Ricordando Horst Fantazzini
Avevo sperato di conoscerlo, finalmente, il giorno in cui a
Bologna uscì “Ormai è fatta”, il film tratto dal suo libro autobiografico.
Ma ancora una volta, l’ennesima, per Horst Fantazzini non si
volle concedere ciò che per altri sarebbe stato normale: neppure
quel paio d’ore pomeridiane da trascorrere in una sala cinematografica,
godendosi almeno una soddisfazione in un’intera vita agra.
Enzo Monteleone decise di girarlo dopo aver trovato il libro
“per caso” (ma esiste il “caso”?) su una bancarella dell’usato
o dell’invenduto... E lui, come anche Stefano Accorsi, aveva
conosciuto Horst andando a trovarlo in carcere per discutere
dei mille dettagli del film in progettazione, e me ne parlò
come di un uomo di profonda dolcezza e istintiva simpatia, con
cui si era instaurata una collaborazione immediata, schietta,
amichevole.
Io, invece, “Ormai è fatta” l’avevo letto praticamente appena
era stato pubblicato, e anche qui per i “casi della vita” (sempre
pensando che forse il “caso” non esiste), lo leggevo nello stesso
periodo in cui conoscevo suo padre Libero, quando mi trasferii
a Bologna e presi a frequentare il Cassero di Porta Santo Stefano,
dove il “vecchio” Fantazzini era una presenza costante assieme
alla compagna Maria, coppia che ai miei occhi di ventenne ancora
colmo di entusiastici propositi, appariva a dir poco “leggendaria”...
Ricordo però che Libero non parlava volentieri di Horst, e quando
lo faceva camuffava l’amarezza e la malinconia con qualche frase
un po’ burbera, lui che era sempre così bonario e disponibile
con chiunque e in qualunque situazione... Horst, ai suoi occhi
di ottantenne che aveva afferrato la vita per le corna senza
rassegnarsi a nessun destino che non fosse quello da lui scelto,
faticava non poco ad accettare il “destino” di un figlio finito
sulle prime pagine come “rapinatore gentile” quanto scalognato,
e sicuramente al vecchio partigiano, al combattente anarchico
che andava fiero del proprio passato e lottava contro un presente
saccheggiato dai cialtroni di sempre, bruciava troppo quel tono
patetico con cui certa stampa dipingeva il figlio a cui non
ne andava bene una, e che continuava a tentare evasioni impossibili
ottenendo soltanto un accanimento feroce e ottuso, comunque
spietato e violento come Horst non era e non sarebbe mai stato.
Da vecchio padre, poi, chissà che strette al cuore ogni volta
che vedeva quella copertina di “Ormai è fatta”, con Horst crivellato
di pallottole e coperto di sangue dopo la fallita fuga da Fossano...
L’uscita del film fu l’occasione per una iniziativa di solidarietà
all’uomo divenuto l’emblema di un caso giudiziario abnorme e
abominevole: persino i pluriomicidi non trascorrono più di trent’anni
in carcere, e quella sera Stefano Accorsi, che ha interpretato
il giovane Horst, e Francesco Guccini, nel fugace ruolo del
padre Libero, parteciparono non come attori del film ma come
cittadini indignati contro quell’accanimento di una giustizia
ingiusta. Ma, come si leggeva nel retro di copertina del suo
racconto autobiografico, la domanda è se “una società ingiusta
può emettere condanne giuste”...
Alla fine (e non immaginavo fossimo così vicini alla “fine”
di questa storia), Horst l’ho potuto abbracciare soltanto pochi
mesi fa, quando aveva ottenuto la semicarcerazione (perché passare
la notte in galera non è “semilibertà”, la libertà o è tale
o non è, non ci sono modi per spezzettarla e frammentarla),
e in poche ore mi ha confermato ciò che già immaginavo: avevo
di fronte un uomo che era riuscito straordinariamente a mantenere
intatta la dolcezza d’animo, malgrado trentaquattro anni di
prigionia, di sogni calpestati, di folli imprese al limite del
suicidio, di rivolte disarmate e pestaggi vigliacchi, di mille
ingiustizie enormi o piccolissime, ma non per questo meno brucianti,
compresa quella che gli aveva impedito di vedere il “suo” film,
fosse stato anche con gli schiavettoni ai polsi e due guardie
ai lati...
