Cari bambini, futuri dirigenti ariani
di un qualche laboratorio di marketing, allattati fin dalla
nascita con un biberon alla candeggina per sbiancare ogni memoria
storica che vi ha preceduto, bambini OGM dell’era liberista
forse virtuali e telepilotati nel domani su carrozzelle cingolate
da sbarco, bambini istruiti da pedagogisti top gun alla velocità
fotonica senza scalo in stazioni intermedie dove attendere la
vecchia e sbuffante locomotiva umanistica, quel cavallo d’acciaio
che, al suo esordio, attraversava la pianura del Grande Paese
poco più di cent’anni fa impaurendo altri bambini, i bambini
rossi crocifissi sulle traversine della civiltà bulimica con
la complicità dei missionari in appoggio agli sterminatori bianchi,
cari bambini dall’encefalogramma piallato da Geppetto-Bill Gates,
noi siamo qui per raccontarvi la favola dell’orco cattivo. Povero
stormo di fanciulli incolpevoli e plasmabili sui saltim-banchi
di scuola dove la Storia, quella scritta dai vincitori, viene
opportunamente dissossata per porgervi solo il filetto borghese
ripulito d’ogni scoria sgradevole, quando e quali didatti vi
negheranno l’esistenza dell’Olocausto nei lager nazisti se già
più nessuno vi parla di un altro genocidio, quello del secolo
del melodramma etnico, quello degli indiani d’America? La cultura
della cancellazione vi ha irregimentato davanti a videogames,
playstation e altre alchimie elettroniche dove i cattivi non
sono più i vecchi indiani in pensione con archi e frecce ma
mostri stellari, alieni bavosi, demoni galattici.Ve li ricordate
gli indiani? No, non sapete nemmeno più chi erano e, soprattutto,
chi sono oggi i superstiti di quella etnia fiera e orgogliosa.
Li ricordiamo noi che oltre al libero andare dei beatnik nel
mondo, oltre le barricate di maggio, dobbiamo ascrivere a luogo
emblematico di conflitto formativo anche il cinema parrocchiale
di memoria preadolescente. Luogo di attentato alla nostra tenera
e acerba coscienza. Quel cinema che noi bambini frequentavamo
al sabato pomeriggio per vedere un film sugli indiani selvaggi
e sui nordisti salvatori, quei famigerati “arrivano i mostri”
che applaudivamo con patetica inconsapevolezza sfuggendo magari
alla palpata di una mano tremante tipo Jurassic Parkinson
del prete pedofilo. Una mistificazione storica criminale
che tendeva subdolamente a renderci tutti figli illegittimi
del generale Custer, abituandoci ad accettare i codici educativi
del colonialismo occidentale al fine di trasformarci in futuri
fedeli educatori del profitto.
Solamente più avanti, molto più avanti, leggendo il libro antidoto
“Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown, capimmo
che i veri “scalpati” eravamo stati noi. Una lettura che contribuì
fortemente all’implosione libertaria che ci spogliò di quella
placenta informativa spalmata addosso come un catechismo colloso
sull’innocenza dell’età.
Voi, cari bambini, non avete neanche l’esempio distorto al quale
contrapporre una sdegnosa ribellione o la scoperta tardiva di
una verità celata. I vecchi indiani, al massimo, possono apparirvi
come personaggi di pura fantasia, relegati in soffitta, sostituiti
da altri “cattivi”, o, peggio, mai esistiti. Eppure sono esistiti
ed esistono, ultimi tra gli ultimi nel sottoproletariato d’America.
Tra il 1860 e il 1880 gli uomini del potere governativo pianificarono
la “soluzione finale”, simile a un’altra “soluzione finale”,
quella contro gli ebrei, sessant’anni dopo, in Europa. Da noi
rimangono oggi i rom, sorta di indiani europei, in grave rischio
di genocidio culturale da chi li vuole “stanziali” anziché “migratori”
come da loro struttura esistenziale.
La programmazione dello sterminio dei nativi americani fu affidata
principalmente all’esercito che ebbe però nei coloni, affamati
di oro e delle terre sacre agli indiani, dei complici efferati.
