rivista anarchica
anno 32 n. 278
febbraio 2002


 

Ricordando Horst Fantazzini

Avevo sperato di conoscerlo, finalmente, il giorno in cui a Bologna uscì “Ormai è fatta”, il film tratto dal suo libro autobiografico. Ma ancora una volta, l’ennesima, per Horst Fantazzini non si volle concedere ciò che per altri sarebbe stato normale: neppure quel paio d’ore pomeridiane da trascorrere in una sala cinematografica, godendosi almeno una soddisfazione in un’intera vita agra.
Enzo Monteleone decise di girarlo dopo aver trovato il libro “per caso” (ma esiste il “caso”?) su una bancarella dell’usato o dell’invenduto... E lui, come anche Stefano Accorsi, aveva conosciuto Horst andando a trovarlo in carcere per discutere dei mille dettagli del film in progettazione, e me ne parlò come di un uomo di profonda dolcezza e istintiva simpatia, con cui si era instaurata una collaborazione immediata, schietta, amichevole.
Io, invece, “Ormai è fatta” l’avevo letto praticamente appena era stato pubblicato, e anche qui per i “casi della vita” (sempre pensando che forse il “caso” non esiste), lo leggevo nello stesso periodo in cui conoscevo suo padre Libero, quando mi trasferii a Bologna e presi a frequentare il Cassero di Porta Santo Stefano, dove il “vecchio” Fantazzini era una presenza costante assieme alla compagna Maria, coppia che ai miei occhi di ventenne ancora colmo di entusiastici propositi, appariva a dir poco “leggendaria”... Ricordo però che Libero non parlava volentieri di Horst, e quando lo faceva camuffava l’amarezza e la malinconia con qualche frase un po’ burbera, lui che era sempre così bonario e disponibile con chiunque e in qualunque situazione... Horst, ai suoi occhi di ottantenne che aveva afferrato la vita per le corna senza rassegnarsi a nessun destino che non fosse quello da lui scelto, faticava non poco ad accettare il “destino” di un figlio finito sulle prime pagine come “rapinatore gentile” quanto scalognato, e sicuramente al vecchio partigiano, al combattente anarchico che andava fiero del proprio passato e lottava contro un presente saccheggiato dai cialtroni di sempre, bruciava troppo quel tono patetico con cui certa stampa dipingeva il figlio a cui non ne andava bene una, e che continuava a tentare evasioni impossibili ottenendo soltanto un accanimento feroce e ottuso, comunque spietato e violento come Horst non era e non sarebbe mai stato. Da vecchio padre, poi, chissà che strette al cuore ogni volta che vedeva quella copertina di “Ormai è fatta”, con Horst crivellato di pallottole e coperto di sangue dopo la fallita fuga da Fossano...
L’uscita del film fu l’occasione per una iniziativa di solidarietà all’uomo divenuto l’emblema di un caso giudiziario abnorme e abominevole: persino i pluriomicidi non trascorrono più di trent’anni in carcere, e quella sera Stefano Accorsi, che ha interpretato il giovane Horst, e Francesco Guccini, nel fugace ruolo del padre Libero, parteciparono non come attori del film ma come cittadini indignati contro quell’accanimento di una giustizia ingiusta. Ma, come si leggeva nel retro di copertina del suo racconto autobiografico, la domanda è se “una società ingiusta può emettere condanne giuste”...
Alla fine (e non immaginavo fossimo così vicini alla “fine” di questa storia), Horst l’ho potuto abbracciare soltanto pochi mesi fa, quando aveva ottenuto la semicarcerazione (perché passare la notte in galera non è “semilibertà”, la libertà o è tale o non è, non ci sono modi per spezzettarla e frammentarla), e in poche ore mi ha confermato ciò che già immaginavo: avevo di fronte un uomo che era riuscito straordinariamente a mantenere intatta la dolcezza d’animo, malgrado trentaquattro anni di prigionia, di sogni calpestati, di folli imprese al limite del suicidio, di rivolte disarmate e pestaggi vigliacchi, di mille ingiustizie enormi o piccolissime, ma non per questo meno brucianti, compresa quella che gli aveva impedito di vedere il “suo” film, fosse stato anche con gli schiavettoni ai polsi e due guardie ai lati...
Quando è tornato dentro per l’ultima – mancata – impresa sgangherata, con l’umiliazione di apparire più patetica che criminosa, la categoria di cinici e superficiali che vanno comunemente sotto la definizione di “benpensanti” hanno malpensato: “Visto? Era e resta irrecuperabile...”. Ma chi potrebbe mai giudicare il gesto di un uomo che ha subìto trentaquattro anni di non-vita senza aver mai tolto la vita a nessuno?
E adesso che il cuore di Horst si è fermato, penso che i cuori dei ribelli, chissà, forse continuano a battere nei cuori degli altri ribelli che restano e dei ribelli che verranno... Perché nessuno muore mai del tutto finché c’è qualcuno che lo ricorda, finché resta viva la memoria di quei battiti affidati magari a un libro, a un film, ma soprattutto a quel sorriso dolce e un po’ venato d’amarezza, il sorriso di chi non si rassegna e sogna ancora, malgrado tutto, malgrado il mondo che ci ritroviamo attorno...