Quando è tornato dentro per l’ultima mancata impresa
sgangherata, con l’umiliazione di apparire più patetica che
criminosa, la categoria di cinici e superficiali che vanno comunemente
sotto la definizione di “benpensanti” hanno malpensato: “Visto?
Era e resta irrecuperabile...”. Ma chi potrebbe mai giudicare
il gesto di un uomo che ha subìto trentaquattro anni di non-vita
senza aver mai tolto la vita a nessuno?
E adesso che il cuore di Horst si è fermato, penso che i cuori
dei ribelli, chissà, forse continuano a battere nei cuori degli
altri ribelli che restano e dei ribelli che verranno... Perché
nessuno muore mai del tutto finché c’è qualcuno che lo ricorda,
finché resta viva la memoria di quei battiti affidati magari
a un libro, a un film, ma soprattutto a quel sorriso dolce e
un po’ venato d’amarezza, il sorriso di chi non si rassegna
e sogna ancora, malgrado tutto, malgrado il mondo che ci ritroviamo
attorno...
Pino Cacucci
Per
Horst
“ormai
è fatta”, davvero...
per tutta la libertà che ti hanno negato
per quella che non siamo riusciti a darti
per quella che non hai riconosciuto....
senza rimorsi e rimpianti.....
il mio cuore
vola alto come un falco quando ti penso...
Valeria Vecchi
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La violenza è lessenza dello stato
Uno dei modi di presentare le dimensioni di ciò
che è accaduto in Argentina tra 18 e 20 dicembre è di offrire
alcuni dati sulla repressione: secondo le informazioni fornite
dalla stampa, sono state uccise 29 persone, anche se potrebbero
esserne di più; giovedì, soltanto nella zona di Plaza de Mayo,
nel centro di Buenos Aires, 7 persone sono state assassinate.
Ci sono stati centinaia di feriti e migliaia di detenuti
solo in Buenos Aires più di mille. Alcuni dei detenuti sono
stati torturati nei posti di polizia e dentro le unità mobili.
Sonno anche circolate voci sul funzionamento di centri clandestini
di detenzione e sull’esistenza di desaparecidos, ma queste non
sono state convalidate.
In alcuni posti di polizia, i poliziotti hanno rifiutato le
domande di habeas corpus presentate per conto dei detenuti,
affermando che questi ultimi non c’erano. Ogni tipo di strumento
è stato usato per sopprimere quelli che hanno preso parte della
lotta popolare contro la repressione.
Sebbene la linea ufficiale sia stata quella di non riconoscere
le vittime, i morti ci sono, un’ulteriore prova che la violenza
è l’essenza dello stato. Sebbene il governo abbia negato che
le forze di repressione abbiano usato armi da fuoco, i morti
ci sono, coi loro corpi perforati nella schiena e nella testa
da pallottole di piombo. Uomini, donne e bambini investiti dai
cavalli della polizia montata, teste e corpi gonfiati dalle
botte. Corpi irritati come conseguenza dei gas lacrimogeni e
di vomito. Gelidamente, come ai tempi della dittatura, il governo
ha ammesso solamente che “alcuni eccessi” sono stati commessi.
Un altro modo di presentare ciò che è accaduto, almeno nella
città di Buenos Aires, è parlare del danno recato al distretto
finanziario, i circa 60 isolati dove sono concentrati il capitale
finanziario e le imprese internazionali. Là tutto era distruzione,
vetri rotti, rottami, incendi. Ciò che è cominciato come centinaia
di atti di iconoclastia anti-capitalista si è presto trasformato
nella distruzione estesa, in cui le migliaia di persone che
avevano preso possesso delle strade hanno dato sfogo alla loro
ira.
