Tempo medio: fine della democrazia cristiana e nuovo
protagonismo della chiesa
Uno dei più interessanti paradossi determinati dalla fine della
prima repubblica, in generale, e della democrazia cristiana,
in particolare, è stato il fatto che il potere contrattuale
della chiesa cattolica nei confronti del ceto politico è immediatamente
e significativamente aumentato.
Dal punto di vista delle dinamiche elettorali si tratta di una
deriva di facile comprensione: il pacchetto di voti controllato
dalla chiesa, per quanto relativamente modesto, è particolarmente
pregiato per entrambi gli schieramenti politici in gara visto
che lo scontro si vince soddisfacendo il maggior numero possibile
di gruppi d’interesse a prescindere dalla coerenza di questo
soddisfacimento con il programma politico generale degli schieramenti
in campo e con le identità culturali delle forze che li costituiscono.
I partiti laici di destra e di sinistra sono, di conseguenza,
costretti a mostrarsi per quello che effettivamente sono: partiti
laidi mentre l’opposizione all’invadenza clericale resta appannaggio
dell’area libertaria e di limitati settori della sinistra di
tradizione risorgimentale.
Al di là del pacchetto di voti che la chiesa effettivamente
controlla ed influenza c’è da considerare la sua natura di “potere
forte” sia per quel che riguarda il patrimonio posseduto che
come struttura disciplinata e centralizzata, capace di agire
come gruppo di pressione a livello locale e nazionale nel contesto
di una strategia internazionale. Per usare un termine che non
amo troppo, la chiesa è globalizzata in radice.
Si può cogliere, di conseguenza, una sostanziale continuità
fra politiche della sinistra e della destra sul versante delle
concessioni alla chiesa: la parità scolastica è un regalo della
sinistra come lo sono alcune scelte di politica scolastica a
livello regionale, basta pensare a quella sui buoni scuola in
Emilia Romagna. Vi sono, d’altro canto, alcune rilevanti discontinuità
sulle quali torneremo.
Tempo lungo: mercato e legame sociale
È, a mio avviso, evidente che lo sviluppo della società mercantile
ha come effetto sul corpo sociale quello di dissolvere le tradizionali
strutture preposte alla riproduzione sociale: la famiglia allargata,
le comunità locali, le istituzioni gerarchiche di tipo tradizionale
come le corporazioni, il potere temporale della chiesa, i privilegi
aristocratici,
L’uomo della modernità è l’individuo atomizzato, il cittadino,
il lavoratore, l’imprenditore posto in relazione con gli altri
mediante lo scambio mercantile.
Il capitalismo storico, in altre parole, si sviluppa dissolvendo
le tradizionali forme di legame sociale ed istaurandone uno
contemporaneamente feroce ed universale: la sottomissione alle
leggi dell’economia dell’intera specie e la proletarizzazione
delle tradizionali classi subalterne.
D’altro canto, la dissoluzione del legame sociale appare immediatamente
come un problema alle stesse classi dominanti: la crisi delle
gerarchie tradizionali e la centralità di un mero rapporto di
forza qual è quello fondato sullo scambio disvela il deficit
di legittimità del dominio borghese. Se la collocazione sociale
degli individui deriva dalla loro collocazione nella sfera economica
e nel processo produttivo ne consegue che questa collocazione
è conflittuale e modificabile sulla base della capacità di produrre
forza individuale e collettiva e conseguenti forme organizzative.
La stessa nascita del movimento operaio può essere interpretata
come uno straordinario tentativo di creare un nuovo legame sociale
tutto collocato nell’orizzonte della modernità e fondato sull’opposizione
radicale fra dominati e dominanti. Innegabilmente il movimento
operaio utilizza e riplasma forme di associazione precapitalistica:
la cultura e la pratica corporative, i legami tipici della comunità
locale, le stesse esigenze di giustizia e di eguaglianza che,
in forma alienata, sono presenti nel discorso religioso ma ne
supera i limiti e, nelle sue espressioni più radicali, arriva
a ipotizzare ed a praticare una comunità umana basata sulla
solidarietà fra subalterni e sull’inimicizia verso la classe
dominante. Per riprendere una nostra vecchia canzone: la pace
fra gli oppressi, la guerra agli oppressor.