Pino Cacucci

Per Horst

“ormai è fatta”, davvero...
per tutta la libertà che ti hanno negato
per quella che non siamo riusciti a darti
per quella che non hai riconosciuto....
senza rimorsi e rimpianti.....
il mio cuore
vola alto come un falco quando ti penso...

Valeria Vecchi

 

 

La violenza è l’essenza dello stato

Uno dei modi di presentare le dimensioni di ciò che è accaduto in Argentina tra 18 e 20 dicembre è di offrire alcuni dati sulla repressione: secondo le informazioni fornite dalla stampa, sono state uccise 29 persone, anche se potrebbero esserne di più; giovedì, soltanto nella zona di Plaza de Mayo, nel centro di Buenos Aires, 7 persone sono state assassinate. Ci sono stati centinaia di feriti e migliaia di detenuti – solo in Buenos Aires più di mille. Alcuni dei detenuti sono stati torturati nei posti di polizia e dentro le unità mobili. Sonno anche circolate voci sul funzionamento di centri clandestini di detenzione e sull’esistenza di desaparecidos, ma queste non sono state convalidate.
In alcuni posti di polizia, i poliziotti hanno rifiutato le domande di habeas corpus presentate per conto dei detenuti, affermando che questi ultimi non c’erano. Ogni tipo di strumento è stato usato per sopprimere quelli che hanno preso parte della lotta popolare contro la repressione.
Sebbene la linea ufficiale sia stata quella di non riconoscere le vittime, i morti ci sono, un’ulteriore prova che la violenza è l’essenza dello stato. Sebbene il governo abbia negato che le forze di repressione abbiano usato armi da fuoco, i morti ci sono, coi loro corpi perforati nella schiena e nella testa da pallottole di piombo. Uomini, donne e bambini investiti dai cavalli della polizia montata, teste e corpi gonfiati dalle botte. Corpi irritati come conseguenza dei gas lacrimogeni e di vomito. Gelidamente, come ai tempi della dittatura, il governo ha ammesso solamente che “alcuni eccessi” sono stati commessi.
Un altro modo di presentare ciò che è accaduto, almeno nella città di Buenos Aires, è parlare del danno recato al distretto finanziario, i circa 60 isolati dove sono concentrati il capitale finanziario e le imprese internazionali. Là tutto era distruzione, vetri rotti, rottami, incendi. Ciò che è cominciato come centinaia di atti di iconoclastia anti-capitalista si è presto trasformato nella distruzione estesa, in cui le migliaia di persone che avevano preso possesso delle strade hanno dato sfogo alla loro ira.
Com’è cominciato tutto questo? Non entreremo qua nelle cause più profonde, visto che questo ci porterebbe indietro di varie decadi nel tempo; ci limiteremo ai fatti immediati che hanno acceso la miccia. Il 3 dicembre il governo nazionale ha decretato la “bancarizzazione” dell’economia [obbligando i pagamenti per mezzo di conti bancari], ha bloccato la liberazione dei depositi a termine fisso, il quale ha punito soprattutto gli investitori piccoli, per tentare di compiere coi requisiti della politica di zero deficit della Fmi e di prevenire la continuazione della fuga del capitale. Questo ha paralizzato l’economia nazionale, costituendo un colpo di grazia per i liberi professionisti ed i piccoli commercianti, per non parlare dei settori più emarginati. Il punto d’ebollizione sociale stava solamente a distanza di giorni.
I primi saccheggi hanno luogo martedì 18 a Cordoba e Entre Rios; la mattina di mercoledì si estendono alla cintura urbana che circonda Buenos Aires e alle altre città del paese. La psicosi si sparge come una piaga per tutta l’Argentina. Aumentano le voci che orde di predatori – identificati convenientemente come “piqueteros” [il nome dato ai contestatori che construiscono barricate sulle strade e sui ponti per interrompere le attività economiche] – stanno devastando i quartieri. Lo scopo è quello di destabilizzare il governo e allo stesso tempo di mettere poveri contro poveri, di deviare la lotta di settori popolari per costruire una società nuova. La destra e i peronisti optano per la guerra psicologica per spianarsi la via verso il potere.