Com’è cominciato tutto questo? Non entreremo qua nelle cause
più profonde, visto che questo ci porterebbe indietro di varie
decadi nel tempo; ci limiteremo ai fatti immediati che hanno
acceso la miccia. Il 3 dicembre il governo nazionale ha decretato
la “bancarizzazione” dell’economia [obbligando i pagamenti per
mezzo di conti bancari], ha bloccato la liberazione dei depositi
a termine fisso, il quale ha punito soprattutto gli investitori
piccoli, per tentare di compiere coi requisiti della politica
di zero deficit della Fmi e di prevenire la continuazione della
fuga del capitale. Questo ha paralizzato l’economia nazionale,
costituendo un colpo di grazia per i liberi professionisti ed
i piccoli commercianti, per non parlare dei settori più emarginati.
Il punto d’ebollizione sociale stava solamente a distanza di
giorni.
I primi saccheggi hanno luogo martedì 18 a Cordoba e Entre Rios;
la mattina di mercoledì si estendono alla cintura urbana che
circonda Buenos Aires e alle altre città del paese. La psicosi
si sparge come una piaga per tutta l’Argentina. Aumentano le
voci che orde di predatori – identificati convenientemente come
“piqueteros” [il nome dato ai contestatori che construiscono
barricate sulle strade e sui ponti per interrompere le attività
economiche] – stanno devastando i quartieri. Lo scopo è quello
di destabilizzare il governo e allo stesso tempo di mettere
poveri contro poveri, di deviare la lotta di settori popolari
per costruire una società nuova. La destra e i peronisti optano
per la guerra psicologica per spianarsi la via verso il potere.
Il governo nazionale risponde alla crisi profonda sociale dichiarando
lo stato di assedio con una durata di 30 giorni. Ancora una
volta le rivendicazioni popolari vengono criminalizzate e represse
con forza. La delibera presidenziale si annuncia formalmente
mercoledì alle 23 circa. Immediatamente migliaia di persone
escono nelle strade, costituendo uno dei più grandi atti di
disubbidienza civile visti dal ritorno della democrazia rappresentativa.
Il suono di centinaia di migliaia di casseruole battute e dei
clacson delle macchina riempiono tutti i quartieri di Buenos
Aires, mentre le persone, molte di loro sventolando bandiere
argentine, marciano verso il parlamento e la Casa Rosada
il palazzo di governo. Quando Plaza de Mayo è piena di uomini
e donne, di bambini e anziani, la polizia spara gas lacrimogeni
contro la folla. La risposta generale è pacata, anche se alcuni
gruppi dirigono la loro rabbia contro le banche, le affissioni
pubblicitari, i telefoni pubblici e i ristoranti McDonalds.
Alle 3 del mattino, nonostante le suppliche dei partiti politici
e dei sindacati, la gente continua a resistere nelle strade
allo stato di assedio, e la presenza della polizia è limitata.
Le notizie delle dimissioni, prima del ministro dell’economia
e poi del resto del consiglio di ministri, incoraggia la forza
popolare. Ma alle quattro circa cominciano le cariche della
polizia, con gas lacrimogeni e pallottole di gomma e
di piombo. Sui gradini del Congresso 15 isolati da Plaza
de Mayo cade la prima vittima fatale.
Nonostante la repressione, alcuni gruppi rimangono nelle strade.
Giovedì a mezzogiorno, la polizia carica violentemente quelli
che stanno manifestando in Plaza de Mayo. La gente viene calpestata
dai cavalli della polizia montata, debilitata dai gas, picchiata
e sparata addosso. La piazza viene svuotata, ma le lotte per
le strade cominciano in tutto il centro urbano.
