Non so voi, ma io sono riuscito proprio
a capire cosa significhi esattamente la sentenza con cui, il
14 dicembre 2001, il Tribunale dei minori di Torino ha riconosciuto
a Erika De Nardo e Mauro Favaro (“Omar”), lo status di “persone
normali”, capaci – nell’accezione giuridica del termine – “di
intendere e di volere” e condannabili, quindi, a un’adeguata
pena detentiva.
Non credo certo che quei giudici abbiano voluto affermare che
sia normale, nelle circostanze in cui quei due ragazzi si sono
trovati, comportarsi come si sono comportati loro. E neanche
che ogni persona normalmente capace di intendere e di volere
possa (o debba) scegliere quella particolare linea di azione.
Una condanna, anzi, sanziona in tutta evidenza uno stato di
anormalità, un comportamento che, proprio in quanto fuori dalla
norma va deprecato e punito. E il principio per cui un’anormalità
può essere punita solo quando a compierla è stato un individuo
normale, presenta troppi rischi di autocontraddizione perché
lo si possa assumere con piena tranquillità.
L’affermazione potrebbe sembrare un puro e semplice paradosso,
e per di più fuori luogo. Ma se paradosso c’è, non va cercato
nella volontà di chi scrive.
Non si può negare che l’impianto metodologico delle varie psicologie
e psichiatrie normalmente in uso e le categorie di cui si servono
i relativi specialisti per classificare i comportamenti e le
reazioni degli esseri umani siano, nonostante tutti i tentativi
degli ultimi due secoli, drammaticamente deboli. Di questa debolezza,
quando si viene al dunque, si finisce sempre con il pagare lo
scotto: lo dimostra, a livello giuridico, l’eterogeneità delle
definizioni adottate dai vari sistemi penali. D’altronde, lo
stesso consulente tecnico dell’accusa al processo torinese ha
dovuto ammettere, in una delle tante interviste raccolte sui
quotidiani il giorno dopo, che è difficile “utilizzare parametri
psichiatrici in ambito giudiziario” e che “di questo reato non
riusciremo mai ad avere una comprensione piena”.
Violenza e guerra
Esiste, naturalmente, un’ipotesi più semplice. Erika e Omar,
prescindendo dal problema della loro giovanissima età, e senza
voler mettere in dubbio l’esistenza di problemi psicologici
anche gravi, potrebbero essere considerati soltanto due persone
normalmente malvagie, come ce ne sono tante. Due appartenenti
a quell’ampio settore di umanità per cui i problemi (tutti i
problemi) si risolvono con la violenza, anche estrema, salvo
dichiarare, se necessario, che la colpa è di qualcun altro.
Un settore, se ci pensiamo, così ampio da rappresentare la maggioranza
del genere umano, visto che comprende non solo quanti si sentono
autorizzati ad alzare la mano su un proprio simile, ma tutti
coloro che credono e affermano che certi obiettivi non si possono
perseguire altro che con la forza delle armi e che la pace può
nascere soltanto dalla guerra. Che la si eserciti a livello
privato o in sede pubblica, in nome del bene comune o dell’egoismo
personale, la violenza è sempre violenza e non c’è barba di
costruzione ideologica che la possa giustificare.
Le cose, tuttavia, non sono così semplici. In fondo, si tratta
pur sempre di due ragazzi: due creature immature la cui responsabilità
va misurata sui valori e le certezze che gli adulti hanno saputo
trasmettere loro. Sono, in senso lato, figli nostri, eredi del
mondo, non troppo entusiasmante, che gli abbiamo preparato noi.
Credono, ahimè, nei nostri stessi valori e condividono, in fondo,
le nostre stesse paure. Non sarà un caso se i loro concittadini,
nelle ore immediatamente successive al delitto, hanno creduto
con tanto entusiasmo alla giustificazione che gli era stata
offerta, accettando senza esitare un’imputazione di responsabilità
che andava incontro ai loro pregiudizi e alle loro volontà di
esclusione.
Io non so, naturalmente, quale sarà il destino di quei due giovani.
So solo che per ora sono stati affidati a un’istituzione, il
carcere, sulle cui capacità di recupero e riabilitazione ben
pochi (e io meno di tutti) hanno fiducia. Non voglio mettere
in discussione ciò che hanno detto persone di tutto rispetto
sulla necessità di sanzionare la loro colpa o su quella di “un
percorso di autoespiazione” cui non può essere estranea una
concreta dimensione afflittiva. Sono cose di cui non mi intendo,
anche se mi lasciano diffidente. Spero soltanto che la loro
condanna non esprima la volontà di rinchiuderli per dimenticarli,
di scuotere dalla nostra coscienza il fastidio di quella loro
tragica normalità.
Carlo Oliva
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