Il governo nazionale risponde alla crisi profonda sociale dichiarando lo stato di assedio con una durata di 30 giorni. Ancora una volta le rivendicazioni popolari vengono criminalizzate e represse con forza. La delibera presidenziale si annuncia formalmente mercoledì alle 23 circa. Immediatamente migliaia di persone escono nelle strade, costituendo uno dei più grandi atti di disubbidienza civile visti dal ritorno della democrazia rappresentativa. Il suono di centinaia di migliaia di casseruole battute e dei clacson delle macchina riempiono tutti i quartieri di Buenos Aires, mentre le persone, molte di loro sventolando bandiere argentine, marciano verso il parlamento e la Casa Rosada – il palazzo di governo. Quando Plaza de Mayo è piena di uomini e donne, di bambini e anziani, la polizia spara gas lacrimogeni contro la folla. La risposta generale è pacata, anche se alcuni gruppi dirigono la loro rabbia contro le banche, le affissioni pubblicitari, i telefoni pubblici e i ristoranti McDonalds.
Alle 3 del mattino, nonostante le suppliche dei partiti politici e dei sindacati, la gente continua a resistere nelle strade allo stato di assedio, e la presenza della polizia è limitata. Le notizie delle dimissioni, prima del ministro dell’economia e poi del resto del consiglio di ministri, incoraggia la forza popolare. Ma alle quattro circa cominciano le cariche della polizia, con gas lacrimogeni e pallottole di gomma – e di piombo. Sui gradini del Congresso – 15 isolati da Plaza de Mayo – cade la prima vittima fatale.
Nonostante la repressione, alcuni gruppi rimangono nelle strade. Giovedì a mezzogiorno, la polizia carica violentemente quelli che stanno manifestando in Plaza de Mayo. La gente viene calpestata dai cavalli della polizia montata, debilitata dai gas, picchiata e sparata addosso. La piazza viene svuotata, ma le lotte per le strade cominciano in tutto il centro urbano.
L’avanzata della polizia viene contrastata durante ben otto ore, usando solamente barricate, pietre e molotov. Le ore passano, e le notizie dei compañeros morti intensificano il senso di rabbia. Alle 19 circa, quando viene comunicata ufficialmente la dimissione del presidente, la polizia carica violentemente i manifestanti che ancora rimangono nella zona dell’Obelisco.
Allo stesso tempo, le battaglie infuriano nel resto del paese. In Paraná, capitale della provincia di Entre Rios, la gente tenta di bruciare la sede del governo provinciale. Nella città di Cordoba, cercano di ridurre la sede municipale a ceneri. In La Plata, capitale della provincia di Buenos Aires, i manifestanti tentano di occupare l’edificio legislativo provinciale.
Mentre tutto questo sta accadendo nelle strade, la classe politica riesce solo a colmare il vuoto di potere che ha causato la fuga patetica in elicottero del presidente dimissionario Fernando De La Rua. Dalla convenzione di governatori Giustizialisti [Peronisti] che si sta svolgendo nella provincia di San Luis, la notizia viene accolta come una grande vittoria. Non dimentichiamo che il giorno precedente loro stessi avevano rifiutato di formare un governo di coalizione, precipitando così l’inevitabile collasso del governo del partito Radicale. Quindi il governo Radicale, disfatto dalla lotta popolare, viene rapidamente sostituito dai Peronisti. Ramon Puerta – il quale, come presidente del senato, ha preso il posto di De La Rua – afferma: “In nessuno momento è mancato il leadership istituzionale”.
Le ultime azioni del governo di De La Rua sono state quelle di levare lo stato di assedio, di insistere sulla parità peso-dollaro e di dire che la loro rinuncia non era a causa della lotta popolare, bensì al vuoto di potere provocato dai Peronisti. Puerta ha imposto nuovamente lo stato di assedio nelle province di Entre Rios, San Juan e Buenos Aires, anche se alcune ore dopo lo ha levato.
Le mobilitazioni popolari avevano anche un aspetto più profondo. La gente ha respinto non solo la classe governante (politici e sindacati) e il piano economico dettato dalle istituzioni finanziari internazionali, ma anche la politica come mezzo per creare un progetto sociale diverso. Tutti i media hanno presentato questi giorni storici come una vittoria per la società civile, delegitimizzando coloro che hanno partecipato alla lotta popolare e gli emarginati che hanno perso la vita nelle strade. La fuga di De La Rua rappresenta una vittoria popolare, nonostante le manovre della destra e del Peronismo per fomentare la destabilizzazione politica.