L’avanzata della polizia viene contrastata durante ben otto
ore, usando solamente barricate, pietre e molotov. Le ore passano,
e le notizie dei compañeros morti intensificano il senso di
rabbia. Alle 19 circa, quando viene comunicata ufficialmente
la dimissione del presidente, la polizia carica violentemente
i manifestanti che ancora rimangono nella zona dell’Obelisco.
Allo stesso tempo, le battaglie infuriano nel resto del paese.
In Paraná, capitale della provincia di Entre Rios, la gente
tenta di bruciare la sede del governo provinciale. Nella città
di Cordoba, cercano di ridurre la sede municipale a ceneri.
In La Plata, capitale della provincia di Buenos Aires, i manifestanti
tentano di occupare l’edificio legislativo provinciale.
Mentre tutto questo sta accadendo nelle strade, la classe politica
riesce solo a colmare il vuoto di potere che ha causato la fuga
patetica in elicottero del presidente dimissionario Fernando
De La Rua. Dalla convenzione di governatori Giustizialisti [Peronisti]
che si sta svolgendo nella provincia di San Luis, la notizia
viene accolta come una grande vittoria. Non dimentichiamo che
il giorno precedente loro stessi avevano rifiutato di formare
un governo di coalizione, precipitando così l’inevitabile collasso
del governo del partito Radicale. Quindi il governo Radicale,
disfatto dalla lotta popolare, viene rapidamente sostituito
dai Peronisti. Ramon Puerta il quale, come presidente
del senato, ha preso il posto di De La Rua afferma: “In
nessuno momento è mancato il leadership istituzionale”.
Le ultime azioni del governo di De La Rua sono state quelle
di levare lo stato di assedio, di insistere sulla parità peso-dollaro
e di dire che la loro rinuncia non era a causa della lotta popolare,
bensì al vuoto di potere provocato dai Peronisti. Puerta ha
imposto nuovamente lo stato di assedio nelle province di Entre
Rios, San Juan e Buenos Aires, anche se alcune ore dopo lo ha
levato.
Le mobilitazioni popolari avevano anche un aspetto più profondo.
La gente ha respinto non solo la classe governante (politici
e sindacati) e il piano economico dettato dalle istituzioni
finanziari internazionali, ma anche la politica come mezzo per
creare un progetto sociale diverso. Tutti i media hanno presentato
questi giorni storici come una vittoria per la società civile,
delegitimizzando coloro che hanno partecipato alla lotta popolare
e gli emarginati che hanno perso la vita nelle strade. La fuga
di De La Rua rappresenta una vittoria popolare, nonostante le
manovre della destra e del Peronismo per fomentare la destabilizzazione
politica.
la Biblioteca Popolare
“José Ingenieros”
Buenos Aires, 26 dicembre 2001
(traduzione dallo spagnolo di Leslie Ray)
Ricordando Vernon Richards
Vernon Richards, deceduto all’età di 86 anni,
essendo nato a Soho il 19 luglio 1915, era figlio dell’anarchico
italiano Emidio Recchioni che, dopo essere evaso da un bagno
penale alla fine dell’Ottocento aveva aperto il famoso negozio
“King Bomba” al 31 di Old Compton Street.
Nel 1935, a vent’anni, dopo essere stato estradato dalla Francia
in seguito al patto Hoare/Laval, Vero Recchioni aveva anglicizzato
il proprio nome e aveva cominciato a pubblicare a Londra la
rivista Free Italy/Italia libera, in collaborazione con
Camillo Berneri, esule dall’Italia e che sarebbe poi stato assassinato
a Barcellona dagli agenti staliniani.
Nel 1936, allo scoppio della guerra civile e della rivoluzione
in Spagna, si unì ai veterani di un’altra rivista anarchica,
Freedom, per pubblicare un giornale di lingua inglese
che desse voce agli anarchici spagnoli: Spain end the World,
in un momento in cui, come più tardi ebbe a dire il suo amico
George Orwell, in Inghilterra si sentiva solo la versione News
Chronicle / News Statesman degli eventi spagnoli.
