rivista anarchica
anno 32 n. 278
febbraio 2002


attenzione sociale


diario a cura di Felice Accame

Sul treno della sinistra

 

Trafelato, salgo sul treno appena in tempo. Mancano pochi minuti alla partenza. È un “eurostar”, è giorno di prenotazione obbligatoria e, dunque, mi cerco il mio posto, mi siedo e passo ai giornali. Ci muoviamo poco dopo, ma per pochi metri. Falsa partenza, torno ai giornali. Mi ci vuole almeno un quarto d’ora per tornare al mio qui e ora. Il treno è inequivocabilmente fermo. Il mio dirimpettaio dà segni di nervosismo e, tra un’occhiata sempre più distratta ai giornali e un commento di circostanza, passa una mezz’ora buona.

L’occhiata ai giornali è sempre più distratta, provo anche, in alternativa, a sfogliare un libro, ma mi accorgo che, più passa il tempo – fermo restando il treno –, meno riesco a concentrarmi su checchessia. La contrarietà si è trasformata in una sorta di “pensiero unico”, o di ostacolo al pensare. Diciamo la verità: la gestione dell’attenzione non è così facile e scontata come, spesso, riteniamo. La orientiamo dove ci pare e la focalizziamo quanto ci pare soltanto in rare occasioni di discreta padronanza di noi stessi, ma è sufficiente un pensiero oppositivo, il tarlo della consapevolezza di un programma disatteso, per rimanerne schiavi. Sulla partenza del treno, ovviamente, non possiamo alcunché – non dipende da noi –, e l’unico atteggiamento legittimo (a meno di tornarsene a casa) è quello di aspettare, ma, tant’è, l’idea fissa della contrarietà prende il sopravvento su tutte le altre. So che a monte di questi atteggiamenti sta una forma di irrazionalismo relativista che non mi fa onore – come se il rigirare il coltello nella piaga della mia frustrazione potesse far partire prima il treno di quando poi partirà –, ma ammetto che, nonostante questa consapevolezza, non sono mai riuscito a liberarmene del tutto.

Sono lì che rimugino sulla questione, allorché una voce mi scuote: “Ecco perché il treno non parte. Ci sei su tu”. Alzo lo sguardo e mi imbatto in un conoscente, prototipo dell’intellettuale di sinistra. “Carissimo”, mi alzo, “il mondo è piccolo”, stretta di mano, “dove vai e dove non vai”, ci si scambia qualche parola rimanendo sul vago.
Mi chiedo da dove venga, allora, il “sapere” di quel signore. Se il treno non parte, allora ci sono sopra io; se ci sono sopra io, allora il treno non parte. Non mi preoccupa il fatto che costui ritenga me una sorta di jettatura ambulante (dicendo sempre quello che penso e argomentandolo posso anche creare qualche imbarazzo in chi deve sopravvivere tacendo e scarseggiando di argomenti per giustificarsi), mi preoccupa il fatto che nel pensiero di costui ci sia posto per rapporti di causa e di effetto di questo tipo. E non mi preoccupo tanto per lui – adulto lo è e dovrebbe essere responsabile del quadro ideologico in cui vive e sentenzia –, quanto per coloro che, venendo in contatto con lui, ne vengono, per così dire, modellati (l’intellettuale di sinistra troverà pur ancora qualcuno cui spezzare il pane della sua scienza).
Giorgio Galli, in Hitler e il nazismo magico, ha mostrato come l’esoterismo fosse radicato nel pensiero nazionalsocialista, ma ritenere che i tavolini a tre gambe, la lettura della mano, l’astrologia, la metempsicosi o la parapsicologia siano tutti elementi estranei alla sinistra sarebbe un errore. Il fatto stesso che la sinistra, d’altronde, non si sia mai liberata della filosofia la dice lunga su una porta aperta da cui chiunque può far rientrare la quantità di pattume che desidera – anche doppia rispetto a quella buttata fuori.

Ovviamente, ho anche pensato che, dati i modesti rapporti di conoscenza che ci legavano, l’alimentazione fondamentale per costruirsi il paradigma di un Accame jettatorio gli venissero da altri, ben preposti al suo retroterra ideologico. In costui c’era soltanto il brodo di cultura in cui l’idea poteva essere buttata e favorevolmente accolta. Così come intorno ai tavolini a tre gambe gli interroganti gli spiriti dell’Al di Là non sono mai soli.

I superstiziosi a sinistra sono un po’ come i preti atei. Ci sono, e per le loro Chiese fanno poco e male, come tutti coloro che vivono nella contraddizione.
Il treno, intanto, è sempre fermo. Le poche parole sono finite e, sotto gli auspici di un buon viaggio di là da venire, quello se ne torna al suo posto. Mentre si allontana penso che è un peccato che io non sia come lui, perché se no saprei, finalmente, perché il treno non parte. C’è su lui.

Felice Accame