rivista anarchica
anno 32 n. 278
febbraio 2002


Bangladesh

Io nel mio lavoro sono libera
di Sandra Endrizzi

Due mesi in uno dei Paesi più poveri del mondo. A lezione di dignitą, da parte delle donne.

Il Bangladesh come contesto

Il Bangladesh, disteso nel delta del Gange, a sud est dell'India ha conosciuto fin dalle sue origini il dominio di imperi potenti come di Moghul che arrivarono nel VI secolo, sconfitti soltanto dalla Compagnia delle Indie dei coloni inglesi. Questi in Bangladesh trovarono una vera e propria fortuna, sia per la sua posizione strategica (con il porto di Chittagong a sud) che per le risorse da sfruttare: riso, juta e tè. Cominciò uno sfruttamento intensivo senza alcun ritorno, tutte le ricchezze venivano esportate in Inghilterra. Ma il peggio arrivò con l'indipendenza del 1947, quando il Bangladesh fu diviso in due: la parte orientale, quella a maggioranza musulmana fu ceduta al Pakistan e prese il nome di Pakistan dell'est, mentre la parte occidentale divenne India a tutti gli effetti, pur avendo in comune solo la religione indù. La dittatura pakistana esordì con l'abolizione della lingua bengalese e con l'obbligo di adottare ogni usanza pakistana, e non ammettendo nessun rappresentante bengalese al governo.
Tutto questo condusse a una rivoluzione civile nel 1970, conclusasi nel 1971 con la proclamazione di Bangladesh indipendente. Da allora il paese deve ancora risollevarsi, tra carestie e alluvioni, un'economia sempre fragile e governi instabili. La fragilità politica ed economica è solo un particolare rispetto allo stato di mera sussistenza in cui vive il popolo bengalese, basti pensare che la superficie è di circa 144.000 Kmq per una popolazione di 120 milioni di abitanti: una sproporzione che ha fatto del Bangladesh un paese di emigranti. Altro fatto di grave rilevanza sono i casi di donne colpite dall'acido al volto, donne sfigurate per motivi di onore, dote o gelosia da parte di spasimanti o parenti. In molti studi le donne bengalesi sono indicate come le più povere dei poveri, perché la loro situazione è aggravata dalle violenze e dalle regole di un ordine patriarcale forte.

 

Microcredito e cooperative

Il microcredito è un'esperienza nata negli anni ’70 in Bangladesh, si tratta di un piccolo prestito dato al singolo ma con il vincolo di costituire un gruppo, di modo che se un membro non restituisce la sua quota saranno gli altri a coprire l'ammanco. In questo modo la "banca"‚ è tutelata e la pressione sociale costringe tutti i membri del gruppo a lavorare. In questo sistema le donne si sono rivelate più attendibili degli uomini, questo dato è riportato in particolare dal prof. Yunus Muhammad, ideatore del microcredito (vedi Il Banchiere dei poveri, ed. Feltrinelli, Milano1998) Negli stessi anni, parallelamente a questa esperienza, nasceva quella del commercio equo italiano che con lo stesso sistema ha dato dei finanziamenti a gruppi di donne che lavorassero in gruppo (con la costituzione di una cooperativa) per poter esportare i manufatti artigianali in occidente. Dopo trent'anni di esperienza il gruppo di donne che ha cominciato, è in grado di elencare i vantaggi personali e sociali che al villaggio si sono avuti grazie alla cooperativa, ne riporto alcuni: i figli e le figlie possono studiare, si può andare dal medico o comperare le medicine, molte si sono costruite la casa e hanno comperato del terreno da coltivare e delle bestie; inoltre c'è un piccolo fondo di garanzia che ottenuto detraendo il 5% dello stipendio di ogni donna della cooperativa, in modo che se qualcuna deve far fronte ad un'urgenza economica può richiedere alla cooperativa di accedere a quella parte di denaro.
In Bangladesh, dove la povertà è il denominatore comune, è nata un'esperienza che ha esportato il suo sapere in innumerevoli paesi: il microcredito. Ciò che mi ha interessata di tale proposta sta nella scommessa di prestare denaro a chi privo di garanzie patrimoniali ma carico di capacità e, in seconda battuta, la scelta di prestare il denaro alle donne. Perché alle donne? Con questa domanda sono partita per la mia ricerca di tesi, e sono arrivata al villaggio di Bhabarpara (nord-ovest del Bangladesh), dove un gruppo di donne (circa 60 in tutto) lavorano nella loro cooperativa. Sono rimasta al villaggio per due mesi, ospite di una famiglia. La cooperativa è nata negli anni ’70 per lavorare la juta e con cui confezionare diversi articoli, sottopentola, tappeti, amache, shike (qui conosciuti come portavasi da appendere al soffitto) ed altri ancora.

 

"Ma dove sono le altre?"