La borghesia liberale, già nel XIX secolo, di fronte all’irrompere
della questione sociale, abbandona o, almeno, ridimensiona il
suo originario programma “rivoluzionario” e trova, in forme
diverse a seconda dei contesti nazionali, un compromesso con
quanto resta delle forze sociali arcaiche preposte all’inquadramento
delle classi subalterne: la chiesa, l’aristocrazia militare,
le reti criminali. Nello stesso tempo individua nei settori
“moderati” del movimento operaio un interlocutore con il quale
definire un compromesso sociale che, nell’area europea occidentale,
prende la forma, dopo e sulla base del macello delle due guerre
mondiali, dello “stato sociale”.
In realtà, siamo di fronte ad una situazione che funziona bene
nell’età dell’oro del capitalismo, fra gli anni ’50 e ’70, quando
lo sviluppo economico e la necessità di integrare i lavoratori
permettono, contemporaneamente, un accrescimento dei salari
ed un’estensione di una serie di diritti: casa, sanità, istruzione,
previdenza.
Tempo medio: la rivoluzione liberale
Gli ultimi decenni vedono la crisi del precedente compromesso
sociale. I costi del corporativismo democratico appaiono troppo
elevati alle élites capitalistiche e tecnocratiche a fronte
della sempre più rapida integrazione internazionale dell’economia.
In forme diverse, lo stato sociale viene smantellato. Sanità,
previdenza, istruzione, edilizia pubblica vengono, in parti
rilevanti, riconsegnate al mercato a condizioni di straordinario
favore per i gruppi privati che se ne appropriano. Ovviamente,
questo processo si svolge secondo modalità e tempi diversi nei
diversi contesti nazionali e determina sia forme di resistenza
da parte dei lavoratori che nuove modalità di lotta ad opera
dei settori della working class più radicalmente precarizzati.
Naturalmente lo stato non si ritira affatto dalla società, nonostante
le dichiarazioni degli apologeti della rivoluzione liberale,
al contrario, tende a concentrarsi nelle sue funzioni fondamentali
e ad accrescere la sua presenza nella veste di controllore.
Cresce la spesa militare come quella per la “sicurezza” mentre
le legislazioni riguardanti il diritto del lavoro vengono seccamente
irrigidite. Parafrasando uno slogan della rivoluzione liberale
e cogliendone la vera natura abbiamo più stato e più mercato
ed il mercato stesso è politicamente regolato.
Possiamo paragonare le attuali privatizzazioni alla settecentesca
legge sulle recinzioni: una massa straordinaria di proprietà
pubblico-statali viene privatizzata, determinando un vero e
proprio saccheggio della ricchezza collettiva e profitti che
il mercato tradizionale non avrebbe certo permessi. La borghesia,
in altri termini, riscopre le sue origini criminali e ne tre
il massimo giovamento possibile.
D’altro canto, in forme specifiche, la contraddizione fra logica
mercantile e necessità di un legame sociale permane. Una società
deregolamentata non può essere governata solo con al repressione
pena il rischio di crescenti conflitti. In questa contraddizione
si colloca il ruolo delle ideologie nazionaliste, xenofobe,
religiose, comunitarie e delle forze politiche e sociali che
ne fanno il proprio discorso.
Per restare al “nuovo” ruolo della chiesa, liberalismo e sussidiarietà
si intrecciano mirabilmente.
La chiesa si propone come fautrice di un modello sociale basata
sull’appalto, da parte dello stato, di una serie di funzioni
tipiche dello stato sociale a soggetti associativi e privati
in grado di garantirle a costi più bassi e secondo modalità
che garantiscono meglio il controllo sociale.
L’offensiva della chiesa tocca i settori della riproduzione
sociale che tradizionalmente ritiene strategici: la formazione,
in primo luogo, ma anche altri come la sanità, l’assistenza
agli “emarginati” ecc. In altre parole, lo stato crea alla chiesa
un mercato e le fornisce le risorse per assumerne il controllo,
la chiesa garantisce allo stato una riduzione dei costi e il
suo contributo al controllo sociale. Una dialettica perversa
ma efficace.
Tempo breve: l’assalto alla diligenza scuola
Le ragioni contingenti dell’aggressività della chiesa sul tema
scuola sono note e persino banali. La riduzione del reddito,
di ampia parte delle classi subalterne, ha colpito seccamente
la scuola privata i cui costi salgono anche a causa dell’aumento
dei costi del personale delle sue scuole, che sempre meno può
reclutare fra i membri del clero ridottisi seccamente a causa
della crisi delle vocazioni.
