyorchesi e i
passeggeri degli aerei lanciati contro il Pentagono e gli altri
bersagli.
La novità assoluta dell’evento di cui ci occupiamo sta
nel fatto che, questa volta, mancano le condizioni per scatenare
la potenza militare contro uno stato, assunto come nemico da
abbattere.
Forse è questa la vera ragione per cui i paesi tradizionalmente
alleati dell’America e gli altri (Cina e Russia in testa) si
sono subito dichiarati disposti ad appoggiare sul piano militare
le iniziative che prenderanno contro i terroristi gli Stati
Uniti: ve la immaginate una “task force” della NATO, messa insieme
tra tutti i paesi aderenti che attacca qualche area sperduta
dell’Afganistan? Sarebbe come sparare ad una mosca con un cannone,
con il pericolo di rimanere imbottigliati nel traffico in strade
praticamente inesistenti e sentieri impervi. E proprio nell’assurdità
di una tale ipotesi sta il fatto che tutti i fedelissimi della
NATO mostrano i muscoli, compreso il nostro Berlusconi, novello
Feroce Saladino, e la Lucia Annunziata di turno, dal volto soffuso
di austera preoccupazione ma che si vede lontano un miglio con
quale ansia attenda il momento di indossare l’elmetto e di partire
per una nuova crociata contro gli infedeli.
Per tutti questi paesi il discorso sarebbe assai diverso se
si dovesse aprire un conflitto militare con tutto o anche soltanto
con parte del mondo arabo. Allora il famoso articolo 5 dello
statuto della NATO (che prevede la mobilitazione generale nel
caso che uno dei paesi membri venga attaccato dall’esterno),
andrebbe subito a farsi benedire. Allora l’unanimità
di intenti si scioglierebbe come neve al sole, tanto contrastanti
risulterebbero gli interessi in gioco.
Intanto né la Russia né la Cina sarebbero interessate
ad una spedizione punitiva che le vedrebbe inevitabilmente al
rimorchio di una potenza (e di una alleanza) che sono ben lontane
dal considerare acriticamente alleata.
Il
ruolo dell’Europa
Ma i contrasti maggiori, a mio giudizio, sorgerebbero dall’Occidente
europeo, e per diversi ordini di motivi. Il primo di questi
motivi è che il Medio Oriente lo abbiamo, se non proprio
in casa, alle porte e consistenti minoranze islamiche vivono
e lavorano in Francia, Germania, Inghilterra e in tutti gli
altri paesi del continente. Un conflitto aperto di tal genere
renderebbe fortemente instabili gli assetti sociali e le economie
dei singoli Stati, generando o esasperando, sul piano della
politica interna, conflitti etnici, religiosi e culturali che
costituirebbero seri ostacoli allo sviluppo economico ed alla
sicurezza dei cittadini.
Il secondo motivo forse il più immediatamente
importante è che l’Europa, nel suo complesso,
è sotto sforzo per un processo di unificazione che si
rivela tutt’altro che semplice e che, per ragioni obiettive,
la pone in concorrenza con la potenza economica degli Stati
Uniti.
Le dinamiche capitalistiche, fondate in larga misura sulla logica
della concorrenza, sulla capacità di conquistare mercati,
di capitalizzare al meglio le risorse intellettuali, di frenare,
quindi, le emorragie di cervelli per poter vendere e non acquistare
(a caro prezzo anche in termini di indipendenza) brevetti e
nuove tecnologie, non consentono indulgenze.
Cessato, quindi, il momento di suggestione emotiva, ciascuno
si farà i conti in tasca e stabilirà la strategia
adeguata per non presentarsi come la cenerentola del sistema.
Allora non ci saranno fronti unici e il richiamo a presunti
valori condivisi sarà assai flebile.
Tutt’altro discorso è invece quello sulle opportunità
che l’attacco portato al cuore dell’America l’11 di settembre
offre ai singoli regimi nazionali.
Lo hanno dichiarato più o meno esplicitamente tutti i
responsabili dei dicasteri degli interni e della difesa: “da
oggi, saremo (sarete) meno liberi”.
C’era da scommetterci.
Tutto il mondo occidentale attraversa un momento difficile.
Nel complesso, l’economia non tira e si son dovuti rivedere
al ribasso tutti gli indici di crescita, previsti forse con
eccessivo ottimismo. E le prospettive nel medio termine non
sono rosee. Cresce la disoccupazione e i consumi si deprimono.