Ancora una volta “la maggioranza sta come una malattia”(Smisurata
Preghiera, F. De André), sta lì sul trespolo ad avallare
le decisioni verticistiche e a sciacallare tra le rovine banchettando
sulle salme del Capitale. Soffermandomi un attimo su Fabrizio,
autore di quel bellissimo brano “Sand Creek” e appassionato
di storia indiana, mi ricordo come egli auspicasse la: frantumazione
delle comunità popolose in tante “microcomunità anarcotribali”
proprio come negli accampamenti dei nativi dove l’autorità e
la gerarchia erano ridotte al minimo nel rispetto prioritario
della volontà e del gesto individuali. Quel Fabrizio “etico”
che, invitato a un congresso indiano in Italia per cantare il
“Sand Creek” rispose: “Ma io mi vergogno, non ci vado, cosa
posso raccontare io della loro storia?”
Cari bambini, quello era un popolo libero che viveva nel rispetto
reverenziale della natura e dell’universalità cosmica. Credeva
che in ogni foglia, in ogni pietra e anche nel vento palpitasse
un’anima, l’anima di tutte le cose. Non uccidevano le bestie
se non lo stretto necessario per la sopravvivenza, non provocavano
come noi l’estinzione di intere specie. E sono stati massacrati:
donne, vecchi, bambini, guerrieri. E sono stati massacrati da
quei soldati che noi applaudivamo. Ricordare il Sand Creek è
ricordare solo una delle innumerevoli stragi in cui i militari,
con spade e coltelli, infilzavano gli infanti, asportavano le
vagine alle donne, tagliavano i testicoli agli uomini, scalpavano
tutti per rivendere ai coloni quei trofei da salotto.
Daltra parte, cerano tariffe precise per lo scalpo
di un bimbo, di una squaw, di un guerriero. Quella orribile
usanza dello scotennamento venne introdotta dagli spagnoli cattolici
al tempo dei conquistadores. Ma erano gli altri i selvaggi.
E i bianchi erano buoni, anche loro dopo i massacri offrivano
gli aiuti umanitari magari sotto forma di coperte per l'inverno,
magari intrise del virus del vaiolo per decimarli con sistemi
batteriologici. E che dire, sul piano della diplomazia truffaldina,
degli innumerevoli trattati tra Stati Uniti d'America e il popolo
rosso, sistematicamente traditi con una progressiva restrizione
delle terre fino alla deportazione in massa verso riserve paludose
e malsane dove gli indiani morirono a causa dell'ambiente scelto
dal Grande Padre di Washington? Proprio loro che con la natura
avevano stabilito un rapporto profondo di fede animista. Ecco
uno stralcio del discorso di Capo Giuseppe della tribù dei Nasi
Forati tenuto a Washington il 14 gennaio 1879. “Ho sentito parlare
molto, ma niente è stato fatto. Le buone parole non durano a
lungo se non portano qualcosa. Le parole non ripagano delle
morti. Non pagano il mio Paese, ora invaso dagli uomini bianchi.
Non proteggono la tomba di mio padre. Non pagano tutti i miei
cavalli e il bestiame. Le buone parole non mi daranno indietro
i miei bambini. Le buone parole non manterranno la promessa
del vostro Capo Guerriero, il Generale Miles. Le buone parole
non daranno buona salute alla mia gente e non la faranno smettere
di morire. Le buone parole non porteranno la mia gente in una
dimora dove possa vivere in pace e prendersi cura di se stessa.
Sono stanco di parole che non portano a niente. (...) Potete
aspettarvi che i fiumi scorrano all’indietro piuttosto che un
uomo nato libero sia contento di essere rinchiuso e privato
del diritto di andare dove gli pare. Se legate un cavallo ad
un palo, vi aspettate che ingrassi? Se relegate un Indiano in
un piccolo pezzo di terra, egli non sarà contento, non crescerà
né prospererà. Ho chiesto ad alcuni grandi capi dove avessero
preso l’autorità per dire a un Indiano dove deve stare, mentre
egli vede gli uomini bianchi andare dove piace loro. Non hanno
saputo rispondermi.”
Di straordinaria poesia e veggenza ecologica sono le parole
di un altro capo, Seattle, che nel 1854 si rivolse al presidente
Franklin Pierce in questi termini: Il mormorio dell’acqua
è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli,
spengono la nostra sete. I fiumi trasportano le nostre canoe
e alimentano i nostri figli. Se vi vendiamo la terra dovrete
ricordarvi e insegnare ai vostri bambini che i fiumi sono nostri
fratelli e vostri e che dovrete d’ora innanzi riservare ai fiumi
tutte le gentilezze che riservereste a ogni fratello. (...)