"Sono qui per studiare il lavoro nella cooperativa" spiegai al mio arrivo. "Bene, allora dovrai conoscere tutte le donne che ci lavorano", mi disse Nicha, la presidente in carica. Già il secondo giorno stavo seguendo a passo veloce la sua figura avvolta in un sari giallo e blu, stavamo andando al sentare (centro) ovvero il magazzino dove vengono depositati tutti i manufatti per essere imballati e poi spediti al porto di Khulna. Stavo aspettando l'arrivo delle donne che lavorano per la cooperativa, ma ne arrivarono soltanto cinque. Ma dove sono le altre? chiesi a Nicha. Oggi facciamo una riunione con tutte le rappresentanti dei gruppi, per questo sono venute al sentare, solitamente noi lavoriamo a casa ed una volta in settimana portiamo qui i manufatti.
Per il resto della mia permanenza ho sempre seguito Nicha nel suo lavoro, e con lei sono andata nelle case delle donne, che si radunavano in gruppetti per lavorare assieme. "Il nostro non è un lavoro a tempo pieno‚ – mi spiegano – tutte noi abbiamo i lavori domestici da sbrigare, i bambini da accudire, e varie attività che occupano buona parte della nostra giornata, comunque l'attività artigianale occupa un posto privilegiato nella nostra vita. È un lavoro in cui riusciamo ad esprimere la nostra abilità, il nostro gusto. È un lavoro che ci fa sentire apprezzate. Per noi lavorare insieme, ci dà modo di parlare di quello che ci interessa. E poi sapere che quello a cui stiamo lavorando andrà all'estero… è un po’ una parte di noi che va all'estero!".
In queste poche parole è espressa tutta la forza del lavoro che quotidianamente viene svolto dalle donne della cooperativa. Ritrovarsi a piccoli gruppi, potersi muovere liberamente da una casa all'altra e, talvolta, da un villaggio all'altro per motivi di lavoro ha dato alle donne un grossa spinta all'autonomia. Basti pensare che le donne in Bangladesh sono costrette ad osservare tutte le regole imposte dal purdah, che prescrive la segregazione dentro casa, l'impossibilità di compiere qualsiasi transazione se non si è accompagnate da un rappresentante maschile della propria famiglia. All'inizio i mariti non vedevano di buon occhio il fatto che le mogli si recassero "in giro" sole, ma quando si accorsero dell'importanza del contributo del loro lavoro si ricredettero; questo cambiamento avvenne con gli anni e con molta insistenza e caparbietà da parte delle donne.

 

Tutte partecipano

Avere la possibilità di riunirsi ha permesso alle donne di mettere in comune ben più del lavoro, si accorsero che i problemi di ogni singola erano i problemi di molte, fino ad arrivare a sostenersi e a difendersi a vicenda. "Abbiamo aperto gli occhi" dice Chalear, una delle fondatrici e presidente per anni, la sua voce tonante risuona nella piccola stanza buia.
Il lavoro è faticoso, gli unici strumenti sono un ago e la juta, tutto viene intrecciato a mano, senza telai. Bisogna fare una lunga treccia sottile, poi la si modella a seconda della forma che si vuole creare, le forme e le dimensioni sono disegnate su una tavola di legno, così da rendere tutti i manufatti omogenei. Il controllo della qualità viene fatto da una delle donne della cooperativa, che è stata scelta dalle altre per la sua esperienza, lei infatti si accorge subito degli errori e dei difetti. Ciò che mi ha stupita è l'organizzazione che si sono data: benché nella cooperativa si siano individuate delle figure rappresentati, tutte le donne partecipano attivamente al funzionamento della cooperativa, tutte si interessano alla conduzione e non soltanto alla produzione in senso stretto, se ci sono delle decisioni importanti da prendere si riuniscono tutte al sentare, oppure se non è possibile, si radunano tutte le rappresentati che riferiscono le decisioni e raccolgono i pareri di tutte le donne.
Il lavoro della cooperativa è parte integrante della vita delle donne che vi partecipano, ed ha fatto emergere una fitta rete di legami che ha tenuto forte ed ha parato le cadute, causate da alluvioni, crisi economiche o imprevisti: quella che emerge è la storia di grandi passaggi che le donne hanno fatto nel tempo e di piccoli passaggi che compiono quotidianamente, per seguire tutte le attività dentro e fuori la cooperativa. Chalear racconta le difficoltà del passato, dei sabotaggi dei "capoccia" del villaggio (uomini d'affari a cui dava fastidio il lavoro indipendente delle donne) a cui "sarebbe piaciuto che noi chiudessimo e che tornassimo a lavorare a servizio dei ricchi o nei campi, per un barattolo di riso". Ciò che risalta nel lavoro della juta sono le forti relazioni che le donne tengono vive con il lavoro, in questo sta il punto di svolta che fa la differenza tra il lavoro di gruppo femminile da quello maschile.

 

Oltre il guadagno

Quello che Yunus Muhamad, ideatore del microcredito, ha indicato come "solidarietà femminile" ha origine nel "luogo comune" alle donne, la casa. È lì che le donne costruiscono, e si affidano, ad una "rete femminile" che non è una trama ipotetica che unisce le donne in una solidarietà misteriosa ma un'istituzione – come la parentela e il matrimonio – profondamente radicata nella loro vita. Il mutuo aiuto e la collaborazione sono elementi che contraddistinguono il lavoro femminile, non si basano soltanto sulla necessità, ma sono un intreccio tra bisogno e sentimento: le relazioni delle donne sono il loro capitale. Il fatto che le donne in Bangladesh siano dipendenti è ripetutamente e ovunque sottolineato, ciò che manca di essere detto è che questo può diventare sia il centro del loro potere che della loro vulnerabilità. Far uscire le relazioni, nella cooperativa di Bhabarpara ha permesso alle donne di creare un'attività produttiva, rivolta ad un mercato internazionale e di mantenere saldo il loro legame familiare. Il guadagno supera l'aspetto economico, se c'è qualcosa che ho sentito sottolineare con forza dalle donne è che il cambiamento per loro è stato di mandare i figli a scuola, di aver comperato una mucca, qualche gallina, di poter andare dal medico se necessario.
Prima di lasciare il villaggio chiesi a Chalear "Sono trent'anni che lavori la juta, non sei stanca? non vorresti riposarti o cercare qualcos'altro?". In tutta risposta mi disse: "Io nel mio lavoro sono libera."

Sandra Endrizzi