Nel corso della Seconda Guerra mondiale il giornale prese il
titolo di War Commentary. La figlia di Berneri, Maria
Luisa, era diventata la compagna di Vernon Richards e gli fu
accanto fino alla tragica scomparsa sua e del bambino appena
dato alla luce, nel 1949. Intanto la redazione del giornale,
che nel 1945 aveva ripreso il nome originale di Freedom,
era stata arrestata in blocco e incriminata per sobillazione
nei confronti di esponenti delle forze armate. Vernon Richards,
insieme a John Hewetson e a Philip Sansom, rimase in prigione
per nove mesi.
Uno degli aspetti più positivi di questo periodo d’incarcerazione
fu l’opportunità che gli fu data di riprendere a suonare il
violino e addirittura di formare una piccola orchestra con altri
musicisti in prigione. Quand’era un bambino libero di scorrazzare
per le strade di Soho, aveva studiato il violino sotta la guida
dello zio di John Barbirolli, da ragazzo aveva suonato il repertorio
orchestrale, aveva assistito alla grande serie di concerti beethoveniani
diretti da Toscanini alla Queen’s Hall, alla fine degli anni
trenta, e si era fatto autografare il programma dal maestro.
Agli amici resta il rimpianto di non averlo più sentito suonare
dopo che era uscito di prigione.
Pur essendo laureato in ingegneria civile, non riprese mai più
l’esercizio della professione, asserendo che una delle cose
che aveva imparato in prigione era l’idiozia di inseguire una
“carriera”. Si guadagnava da vivere gestendo il negozio di sua
madre, finché, cambiata l’atmosfera di Soho negli anni cinquanta,
riuscì a venderlo. Dopo di che lavorò come fotografo indipendente
e come giardiniere e poi l’agente di viaggio per la Spagna di
Franco e per l’Unione sovietica di Breznev, convinto che il
turismo creasse legami che avevano un influsso liberatore e
spalancasse le frontiere più chiuse. Nel 1968 si trasferì insieme
a Pete Hewetson in una piccola tenuta nel Suffolk, dove coltivò
per quasi trent’anni prodotti naturali.
Aveva continuato a dirigere Freedom settimanale dal 1951
al 1964, ma poi fu sempre pronto a riprendere il suo ruolo di
redattore tutte le volte che pensava che il giornale prendesse
una direzione sbagliata. Solo negli anni novanta cessò la sua
collaborazione con questo periodico cui aveva ridato vita sessant’anni
prima. In questo periodo il marchio editoriale di Freedom Press
fece uscire dalla redazione di Whitechapel un numero incredibile
di libri.
Era merito suo: nel corso degli anni cinquanta scrisse, a puntate
mensili, la sua opera tante volte ristampata e tradotta, Lessons
of the Spanish Revolution, frutto di tante sere domenicali
trascorse con la sola compagnia della sua fedele bottiglia di
Valpolicella.
Ripensando all’impegno di un’intera vita dedicata al mantenimento
di una presenza anarchica nell’editoria britannica, gli amici
pensavano che alla base ci fosse stato l’esempio di suo padre,
che era stato coinvolto in un fallito complotto per assassinare
Mussolini. Ma io l’ho sentito con le mie orecchie criticare
seccamente suo padre definendolo “terrorista borghese”. In effetti
la personalità anarchica che più lo influenzò fu Errico Malatesta,
e il suo libro Malatesta: Life and Ideas è stato letto
in tutto il mondo.