Ma se vi vendiamo la nostra terra, dovrete ricordare che l’aria
per noi è preziosa, che l’aria divide il suo spirito con tutta
la vita che sostiene. Il vento che diede al nostro avo il suo
primo respiro, riceve anche il suo ultimo sospiro. E se vi venderemo
la nostra terra dovete tenerlo separato e considerarlo come
un posto dove persino l’uomo bianco possa andare a sentire il
vento addolcito dai fiori di prateria. (...) Dovrete insegnare
ai vostri bambini che la terra sotto i loro piedi è la cenere
dei nostri avi. Affinché essi rispettino la terra dite ai vostri
bambini che la terra è ricca delle vite della nostra razza.
Insegnate ai vostri bambini ciò che noi abbiamo insegnato ai
nostri bambini: che la terra è nostra madre”.
Come non pensare all’odierno popolo di Seattle che cerca di
salvare il pianeta originandosi da questo seme poetico indiano?
Un altro poeta indiano di razza cheyenne attraversa la nostra
contemporaneità con eguale dolore e speranza: Lance Henson.
Lance Henson si configura come un indiano disperso e smarrito
in un tempo storico in cui non si riconosce perché slegato dalle
radici delle sue remote origini antropologiche e dalla spiritualità
tribale che fatica non poco a sopravvivere nell’identità individuale
e collettiva in antitesi con la gabbia materialistica e consumistica
che riveste il pianeta e di cui muoiono i suoi verdi pascoli.
Lo sguardo sull’America è quello di uno cheyenne che immagina
sotto i selciati delle autostrade e nelle discariche suburbane,
le ossa eroiche dei suoi antenati che lungo quelle pianure cavalcarono
contro gli invasori bianchi in una sorta di sacrificio resistenziale
di cui conoscevano benissimo il destino finale. Lance si muove
in quelle stesse pianure, tra spazi infiniti e infiniti silenzi,
in preda a una specie di “trance” lucida che gli restituisce,
attraverso visioni sciamaniche, frammenti di battaglie, cerimonie
sacre, episodi di fraternità intertribale.
Si muove tra i Mc Donald’s e le Montagne Sacre, tra le riserve
aride di Pine Ridge e le centrali nucleari, tra i senzacasa
e le case da gioco di Las Vegas. Incontra nei vicoli della miseria
fratelli alcolizzati, raccoglie ai piedi di un grattacielo il
testamento morale di un suicida come ultimo anatema contro la
filosofia del profitto transgenico in contrasto con la filosofia
della madre terra, bene insopprimibile da non spartire in lotti
privati. Nel suo viaggio perpetuo alla ricerca di un embrione
di speranza ridisegna il cerchio sacro delle tribù all’interno
del quale danzare la ghost-dance. Il suo livore è calmo ma non
rassegnato, la sua rabbia disperata ma vitale e tutte le sue
istanze rivendicative si moltiplicano nella eco dei canyon per
poi posarsi come lacrime ai bordi del Little Bighorn nella visione
finale di risorte figure ancestrali. Torna a percepire i movimenti
e i rumori della natura esiliandosi in territori selvaggi in
sintonia con quelle congiunzioni animiste che compongono la
sua topografia interiore. È un indiano di mezzo con la
memoria del passato e la desolante realtà del presente, un indiano
di transizione e forse atemporale, testimone furioso dell’oblio
mondiale nei confronti della sua gente anche da parte della
comunità intellettuale. Qualcuno disse: l’unico indiano buono
è quello morto. Forse un giorno saranno ancora loro, gli indiani,
che per dimostrare di essere “buoni” dovranno morire per affermare
il diritto di esistere in pieno sole. Non so se questi segnali
di fumo alzati dalla pagina bianca si dissolveranno nella sordità
del vento epocale o se le pittografie scritte (non disegnate)
di Lance Henson verranno mai lette in qualche scuola informatica
(non informativa) ma se la speranza è una staffetta stremata
sul fronte del sogno, che la favola dell’orco cattivo e dell’uomo
rosso sia tramandata ai figli del terzo millennio. Figli robotici,
forse pragmatici, certamente fottuti.