la Biblioteca Popolare
“José Ingenieros”

Buenos Aires, 26 dicembre 2001
(traduzione dallo spagnolo di Leslie Ray)

 

Ricordando Vernon Richards

Vernon Richards, deceduto all’età di 86 anni, essendo nato a Soho il 19 luglio 1915, era figlio dell’anarchico italiano Emidio Recchioni che, dopo essere evaso da un bagno penale alla fine dell’Ottocento aveva aperto il famoso negozio “King Bomba” al 31 di Old Compton Street.
Nel 1935, a vent’anni, dopo essere stato estradato dalla Francia in seguito al patto Hoare/Laval, Vero Recchioni aveva anglicizzato il proprio nome e aveva cominciato a pubblicare a Londra la rivista Free Italy/Italia libera, in collaborazione con Camillo Berneri, esule dall’Italia e che sarebbe poi stato assassinato a Barcellona dagli agenti staliniani.
Nel 1936, allo scoppio della guerra civile e della rivoluzione in Spagna, si unì ai veterani di un’altra rivista anarchica, Freedom, per pubblicare un giornale di lingua inglese che desse voce agli anarchici spagnoli: Spain end the World, in un momento in cui, come più tardi ebbe a dire il suo amico George Orwell, in Inghilterra si sentiva solo la versione News Chronicle / News Statesman degli eventi spagnoli.
Nel corso della Seconda Guerra mondiale il giornale prese il titolo di War Commentary. La figlia di Berneri, Maria Luisa, era diventata la compagna di Vernon Richards e gli fu accanto fino alla tragica scomparsa sua e del bambino appena dato alla luce, nel 1949. Intanto la redazione del giornale, che nel 1945 aveva ripreso il nome originale di Freedom, era stata arrestata in blocco e incriminata per sobillazione nei confronti di esponenti delle forze armate. Vernon Richards, insieme a John Hewetson e a Philip Sansom, rimase in prigione per nove mesi.
Uno degli aspetti più positivi di questo periodo d’incarcerazione fu l’opportunità che gli fu data di riprendere a suonare il violino e addirittura di formare una piccola orchestra con altri musicisti in prigione. Quand’era un bambino libero di scorrazzare per le strade di Soho, aveva studiato il violino sotta la guida dello zio di John Barbirolli, da ragazzo aveva suonato il repertorio orchestrale, aveva assistito alla grande serie di concerti beethoveniani diretti da Toscanini alla Queen’s Hall, alla fine degli anni trenta, e si era fatto autografare il programma dal maestro. Agli amici resta il rimpianto di non averlo più sentito suonare dopo che era uscito di prigione.
Pur essendo laureato in ingegneria civile, non riprese mai più l’esercizio della professione, asserendo che una delle cose che aveva imparato in prigione era l’idiozia di inseguire una “carriera”. Si guadagnava da vivere gestendo il negozio di sua madre, finché, cambiata l’atmosfera di Soho negli anni cinquanta, riuscì a venderlo. Dopo di che lavorò come fotografo indipendente e come giardiniere e poi l’agente di viaggio per la Spagna di Franco e per l’Unione sovietica di Breznev, convinto che il turismo creasse legami che avevano un influsso liberatore e spalancasse le frontiere più chiuse. Nel 1968 si trasferì insieme a Pete Hewetson in una piccola tenuta nel Suffolk, dove coltivò per quasi trent’anni prodotti naturali.
Aveva continuato a dirigere Freedom settimanale dal 1951 al 1964, ma poi fu sempre pronto a riprendere il suo ruolo di redattore tutte le volte che pensava che il giornale prendesse una direzione sbagliata. Solo negli anni novanta cessò la sua collaborazione con questo periodico cui aveva ridato vita sessant’anni prima. In questo periodo il marchio editoriale di Freedom Press fece uscire dalla redazione di Whitechapel un numero incredibile di libri.
Era merito suo: nel corso degli anni cinquanta scrisse, a puntate mensili, la sua opera tante volte ristampata e tradotta, Lessons of the Spanish Revolution, frutto di tante sere domenicali trascorse con la sola compagnia della sua fedele bottiglia di Valpolicella.
Ripensando all’impegno di un’intera vita dedicata al mantenimento di una presenza anarchica nell’editoria britannica, gli amici pensavano che alla base ci fosse stato l’esempio di suo padre, che era stato coinvolto in un fallito complotto per assassinare Mussolini. Ma io l’ho sentito con le mie orecchie criticare seccamente suo padre definendolo “terrorista borghese”. In effetti la personalità anarchica che più lo influenzò fu Errico Malatesta, e il suo libro Malatesta: Life and Ideas è stato letto in tutto il mondo.
Con il suo impegno assoluto per l’editoria anarchica, è stato anche uno spietato sfruttatore del lavoro degli altri. Del gruppo straordinario che aveva animato negli anni quaranta, George Woodcock, Philip Sansom e John Hewetson, nessuno era rimasto in termini di amicizia con lui, che, per parte sua, incapace di ammettere di avere spesso agito come un manipolatore, considerò il loro distacco dalla sua cerchia come una prova del fatto che tutti erano rimasti sedotti dalle lusinghe del capitalismo.
Alla fine degli anni novanta alcuni suoi ammiratori favorirono la pubblicazione da parte di Freedom Press di quattro suoi libri di fotografie, a partire del suo famoso ritratto di Orwell e di suo figlio Richard nel 1946, sul volume George Orwell at Home.
Un’imprevista coda a questo tributo gli venne dalla cittadina catalana di L’Escala. Vernon aveva cominciato a portare villeggianti in quel paesino poverissimo nel 1957, fotografandone gli abitanti. Nel 1999 il Centro Studi Catalani realizzò un prezioso album di fotografie che, per gli abitanti del luogo è diventato una preziosa testimonianza della dignità dei loro nonni in quei tempi duri.