Con il suo impegno assoluto per l’editoria anarchica, è stato
anche uno spietato sfruttatore del lavoro degli altri. Del gruppo
straordinario che aveva animato negli anni quaranta, George
Woodcock, Philip Sansom e John Hewetson, nessuno era rimasto
in termini di amicizia con lui, che, per parte sua, incapace
di ammettere di avere spesso agito come un manipolatore, considerò
il loro distacco dalla sua cerchia come una prova del fatto
che tutti erano rimasti sedotti dalle lusinghe del capitalismo.
Alla fine degli anni novanta alcuni suoi ammiratori favorirono
la pubblicazione da parte di Freedom Press di quattro suoi libri
di fotografie, a partire del suo famoso ritratto di Orwell e
di suo figlio Richard nel 1946, sul volume George Orwell
at Home.
Un’imprevista coda a questo tributo gli venne dalla cittadina
catalana di L’Escala. Vernon aveva cominciato a portare villeggianti
in quel paesino poverissimo nel 1957, fotografandone gli abitanti.
Nel 1999 il Centro Studi Catalani realizzò un prezioso album
di fotografie che, per gli abitanti del luogo è diventato una
preziosa testimonianza della dignità dei loro nonni in quei
tempi duri.
Colin Ward
(traduzione dall’inglese di Guido Lagomarsino)
Ricordando Giovanni Marini
La sera del 23 dicembre 2001 un infarto ha stroncato
prematuramente, a 59 anni, la vita di Giovanni Marini, il “poeta
dei folli e dei giusti”. Al suo rientro la madre l’ha trovato
privo di vita. La notizia è stata diffusa dalla stampa locale
del 27 dicembre 2001, a tumulazione avvenuta e per questo nessuno
dei compagni e degli amici ha potuto rendere a Giovanni Marini
l’estremo saluto.
È “sopravvissuto” quasi trent’anni a una sentenza di
morte pronunciata nei suoi confronti dai fascisti di Salerno.
L’anarchico Giovanni Marini, nato il 1 febbraio 1942 a Sacco,
un paesino all’interno del Cilento, “doveva” morire una sera
d’estate di molti anni fa. Era il 7 luglio del 1972 quando sfuggìi
a una vile aggressione fascista, nel corso della quale perse
la vita una dei suoi aggressori, il giovane Carlo Falvella.
La città di Salerno in quelli anni fu teatro di moltissime azioni
fasciste, come incendi, devastazioni di sedi e aggressioni a
militanti della sinistra, fino ad un assalto alla redazione
del quotidiano “Il Mattino”.
Giovanni Marini era impegnato in una contro-inchiesta su uno
strano incidente stradale che aveva provocato la morte di cinque
anarchici calabresi, Giovanni Aricò, Annalisa Borth, Angelo
Casile, Francesco Scordo, Ligi Lo Celso, avvenuto il 27 settembre
1970 sull’autostrada nei pressi di Ferentino, a pochi chilometri
da Roma, dove i nostri compagni si recavano per consegnare i
risultati di una loro inchiesta sulle stragi fasciste, che avevano
cominciato ad insanguinare l’Italia. Le carte e i documenti
degli anarchici di Reggio Calabria non furono mai ritrovate.
Nell’incidente, avvenuto all’altezza di una villa di Valerio
Borghese, fu coinvolto un autotreno guidato da un salernitano,
che procedeva con i fari posteriori spenti. Pare che l’autista
avesse simpatie fasciste. Marini doveva accertare se era stato
un incidente casuale oppure organizzato e per questo aveva ricevuto
molte minacce telefoniche, ma non sappiamo a che cosa approdarono
le sue indagini.
Nella prima serata del 7 luglio 1972 a Salerno si consumò l’ennesima
provocazione da parte di Carlo Falvella e di Giovanni Alflinito,
due militanti del MSI. Falvella per provocare una sua reazione,
incontrandolo, gli diede una gomitata, ma Marini che passeggiava
in compagnia di Gennaro Scariati, nato nel 1955 a Salerno, non
reagì. E ben fece perché il lungomare di Salerno era strapieno
di fascisti pronti ad intervenire per dar man forte ai camerati
certamente mandati in avanscoperta.
