rivista anarchica
anno 32 n. 278
febbraio 2002


(in)giustizia

Normalità
di Carlo Oliva

A margine della condanna di Erika e Omar. E della loro tragica normalità.

Non so voi, ma io sono riuscito proprio a capire cosa significhi esattamente la sentenza con cui, il 14 dicembre 2001, il Tribunale dei minori di Torino ha riconosciuto a Erika De Nardo e Mauro Favaro (“Omar”), lo status di “persone normali”, capaci – nell’accezione giuridica del termine – “di intendere e di volere” e condannabili, quindi, a un’adeguata pena detentiva.
Non credo certo che quei giudici abbiano voluto affermare che sia normale, nelle circostanze in cui quei due ragazzi si sono trovati, comportarsi come si sono comportati loro. E neanche che ogni persona normalmente capace di intendere e di volere possa (o debba) scegliere quella particolare linea di azione. Una condanna, anzi, sanziona in tutta evidenza uno stato di anormalità, un comportamento che, proprio in quanto fuori dalla norma va deprecato e punito. E il principio per cui un’anormalità può essere punita solo quando a compierla è stato un individuo normale, presenta troppi rischi di autocontraddizione perché lo si possa assumere con piena tranquillità.
L’affermazione potrebbe sembrare un puro e semplice paradosso, e per di più fuori luogo. Ma se paradosso c’è, non va cercato nella volontà di chi scrive.
Non si può negare che l’impianto metodologico delle varie psicologie e psichiatrie normalmente in uso e le categorie di cui si servono i relativi specialisti per classificare i comportamenti e le reazioni degli esseri umani siano, nonostante tutti i tentativi degli ultimi due secoli, drammaticamente deboli. Di questa debolezza, quando si viene al dunque, si finisce sempre con il pagare lo scotto: lo dimostra, a livello giuridico, l’eterogeneità delle definizioni adottate dai vari sistemi penali. D’altronde, lo stesso consulente tecnico dell’accusa al processo torinese ha dovuto ammettere, in una delle tante interviste raccolte sui quotidiani il giorno dopo, che è difficile “utilizzare parametri psichiatrici in ambito giudiziario” e che “di questo reato non riusciremo mai ad avere una comprensione piena”.


Violenza e guerra

Esiste, naturalmente, un’ipotesi più semplice. Erika e Omar, prescindendo dal problema della loro giovanissima età, e senza voler mettere in dubbio l’esistenza di problemi psicologici anche gravi, potrebbero essere considerati soltanto due persone normalmente malvagie, come ce ne sono tante. Due appartenenti a quell’ampio settore di umanità per cui i problemi (tutti i problemi) si risolvono con la violenza, anche estrema, salvo dichiarare, se necessario, che la colpa è di qualcun altro. Un settore, se ci pensiamo, così ampio da rappresentare la maggioranza del genere umano, visto che comprende non solo quanti si sentono autorizzati ad alzare la mano su un proprio simile, ma tutti coloro che credono e affermano che certi obiettivi non si possono perseguire altro che con la forza delle armi e che la pace può nascere soltanto dalla guerra. Che la si eserciti a livello privato o in sede pubblica, in nome del bene comune o dell’egoismo personale, la violenza è sempre violenza e non c’è barba di costruzione ideologica che la possa giustificare.
Le cose, tuttavia, non sono così semplici. In fondo, si tratta pur sempre di due ragazzi: due creature immature la cui responsabilità va misurata sui valori e le certezze che gli adulti hanno saputo trasmettere loro. Sono, in senso lato, figli nostri, eredi del mondo, non troppo entusiasmante, che gli abbiamo preparato noi. Credono, ahimè, nei nostri stessi valori e condividono, in fondo, le nostre stesse paure. Non sarà un caso se i loro concittadini, nelle ore immediatamente successive al delitto, hanno creduto con tanto entusiasmo alla giustificazione che gli era stata offerta, accettando senza esitare un’imputazione di responsabilità che andava incontro ai loro pregiudizi e alle loro volontà di esclusione.
Io non so, naturalmente, quale sarà il destino di quei due giovani. So solo che per ora sono stati affidati a un’istituzione, il carcere, sulle cui capacità di recupero e riabilitazione ben pochi (e io meno di tutti) hanno fiducia. Non voglio mettere in discussione ciò che hanno detto persone di tutto rispetto sulla necessità di sanzionare la loro colpa o su quella di “un percorso di autoespiazione” cui non può essere estranea una concreta dimensione afflittiva. Sono cose di cui non mi intendo, anche se mi lasciano diffidente. Spero soltanto che la loro condanna non esprima la volontà di rinchiuderli per dimenticarli, di scuotere dalla nostra coscienza il fastidio di quella loro tragica normalità.

Carlo Oliva