Colin Ward
(traduzione dall’inglese di Guido Lagomarsino)

 

 

Ricordando Giovanni Marini

La sera del 23 dicembre 2001 un infarto ha stroncato prematuramente, a 59 anni, la vita di Giovanni Marini, il “poeta dei folli e dei giusti”. Al suo rientro la madre l’ha trovato privo di vita. La notizia è stata diffusa dalla stampa locale del 27 dicembre 2001, a tumulazione avvenuta e per questo nessuno dei compagni e degli amici ha potuto rendere a Giovanni Marini l’estremo saluto.
È “sopravvissuto” quasi trent’anni a una sentenza di morte pronunciata nei suoi confronti dai fascisti di Salerno. L’anarchico Giovanni Marini, nato il 1 febbraio 1942 a Sacco, un paesino all’interno del Cilento, “doveva” morire una sera d’estate di molti anni fa. Era il 7 luglio del 1972 quando sfuggìi a una vile aggressione fascista, nel corso della quale perse la vita una dei suoi aggressori, il giovane Carlo Falvella. La città di Salerno in quelli anni fu teatro di moltissime azioni fasciste, come incendi, devastazioni di sedi e aggressioni a militanti della sinistra, fino ad un assalto alla redazione del quotidiano “Il Mattino”.
Giovanni Marini era impegnato in una contro-inchiesta su uno strano incidente stradale che aveva provocato la morte di cinque anarchici calabresi, Giovanni Aricò, Annalisa Borth, Angelo Casile, Francesco Scordo, Ligi Lo Celso, avvenuto il 27 settembre 1970 sull’autostrada nei pressi di Ferentino, a pochi chilometri da Roma, dove i nostri compagni si recavano per consegnare i risultati di una loro inchiesta sulle stragi fasciste, che avevano cominciato ad insanguinare l’Italia. Le carte e i documenti degli anarchici di Reggio Calabria non furono mai ritrovate. Nell’incidente, avvenuto all’altezza di una villa di Valerio Borghese, fu coinvolto un autotreno guidato da un salernitano, che procedeva con i fari posteriori spenti. Pare che l’autista avesse simpatie fasciste. Marini doveva accertare se era stato un incidente casuale oppure organizzato e per questo aveva ricevuto molte minacce telefoniche, ma non sappiamo a che cosa approdarono le sue indagini.
Nella prima serata del 7 luglio 1972 a Salerno si consumò l’ennesima provocazione da parte di Carlo Falvella e di Giovanni Alflinito, due militanti del MSI. Falvella per provocare una sua reazione, incontrandolo, gli diede una gomitata, ma Marini che passeggiava in compagnia di Gennaro Scariati, nato nel 1955 a Salerno, non reagì. E ben fece perché il lungomare di Salerno era strapieno di fascisti pronti ad intervenire per dar man forte ai camerati certamente mandati in avanscoperta.
Più tardi Marini e Scariati, ai quali nel frattempo si era aggiunto per puro caso il giovane Francesco Mastrogiovanni, nato nel 1951 a Castelnuovo Cilento (Sa), ridiscendendo tranquillamente Via Velia per andare a teatro, incontrarono nuovamente i due giovani missini. Ai due Mastrogiovanni disse di lasciarli in pace e per tutta risposta vide luccicare la lama di un coltello che lo ferì alla gamba, svenne e cadde sul marciapiedi. A questo punto intervenne Giovanni Marini, che riuscì a disarmare gli aggressori e, impossessatosi del coltello che aveva ferito Mastrogiovanni, nella colluttazione ferì Carlo Falvella, un giovane fascista di 21 anni. I fascisti – di fronte all’imprevista e coraggiosa reazione – se la diedero a gambe, limitandosi a soccorrere i loro due camerati e poco dopo Falvella morì all’ospedale. Mastrogiovanni, sanguinante per la ferita alla gamba, dovette ricorrere all’autostop per recarsi in ospedale.