La lobby delle scuole private che sono, come è noto, in gran
parte clericali ha condotto per tutto l’arco del passato decennio,
una pressione crescente per ottenere risorse dallo stato. La
sinistra, come è altrettanto noto, ha ceduto a questa pressione
ma lo ha fatto in maniera insufficiente dal punto di vista della
chiesa.
Le concessioni che la sinistra ha fatto sono rilevanti, come
abbiamo ricordato, la parità scolastica, l’estensione delle
possibilità di reddito per i membri del clero in vari settori,
la privatizzazione di alcuni settori della formazione. D’altro
canto la sinistra ha teso ad essere “timida” nell’apertura alla
chiesa ed era obbligata ad esserlo dall’ostilità della sua tradizionale
base sociale e militante alla parità scolastica ed alle concessioni
al blocco clericale. Si potrebbe dire, visto l’argomento che
stiamo trattando, che ha peccato per ignavia che è stata nemica
a dio ed ai nemici suoi.
In estrema sintesi, la sinistra ha aperto la strada alla destra
che, su questi stessi terreni, si sta muovendo, per evidenti
motivi, con maggiore coerenza e disinvoltura.
La scelta, per il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca
(MIUR) di Letizia Arnaboldi Brichetto Moratti, la dama di ferro,
è, da questo punto di vista, indicativo. Un’imprenditrice che
frequenta regolarmente San Patrignano è il personaggio adatto
a realizzare, in tempi brevi, quanto la chiesa chiede.
Basta guardare le prime scelte del MIUR per rendersene conto:
La scorsa estate, con un colpo di mano, le norme che regolano
l’accesso dei precari all’immissione in ruolo sono state cambiate
radicalmente. Il servizio prestato nelle scuole private è stato
parificato, per quel che riguarda il punteggio e, soprattutto,
la fascia nella quale i precari sono stati collocati, a quello
nelle scuole pubbliche. Più di diecimila precari delle scuole
private sono così stati immessi in ruolo nella scuola pubblica.
Nei fatti, la scuola privata diviene un canale privilegiato
di reclutamento nella scuola pubblica con l’effetto di fornire
alle scuole private stesse una risorsa preziosa per quel che
riguarda il reclutamento del personale: se la scuola privata
garantisce l’immissione in ruolo in quella pubblica diviene
ancora più facile che in passato trovare personale a basso costo
che accetta le peggiori condizioni in vista del premio finale.
Come si vede bene, si intrecciano interessi economici e possibilità
di reclutare il personale attraverso circuiti clericali, parentali,
clientelari. Non vi è nulla di più materialista, in senso rozzo,
della pratica di coloro che si occupano delle faccende dello
spirito. Questa manovra è andata, fra l’altro, a buon porto
grazie ad una parallela ed intelligente operazione, e cioè la
velocificazione delle immissioni in ruolo, che ha effettivamente
permesso di assumere 60.000 precari nei tempi previsti dalla
legge a fronte della bradipesca lentezza del governo della sinistra
nel garantire le stesse operazioni. In un colpo solo, la dama
di ferro è apparsa come l’amica del precario, colei che ha fatto
funzionare l’amministrazione, la madrina della scuola privata.
Nella Legge Finanziaria è stata introdotta un riforma della
maturità che abolisce di fatto ogni controllo esterno alla singola
scuola pubblica o paritaria che sia. È bene ricordare, a questo
proposito, che le scuole private l’anno scorso erano parificate
a quelle pubbliche al 60% e che si calcola che entro quest’anno
lo saranno all’80%. Il MIUR, infatti, non nega a nessuno la
parificazione. Ancora una volta si tratta di una manovra non
stupida, gli studenti sono, ovviamente, contenti, per la riforma
che trasforma definitivamente la maturità in un vuoto rito,
cosa che peraltro era, per l’essenziale, già prima, altrettanto
si può dire per i genitori e gli insegnanti non ne sono del
tutto scontenti. Con una riforma imposta in una legge che a
rigore si dovrebbe occupare d’altro, si elimina il mercato illegale
dei diplomi con il semplice espediente di renderlo legale. Che
poi si tratti di diplomi privi di alcun effettivo valore è evidente
ed anzi questa conseguenza va nella direzione dell’obiettivo,
di parte confindustriale, dell’abolizione del valore legale
dei titoli di studio.
