Lanarchico in
bici
Il romanzo, Il piccolo diavolo nero è l’ultima fatica
dello scrittore Gianfranco Manfredi: e dire fatica è veramente
un termine appropriato per questo libro, guardando lo sforzo
che l’autore ha dovuto compiere nella ricerca, per poter descrivere
in modo convincente la Milano della fine secolo.
Il racconto si delinea e si sviluppa in quegli anni che sono
stati di cambiamento epocale, anni che vanno dal 1890 al 1900,
le cannonate di Bava Beccaris sparate sui milanesi, scesi in
piazza per protestare contro l’aumento globale del grano, sembrano
ora come il suggello di un’epoca.
Il soggetto che dovrebbe dare l’impronta al romanzo e l’irrompente
bicicletta e il piccolo diavolo nero, che ne da il titolo, è
il corridore milanese Romolo Buni, che agli albori di quello
sport vinceva ogni corsa, e nell’euforia di quegli anni sfidava
anche i cavalli, suo grande antagonista fù un falso Bufalo Bill.
Ma il velocipede, come si chiamava allora, nella struttura e
nello svolgimento degli avvenimenti narrati, è quasi un espediente
per affrontare con le pedalate della storia e della fantasia,
gli usi, i costumi, il linguaggio, la politica e gli uomini
di quel tempo.
I protagonisti della nostra storia, prenderanno coscienza del
proprio io, matureranno e sceglieranno le loro strade anche
per merito di quelle due ruote, che mostreranno loro una realtà
che non avevano mai visto, voluto o potuto vedere.
Quello che emerge da queste pagine, quello che fa pensare e
discutere insinuando il dubbio, è il confronto che emerge tra
il progresso che si delineava allora ed il progresso e il globalismo
in cui ci troviamo avviluppati oggi.
Il mezzo meccanico a due ruote, guardato in quegli anni con
paura e sospetto, da conservatori e benpensanti, come qualcosa
di diabolico, acquista oggi una dimensione umana e romantica,
sia nella sua costruzione sui banchi nelle botteghe artigianali,
che nella sua dinamica ecologica, raffrontandolo all’alienante
catena di montaggio delle odierne officine.
In quegli anni, nel contempo, s’inneggiava e si guardava al
progresso indiscriminato, come ad una divinità benevola, che
avrebbe per sempre messo fine alla miseria, alla disuguaglianza
e all’ignoranza, una panacea che avrebbe cancellato tutti i
mali del mondo.
Il famoso balletto Excelsior, creato appositamente per la fiera
universale di Parigi del 1900, inneggiante indiscriminatamente
ad ogni progresso umano, dalla luce elettrica al traforo delle
Alpi, descriveva magistralmente, anche se in modo succinto,
le aspirazioni e gli aneliti che pervadevano gli uomini di quella
fine secolo.
A distanza di cento anni, dagli avvenimenti magistralmente narrati
nel libro di Manfredi, abbiamo dovuto ridimensionare amaramente
e notevolmente le aspirazioni di quegli anni.
Il progresso non si sviluppò in funzione del bene e della felicità
degli uomini, ma solo in funzione del profitto: dai nuovi farmaci
all’agricoltura non si pedalò sulle ali dell’utopia del divenire
umano, ma solo per il raggiungimento e il mantenimento di sempre
più potere e ricchezza.
Il piccolo diavolo nero, con il suo inscindibile nero vessillo,
oggi, non trova più spazio nelle anonime e mortifere autostrade.
Pedala ancora e sempre, come i nostri protagonisti di quel tempo,
verso un diverso divenire, a volte anche solo sulle ali di una
parola o di una canzone che sanno ancora dire NO.
Pietro Valpreda
La (mia) lezione
del Diana
Sta per uscire, per le edizioni Samizdat, la
ristampa del volumone di Vincenzo Mantovani Mazurka Blu,
edito nel 1978 da Rusconi: uno studio ed un affresco dell’Italia
degli anni ’20, con al centro l’attentato al Teatro Diana. La
riedizione è preceduta da uno scritto di Paolo Finzi, che qui
proponiamo.