Marini si costituì subito dopo e fu dichiarato in arresto insieme con Mastrogiovanni e con Scariati, che si costituì dopo alcuni giorni e venne prosciolto in istruttoria, mentre Mastrogiovanni sarà scarcerato ma imputato per rissa.
Nonostante un manifesto della federazione provinciale del PCI di Salerno che definiva Marini uno “sciagurato”, all’anarchico salernitano – sfuggito ad un’aggressione fascista – andò subito la solidarietà del movimento anarchico e della sinistra extraparlamentare (una prima sottoscrizione a loro favore fu fatta dal sottoscritto tra i compagni che partecipavano alla manifestazione per il centenario del Congresso dell’Internazionale svoltosi a Rimini nel 1872).
Falvella fu seppellito con tutti gli onori dovuti a chi cade nel corso di una battaglia e lo stesso Giorgio Almirante – che precedentemente, in un comizio a Firenze, aveva incitato allo “scontro fisico” – e altri esponenti missini si recarono a Salerno.
Intanto Marini, descritto come un mostro, una belva anarchica assetata di sangue, per punizione peregrinava incessantemente da un carcere all’altro e a Caltanissetta fu destinato in una buia e umida cella. E non smise mai di denunziare le incivili e aberranti condizioni di vita riservate ai carcerati.
Il processo iniziò a Salerno per il 28 febbraio 1974. Il collegio difensivo era costituito dal senatore comunista Umberto Terracini, dagli avvocati Giuliano Spazzali, Gaetano Pecorella e Francesco Piscopo del foro di Milano e dall’avv. Marcello Torre di Pagani (ricordo che poco dopo l’arresto, di mia iniziativa, mi ero recato a Potenza per proporre all’avv. Tommaso Pedio di assumere la difesa, ma non lo trovai e poi seppi del collegio difensivo).
Tra i difensori degli aggressori, l’avv. Alfredo De Marsico, già ministro della Giustizia di Benito Mussolini e uno dei collaboratori del famigerato codice Rocco, e gli avvocati salernitani Dino Gassani e Giacomo Mele, esponenti missini di rilievo e di provata fede.
Il 13 marzo 1974 il tribunale di Salerno, adducendo motivi di ordine pubblico, sospende il processo spostandolo a Vallo della Lucania, dove riprende il 30 giugno del 1974. Fu seguito da numerosi compagni e compagne venuti da ogni parte d’Italia anche per testimoniare e manifestare solidarietà a Marini, oltre che dagli inviati dei maggiori quotidiani italiani (chi scrive lo seguì per “l’Internazionale” di Ancona, “Espoir” di Tolosa e “Le Monde Libertaire” di Parigi). A Vallo della Lucania, il PM Zarra chiese la condanna di Marini a diciotto anni di carcere. Invece il tribunale – presieduto dal giudice Fienga – lo condanna a dodici anni, con tre anni di sorveglianza e all’interdizione dai pubblici uffici, assolvendo Mastrogiovanni e il missino Alfinito dall’accusa di rissa. Al processo d’appello – che si tiene a Salerno dal 2 al 23 aprile 1975 – la condanna viene ridotta a nove anni di carcere, dei quali ne sconta sette.
