Trafelato, salgo sul treno appena in tempo. Mancano
pochi minuti alla partenza. È un “eurostar”, è giorno
di prenotazione obbligatoria e, dunque, mi cerco il mio posto,
mi siedo e passo ai giornali. Ci muoviamo poco dopo, ma per
pochi metri. Falsa partenza, torno ai giornali. Mi ci vuole
almeno un quarto d’ora per tornare al mio qui e ora. Il treno
è inequivocabilmente fermo. Il mio dirimpettaio dà segni di
nervosismo e, tra un’occhiata sempre più distratta ai giornali
e un commento di circostanza, passa una mezz’ora buona.
L’occhiata ai giornali è sempre più distratta, provo anche,
in alternativa, a sfogliare un libro, ma mi accorgo che, più
passa il tempo – fermo restando il treno , meno riesco
a concentrarmi su checchessia. La contrarietà si è trasformata
in una sorta di “pensiero unico”, o di ostacolo al pensare.
Diciamo la verità: la gestione dell’attenzione non è così facile
e scontata come, spesso, riteniamo. La orientiamo dove ci pare
e la focalizziamo quanto ci pare soltanto in rare occasioni
di discreta padronanza di noi stessi, ma è sufficiente un pensiero
oppositivo, il tarlo della consapevolezza di un programma disatteso,
per rimanerne schiavi. Sulla partenza del treno, ovviamente,
non possiamo alcunché – non dipende da noi , e l’unico
atteggiamento legittimo (a meno di tornarsene a casa) è quello
di aspettare, ma, tant’è, l’idea fissa della contrarietà prende
il sopravvento su tutte le altre. So che a monte di questi atteggiamenti
sta una forma di irrazionalismo relativista che non mi fa onore
– come se il rigirare il coltello nella piaga della mia frustrazione
potesse far partire prima il treno di quando poi partirà ,
ma ammetto che, nonostante questa consapevolezza, non sono mai
riuscito a liberarmene del tutto.
Sono lì che rimugino sulla questione, allorché una voce mi scuote:
“Ecco perché il treno non parte. Ci sei su tu”. Alzo lo sguardo
e mi imbatto in un conoscente, prototipo dell’intellettuale
di sinistra. “Carissimo”, mi alzo, “il mondo è piccolo”, stretta
di mano, “dove vai e dove non vai”, ci si scambia qualche parola
rimanendo sul vago.
Mi chiedo da dove venga, allora, il “sapere” di quel signore.
Se il treno non parte, allora ci sono sopra io; se ci sono sopra
io, allora il treno non parte. Non mi preoccupa il fatto che
costui ritenga me una sorta di jettatura ambulante (dicendo
sempre quello che penso e argomentandolo posso anche creare
qualche imbarazzo in chi deve sopravvivere tacendo e scarseggiando
di argomenti per giustificarsi), mi preoccupa il fatto che nel
pensiero di costui ci sia posto per rapporti di causa e di effetto
di questo tipo. E non mi preoccupo tanto per lui – adulto lo
è e dovrebbe essere responsabile del quadro ideologico in cui
vive e sentenzia , quanto per coloro che, venendo in contatto
con lui, ne vengono, per così dire, modellati (l’intellettuale
di sinistra troverà pur ancora qualcuno cui spezzare il pane
della sua scienza).
Giorgio Galli, in Hitler e il nazismo magico, ha mostrato
come l’esoterismo fosse radicato nel pensiero nazionalsocialista,
ma ritenere che i tavolini a tre gambe, la lettura della mano,
l’astrologia, la metempsicosi o la parapsicologia siano tutti
elementi estranei alla sinistra sarebbe un errore. Il fatto
stesso che la sinistra, d’altronde, non si sia mai liberata
della filosofia la dice lunga su una porta aperta da cui chiunque
può far rientrare la quantità di pattume che desidera – anche
doppia rispetto a quella buttata fuori.
Ovviamente, ho anche pensato che, dati i modesti rapporti di
conoscenza che ci legavano, l’alimentazione fondamentale per
costruirsi il paradigma di un Accame jettatorio gli venissero
da altri, ben preposti al suo retroterra ideologico. In costui
c’era soltanto il brodo di cultura in cui l’idea poteva essere
buttata e favorevolmente accolta. Così come intorno ai tavolini
a tre gambe gli interroganti gli spiriti dell’Al di Là non sono
mai soli.
I superstiziosi a sinistra sono un po’ come i preti atei. Ci
sono, e per le loro Chiese fanno poco e male, come tutti coloro
che vivono nella contraddizione.
Il treno, intanto, è sempre fermo. Le poche parole sono finite
e, sotto gli auspici di un buon viaggio di là da venire, quello
se ne torna al suo posto. Mentre si allontana penso che è un
peccato che io non sia come lui, perché se no saprei, finalmente,
perché il treno non parte. C’è su lui.
Felice Accame
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