Più tardi Marini e Scariati, ai quali nel frattempo si era aggiunto
per puro caso il giovane Francesco Mastrogiovanni, nato nel
1951 a Castelnuovo Cilento (Sa), ridiscendendo tranquillamente
Via Velia per andare a teatro, incontrarono nuovamente i due
giovani missini. Ai due Mastrogiovanni disse di lasciarli in
pace e per tutta risposta vide luccicare la lama di un coltello
che lo ferì alla gamba, svenne e cadde sul marciapiedi. A questo
punto intervenne Giovanni Marini, che riuscì a disarmare gli
aggressori e, impossessatosi del coltello che aveva ferito Mastrogiovanni,
nella colluttazione ferì Carlo Falvella, un giovane fascista
di 21 anni. I fascisti – di fronte all’imprevista e coraggiosa
reazione – se la diedero a gambe, limitandosi a soccorrere i
loro due camerati e poco dopo Falvella morì all’ospedale. Mastrogiovanni,
sanguinante per la ferita alla gamba, dovette ricorrere all’autostop
per recarsi in ospedale.
Marini si costituì subito dopo e fu dichiarato in arresto insieme
con Mastrogiovanni e con Scariati, che si costituì dopo alcuni
giorni e venne prosciolto in istruttoria, mentre Mastrogiovanni
sarà scarcerato ma imputato per rissa.
Nonostante un manifesto della federazione provinciale del PCI
di Salerno che definiva Marini uno “sciagurato”, all’anarchico
salernitano – sfuggito ad un’aggressione fascista – andò subito
la solidarietà del movimento anarchico e della sinistra extraparlamentare
(una prima sottoscrizione a loro favore fu fatta dal sottoscritto
tra i compagni che partecipavano alla manifestazione per il
centenario del Congresso dell’Internazionale svoltosi a Rimini
nel 1872).
Falvella fu seppellito con tutti gli onori dovuti a chi cade
nel corso di una battaglia e lo stesso Giorgio Almirante – che
precedentemente, in un comizio a Firenze, aveva incitato allo
“scontro fisico” – e altri esponenti missini si recarono a Salerno.
Intanto Marini, descritto come un mostro, una belva anarchica
assetata di sangue, per punizione peregrinava incessantemente
da un carcere all’altro e a Caltanissetta fu destinato in una
buia e umida cella. E non smise mai di denunziare le incivili
e aberranti condizioni di vita riservate ai carcerati.
Il processo iniziò a Salerno per il 28 febbraio 1974. Il collegio
difensivo era costituito dal senatore comunista Umberto Terracini,
dagli avvocati Giuliano Spazzali, Gaetano Pecorella e Francesco
Piscopo del foro di Milano e dall’avv. Marcello Torre di Pagani
(ricordo che poco dopo l’arresto, di mia iniziativa, mi ero
recato a Potenza per proporre all’avv. Tommaso Pedio di assumere
la difesa, ma non lo trovai e poi seppi del collegio difensivo).
Tra i difensori degli aggressori, l’avv. Alfredo De Marsico,
già ministro della Giustizia di Benito Mussolini e uno dei collaboratori
del famigerato codice Rocco, e gli avvocati salernitani Dino
Gassani e Giacomo Mele, esponenti missini di rilievo e di provata
fede.
Il 13 marzo 1974 il tribunale di Salerno, adducendo motivi di
ordine pubblico, sospende il processo spostandolo a Vallo della
Lucania, dove riprende il 30 giugno del 1974. Fu seguito da
numerosi compagni e compagne venuti da ogni parte d’Italia anche
per testimoniare e manifestare solidarietà a Marini, oltre che
dagli inviati dei maggiori quotidiani italiani (chi scrive lo
seguì per “l’Internazionale” di Ancona, “Espoir” di Tolosa e
“Le Monde Libertaire” di Parigi). A Vallo della Lucania, il
PM Zarra chiese la condanna di Marini a diciotto anni di carcere.