Mauro Macario
senza
titolo 1
piove
questa sera
sulle pianure aride di wounded knee
sugli hogan della grande montagna
sulle barricate di cornwal island
sulla terra rossa della tomba di geronimo in okIahoma
questa sera piove
sui resti bruciati delle case di oka
piove questa sera
nei sogni dei bambini in salvador e nicaragua
e san carlos
nei sogni delle madri in brasile e in cile
e a pine ridge e wind river
questa sera piove
la pioggia è antica
nel vento luttuoso dell'inverno c'è una preghiera
si vi wo ho oh shi win
si vi wo ho oh shi win
noi non saremo spazzati via
|
senza
titolo 2
un'altra
canzone per l'america
20 luglio 1985
guidando verso ovest sull'autostrada 76 dell'ohio
appena passata l'uscita per la kent state (1) .
inizia una pioggerella
dio ti maledica america
cos'hai fatto ai tuoi figli
il vento chiama i loro nomi
comunque tu lo respiri
1. Il 5 maggio 1970, durante una dimostrazione contro
la guerra del Vietnam, la guardia nazionale aprì il
fuocò sugli studenti della Kent State University, uccidendone
cinque.
|
giornata
di colombo 12 ottobre 1988
per jeanetta
si
va a est verso columbus ohio
le nuvole sono grigie e irrequiete come questa statale
americana
passiamo vicini ai campi di grano
e alle foglie accese dai colori dell'autunno
poi ci troviamo a un kentucky fried chicken
un camion mayflower sfreccia via
mi ricordo che nel vocabolario webster la parola
genoa sta proprio sopra genocidio
americani è un nome
per evitarlo noi indiani portiamo occhiali scuri
america è una foglia autunnale morta
caduta per terra
* una poesia di protesta in coincidenza con la giornata
internazionale di solidarietà con gli indiani americani
promosso dagli Indiani Yanonami del Brasile alle Nazioni
Unite di Ginevra in Svizzera
nell'agosto del 1988.
|
parlando
di blues alla sosta dei camion
tutti
i poeti sognano
i veterani si svegliano in un letto di sudore
il tatuaggio di una serpe trema sulla gamba di una
ballerina in topless addorrnentata
e ti svegli nello specchio della vita di qualcun'altro
i quadri di van gogh si fanno umidi di lacrime
e la grigia follia di mezzanotte
e gli adorabili paesaggi di rembrandt si sciolgono
nel palmo della tua mano
nella stanza accanto un sassofono piange
mentre un gatto addormentato tira zampate in aria
la luce blu della stufa a gas sibila,
tu entri nella stanza con il tuo profumo parigino
dietro di te la luna piena è una roulette
che sta insieme grazie a un vino cattivo
e a sogni sottili
un vecchio cane in strada sussulta nell'aria itaIiana
un ragazzino spruzza le parole
pioggia mortale
sulle pareti della cattedrale
io penso a cavallo pazzo e a toro seduto
in qualche sosta notturna per camion in nebraska
sorridono travestiti
parlando dell'america che muore e
del suo sogno che scompare
|
senza
titolo 3
altro che rose in fiore
un singolo filo spinato
legato con nastri rossi
circonda il terreno del b i a (1)
a concho okIahoma
uccelli rossi e rondini volano su
aree proibite
nidificano sugli alberi imprigionati
l'eco di bambini cheyenne e arapaho che
cantano nelle sale silenziose dove hanno dormito
già detto
l'uomo bianco ci fece molte promesse
ne mantenne solo una
disse che ci avrebbe preso la terra
e lo fece
1.
Bureau of Indian Affairs: ufficio degli affari indiani
|
versi
inziati al lago mahopac
pioggia
tra le mani del che'
il lamento del cielo colma i suoi occhi vacui
sto seduto al lago turgido di sole invernale
i piccoli boccioli di un cespuglio d' acacia piangono
al freddo
una tartaruga striscia via appena fuori dalla finestra
nomi di una lapide per il nam* vergati sulla schiena
è capodanno
i fiori sul tavolo stanno nei vasi fatti
di ricordo
gli alberi cupi si stagliano contro un crepsucolo al
napalm
il treno ferma a poughkeepsie
un nido vuoto si riempie di precoce luce stellare
un bimbo in fondo al corridoio si avvolge nel sogno
una foschia radente si raccoglie sull 'hudson
tre giorni dopo wounded knee 1890 i corpi
delle donne e dei bambini lakota gelati e abbandonati
vengono portati al forte
nel luogo dove fu assassinato cavallo pazzo
un legno sul cancello della postazione dice
pace in terra agli uomini di buona volontà
*abbreviazione di Vietnam
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Le poesie di Lance Henson sono tratte dai seguenti volumi
pubblicati da Selene edizioni: Tra il buio e la luce
(1993) e Un moto di improvvisa solitudine (1998). Di
Soconas Incomindios è invece il volume Le orme del tasso.
Gli stralci del discorso di Capo Joseph sono tratti da Il
discorso di Capo Joseph, edizioni Il punto d’incontro.
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