Quando viene scarcerato Gerardo Ritorto, presidente socialista della Comunità Montana del Vallo di Diano di Padula, mio tramite, gli offre un lavoro che accetta.
Marini però portava nelle sue carni le insanabili ferite della detenzione e della persecuzione carceraria e, purtroppo, vedeva dappertutto “nemici” e così un giorno sfasciò dei mobili in un ufficio della Comunità Montana.
Venne arrestato e licenziato.
Uscito distrutto dal carcere, purtroppo Marini si era illuso di trovare un suo “mondo”, senza rendersi conto che molte cose erano cambiate, che i valori politici si erano assottigliati e sopravvivevano presso una piccola minoranza o si erano addirittura perduti.
Così una volta fuori, persa la serenità, Giovani Marini – pur avendo vissuto il periodo della detenzione con una grande coerenza e combattività – è andato via via autoemarginandosi dalla vita e dal movimento anarchico.
Aveva trovato un conforto nella poesia e già durante la detenzione il volume “E noi folli e giusti”, pubblicato nel 1975 dall’editore Marsilio, aveva ottenuto un lusinghiero successo arrivando a vincere il Premio Viareggio per la poesia. Continuava a scrivere poesie e di tanto in tanto pubblicava per proprio conto dei libricini, che mandava per lo più in dono ad un ristretto gruppo di amici (li stampava presso la stessa tipografia dove stampo le mie edizioni, dove qualche volta lo incontravo).
A Salerno lo si incontrava raramente che trascinava faticosamente il suo corpo acciaccato e dolorante, e per la città Marini era un estraneo e una figura scomoda.
“Lascia agli altri, a noi tutti la sofferenza di pensarlo e ripensarlo”, ha scritto in un articolo per “Il Mattino” del 28 dicembre 2001 Ernesto Scelza – assessore Ds alla provincia di Salerno, uno degli amici di allora – che continua: “Per alcuni rimaneva quello della tragica aggressione del 1972, per molti un problema, per troppi un ingombro. Giovanni Marini è stato contraddizione lacerante. Sensibilità esasperata, nervi scoperti, tensioni emotive e nevrosi scoperte. Ha vissuto i nostri tempi, come da sempre gli ultimi fra gli uomini sono dannati a vivere i propri (…) Tenero e spietato, con sé e con tutti. Era semplice fino alla perversione. Era la vita che amava e che sempre ci sfugge”.
Franca Rame, in un’intervista a Barbara Cangiano, pubblicata da “La Città” del 28 dicembre 2001, sottolinea la sua generosità e sulla base di una generica e vaga confidenza – che sarebbe stata fatta da Marini “preferì addossarsi le colpe per non far finire nei guai un compagno più giovane che, proprio perché minorenne, avrebbe scontato anche una pena minore”.
La cosa non è nuova, perché emerse anche al processo d’appello di Salerno, ma non fu presa in considerazione, proprio perché generica e inconsistente.
Il destino ha voluto che Giovanni Marini morisse da solo, nella lontananza dagli amici e dai compagni, che non lo avevano di certo dimenticato ed erano comunque partecipi delle sue vicende umane.

Giuseppe Galzerano