Invece il tribunale – presieduto dal giudice Fienga – lo condanna
a dodici anni, con tre anni di sorveglianza e all’interdizione
dai pubblici uffici, assolvendo Mastrogiovanni e il missino
Alfinito dall’accusa di rissa. Al processo d’appello – che si
tiene a Salerno dal 2 al 23 aprile 1975 – la condanna viene
ridotta a nove anni di carcere, dei quali ne sconta sette.
Quando viene scarcerato Gerardo Ritorto, presidente socialista
della Comunità Montana del Vallo di Diano di Padula, mio tramite,
gli offre un lavoro che accetta.
Marini però portava nelle sue carni le insanabili ferite della
detenzione e della persecuzione carceraria e, purtroppo, vedeva
dappertutto “nemici” e così un giorno sfasciò dei mobili in
un ufficio della Comunità Montana.
Venne arrestato e licenziato.
Uscito distrutto dal carcere, purtroppo Marini si era illuso
di trovare un suo “mondo”, senza rendersi conto che molte cose
erano cambiate, che i valori politici si erano assottigliati
e sopravvivevano presso una piccola minoranza o si erano addirittura
perduti.
Così una volta fuori, persa la serenità, Giovani Marini – pur
avendo vissuto il periodo della detenzione con una grande coerenza
e combattività – è andato via via autoemarginandosi dalla vita
e dal movimento anarchico.
Aveva trovato un conforto nella poesia e già durante la detenzione
il volume “E noi folli e giusti”, pubblicato nel 1975 dall’editore
Marsilio, aveva ottenuto un lusinghiero successo arrivando a
vincere il Premio Viareggio per la poesia. Continuava a scrivere
poesie e di tanto in tanto pubblicava per proprio conto dei
libricini, che mandava per lo più in dono ad un ristretto gruppo
di amici (li stampava presso la stessa tipografia dove stampo
le mie edizioni, dove qualche volta lo incontravo).
A Salerno lo si incontrava raramente che trascinava faticosamente
il suo corpo acciaccato e dolorante, e per la città Marini era
un estraneo e una figura scomoda.
“Lascia agli altri, a noi tutti la sofferenza di pensarlo e
ripensarlo”, ha scritto in un articolo per “Il Mattino” del
28 dicembre 2001 Ernesto Scelza – assessore Ds alla provincia
di Salerno, uno degli amici di allora – che continua: “Per alcuni
rimaneva quello della tragica aggressione del 1972, per molti
un problema, per troppi un ingombro. Giovanni Marini è stato
contraddizione lacerante. Sensibilità esasperata, nervi scoperti,
tensioni emotive e nevrosi scoperte. Ha vissuto i nostri tempi,
come da sempre gli ultimi fra gli uomini sono dannati a vivere
i propri (…) Tenero e spietato, con sé e con tutti. Era
semplice fino alla perversione. Era la vita che amava e che
sempre ci sfugge”.
Franca Rame, in un’intervista a Barbara Cangiano, pubblicata
da “La Città” del 28 dicembre 2001, sottolinea la sua generosità
e sulla base di una generica e vaga confidenza – che sarebbe
stata fatta da Marini “preferì addossarsi le colpe per non far
finire nei guai un compagno più giovane che, proprio perché
minorenne, avrebbe scontato anche una pena minore”.
La cosa non è nuova, perché emerse anche al processo d’appello
di Salerno, ma non fu presa in considerazione, proprio perché
generica e inconsistente.
Il destino ha voluto che Giovanni Marini morisse da solo, nella
lontananza dagli amici e dai compagni, che non lo avevano di
certo dimenticato ed erano comunque partecipi delle sue vicende
umane.
Giuseppe Galzerano
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