Le borse hanno dilapidato risorse immense (a scapito soprattutto
dei piccoli risparmiatori), valutabili in milioni di miliardi,
andati in fumo in pochi giorni e, in parallelo con la recessione
in atto, non si capisce come possano recuperare. Sono più
che una minaccia i processi inflativi, che elevano obiettivamente
i livelli di scontro sociale.
In questo quadro, la presunta necessità di limitare la
libertà dei cittadini per far fronte al pericolo del
terrorismo islamico o di qualunque altra origine
cade proprio a fagiolo: è una vera e propria manna dal
cielo per portare a compimento disegni repressivi e per arginare
le spinte di un’opposizione che cresce tra la gente comune più
che in categorie ben definite o in raggruppamenti politici più
o meno istituzionali.
Occorre, quindi, alzare più che mai la guardia, perché
è vero che la storia non si ripete, ma le logiche del
potere, quelle sì che si ripetono.
L’opzione nucleare
Tuttavia non vorrei che il tono di ciò che sin qui ho
scritto appaia come un messaggio tutto sommato rassicurante
circa l’eventuale globalizzazione del conflitto.
È vero: è difficile che sotto una spinta emotiva,
interessi così diversi si ricompattino, che ci si aggreghi
senza resistenze ad una crociata che è ben lungi dall’essere
la crociata di tutto l’Occidente. Ma è altrettanto vero
che, una volta innescato il conflitto, è difficile controllarne
tutti gli sviluppi.
Nel suo delirio di onnipotenza, Bush ha minacciato che l’opzione
nucleare non è esclusa nella lotta contro il terrorismo.
È difficile capire che cosa intenda veramente ottenere
con una affermazione così azzardata.
Può darsi che voglia soltanto terrorizzare l’intero popolo
afgano per spingerlo, sotto la minaccia del fungo mortale, a
liberarsi autonomamente del cancro talebano, con un effetto
domino sugli altri paesi che hanno fama di ospitare frange terroristiche.
Ma vi è anche la possibilità che si intenda ricorrere
ad armi atomiche tattiche (come la bomba ai neutroni, che elimina
ogni essere vivente, lasciando intatti gli ambienti), che potrebbero
rispondere bene alla necessità di colpire uomini che
si proteggono in cavità naturali, difficilmente raggiungibili
da altre armi più o meno intelligenti.
L’effetto psicologico di una svolta così radicale del
conflitto, potrebbe innescare processi di incalcolabile portata.
Sul piano degli attuali schieramenti, è prevedibile -nell’eventualità
di un attacco nucleare - lo sganciamento dal fronte occidentale
di quella parte del mondo mussulmano moderato per il quale il
fondamentalismo rappresenta certo un problema interno ai singoli
governi, ma non certamente tale da giustificare una soluzione
bellica che provocherebbe non solo una strage immediata, ma
comprometterebbe il futuro di intere generazioni.
Anche all’interno del fronte occidentale, l’opzione nucleare,
se attuata, provocherebbe effetti destabilizzanti sui singoli
regimi nazionali. Per cultura, prima ancora che per scelta di
campo, l’Occidente europeo rifiuterebbe oggi gli attacchi indiscriminati,
le reazioni cieche, comunque li si voglia giustificare. Non
è un caso che, a distanza di circa sessant’anni, si continui
a discutere sulla legittimità morale e politica delle
bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki.
Poi, le suggestioni patriottarde, di cui tutti i servizi televisivi
dall’America forniscono testimonianze ossessive quotidiane,
non fanno vibrare le corde dei nostri sentimenti. L’inno nazionale,
il “Dio salvi l’America”, cantato dalla star di turno per l’inaugurazione
del canile municipale, con tanto di alza bandiera e palmo di
mano compresso sul cuore, confessiamolo, ci fa un po’ sorridere,
anche perché siamo, molto più di loro, vaccinati
contro i virus del nazionalismo. E allora, se istintiva è
stata la condanna per gli attentati alle torri gemelle di New
York e la pietà per le vittime innocenti, ben diversa
sarebbe la reazione dell’opinione pubblica europea se a questi
fatti tragici si rispondesse con atti altrettanto efferati,
soprattutto se unilateralmente decisi da una sola delle potenze
chiamate alla lotta contro il nemico comune..
Tutto ciò a rigor di logica, anche se sono evidenti le
preoccupazioni per un conflitto che potrebbe vanificare ogni
tentativo di dare un ordine razionale agli eventi.
Antonio Cardella
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