Sono stati collocati importanti esponenti della chiesa (il più
noto e simbolicamente significativo ma non il più effettivamente
importante è il cardinale Tonini), in importanti commissioni
che si occupano della parità scolastica e della deontologia
professionale degli insegnanti. Come ha detto, all’inizio del
suo mandato, il ministro “si sta staffando” nel senso che si
circonda di individui che sono diretta espressione del gruppo
di pressione che ritiene di rappresentare. Va, comunque, ricordato
che al buon cardinale un ruolo analogo era stato proposto dal
governo di sinistra senza che la cosa provocasse alcuna clamorosa
opposizione da parte degli eredi dei bersaglieri penetrati a
Roma attraverso la breccia di Porta Pia.
Vengono, poi, immessi in ruolo 14.000 insegnanti di religione.
Apparentemente si tratta di una misura sacrosanta che li sottrae
al potere dispotico delle curie. Nei fatti si garantisce direttamente
alla chiesa un canale privilegiato di reclutamento del personale
che, entrato in ruolo, potrà passare, come avverrà effettivamente
in molti casi, ad insegnare su altre cattedre liberando posti
che verranno coperti da nuovo personale reclutato dalle curie.
La nuova riforma dei cicli scolastici, infine, apre nuovi spazi
al settore privato nella scuola e, in particolare, ne apre alle
“agenzie formative” controllate dalla chiesa. Non vi è, in questa
sede, lo spazio per un’analisi della nuova riforma dei cicli
che, per la sua complessità, richiederebbe un testo specifico.
Basta sapere che siamo di fronte ad una mutazione radicale della
stessa concezione che fonda la scuola pubblica, una mutazione
fondata sull’idea che la formazione privata e quella pubblica
sono poste sullo stesso piano e sulla centralità della famiglia,
dell’impresa, del mercato.
Se intrecciamo queste operazioni con le leggi regionali sul
buono scuola approvate in Lombardia, in Veneto, in Emilia Romagna
e in via di approvazione in Piemonte ed in Sicilia, ad una serie
di interventi degli enti locali, non solo di quelli di destra,
a favore della presenza della chiesa nel settore della formazione
e della “cura” dei giovani, appare evidente che siamo di fronte
ad una deriva tale da disegnare un nuovo modello di scuola.
Il buono scuola, infatti, garantisce alle famiglie degli studenti
delle scuole private risorse economiche che vengono mediante
alcuni sistemi semplici ed eleganti (i fondi non coprono l’acquisto
dei libri di testo, dei trasporti, delle mense e vi è una franchigia
che impedisce il rimborso delle spese sino alle 400.000 lire
all’anno, guarda caso la cifra che le tasse scolastiche nella
scuola pubblica, di norma, non superano o, comunque, superano
di poco) negate a chi manda i figli nella scuola pubblica.
In guisa di conclusione
Ho ritenuto di porre l’accento, nella mia ricostruzione dell’assalto
alla diligenza scuola, sul quadro sociale e culturale generale
nel quale si collocano le concrete misure dell’attuale governo
perché ritengo che ne vada colta l’interna coerenza e l’indubbia
efficacia.
È, a mio avviso, evidente che gli attuali belati della sinistra
contro la politica scolastica del governo sono deboli ed incoerenti.
La destra fa con determinazione quello che la sinistra ha iniziato
in maniera contraddittoria.
Oggi la CGIL Scuola ritrova toni laico-risorgimentali dopo decenni
di supina acquiescenza a cedimenti radicali al blocco privato
clericale e dopo che ha sostenuto, e continua a sostenere, la
logica e la pratica della scuola azienda (dirigenza scolastica,
introduzione di criteri di conduzione aziendale nella scuola
pubblica, divisione del personale in settori in lotta fra di
loro per la carriera).
La CISL, lo SNALS, la Gilda sono sdraiati ai piedi del ministro
sia per convincimento reale dei loro gruppi dirigenti e per
attitudine opportunista sia perché la destra cattolica, presente
soprattutto nella CISL, ha detto con forza che non tollererà
che si dia fastidio al manovratore.
Se quanto ho sinora scritto è ragionevolmente fondato, pare
evidente che la denuncia del ruolo e della pratica del blocco
clericale nella scuola deve intrecciarsi:
All’opposizione alla scuola azienda;
Alla difesa delle libertà nell’ambito della scuola stessa dal
punto di vista culturale, politico, sindacale;
Alla costruzione di una larga mobilitazione che sappia andare
oltre il laicismo di stampo risorgimentale e cogliere la natura
reale dell’attuale blocco clericale e la sua funzionalità alla
dinamica delle privatizzazioni e della distruzione dei diritti
alla quale assistiamo e contro la quale ci battiamo.
Cosimo Scarinzi
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