Quando Vincenzo Mantovani iniziò a lavorare intorno al progetto
ed ai primi materiali che, vari anni dopo, si sarebbero concretizzati
in Mazurka Blu, prese contatto con gli anarchici milanesi.
Ci incontrammo un dopocena nei primissimi anni 70
nella redazione della rivista anarchica “A”: Vincenzo
mi apparve subito come una persona gentile, discreta e molto
efficiente. Su di un quadernino aveva stilato, in piccola calligrafia,
decine di domande di ordine generale (sul contesto storico,
sul ruolo del movimento anarchico, ecc.) e soprattutto specifiche
(avevamo sentito nominare il tal dei tali? E la compagna di
Malatesta? Era ancora vivo quell’anarchico che nel 20
faceva l’editore? e via discorrendo).
Noi eravamo sanamente prevenuti. L’attentato al Teatro Diana
era sì avvenuto mezzo secolo prima, ma - per svariate ragioni
- era ancora di bruciante attualità. Basti ricordare che all’indomani
dell’attentato di piazza Fontana (12 dicembre 1969), nell’immediato
indirizzarsi verso gli anarchici non solo delle indagini poliziesco-giudiziarie
ma anche del battage dei mass-media, subito era stata ritirata
fuori e con quanto clamore! la strage del Diana.
Nelle prime giornate successive a quella che sarebbe poi passata
alla storia come “la strage di stato” per antonomasia, più che
le rivelazioni sensazionali su Pietro Valpreda (“la belva che
ci ha fatto piangere” titolò un giornale) fu proprio il parallelo
con il Diana, dato in pasto all’opinione pubblica, a incidere
negativamente sull’immagine del movimento anarchico.
Se già noi anarchici eravamo stati capaci di seminare la morte
tra gli innocenti, e poi proprio a Milano, e poi proprio in
un luogo di pubblica affluenza (allora un teatro, oggi una banca),
allora...
Noi di “A” che eravamo anche militanti del Circolo anarchico
“Ponte della Ghisolfa”, quello cui aveva appartenuto anche Giuseppe
Pinelli non potevamo che essere preoccupati dal fatto
che una persona a noi finora sconosciuta, estranea al nostro
movimento, mettesse le mani in quella vicenda che certo non
conoscevamo nei minimi dettagli, ma che assomigliava tanto ad
uno “scheletro nell’armadio”. Volere o volare, gli autori dell’attentato
al Diana erano anarchici e l’attentato si era trasformato (contro
la volontà degli autori, certo: ma é poi davvero decisivo?)
in una strage. Il Diana, in poche parole, era la conferma storica
più eclatante che l’equazione “anarchia = bombe” non era solo
il parto della vile stampa borghese...
Non avrebbe potuto il nostro cordiale interlocutore occuparsi
d’altro? Tra le tante pagine sconosciute, e tutte più belle,
della storia degli anarchici italiani, perché scegliere proprio
quella che, nel pieno della campagna di contro-informazione
sulla strage di Stato, poteva ritorcersi contro di noi? Questo
il senso inespresso delle nostre obiezioni di
fondo al progetto di Vincenzo Mantovani. Gli altri compagni,
comunque scarsamente interessati alla ricerca storiografica
perché in altre vicende impegnati, augurarono buon lavoro a
Vincenzo e stop.
Io invece avevo cominciato in quei mesi a lavorare
alla tesi di laurea: una ricerca che anni dopo sarebbe
stata pubblicata (La nota persona. Errico Malatesta in Italia,
dicembre 1919 - luglio 1920, Edizioni La Fiaccola, Ragusa
1990) sul rientro in Italia di Errico Malatesta nel dicembre
1919 e sui successivi mesi di impegno sociale fino al congresso
dell’Unione Anarchica Italiana (luglio 1920). Prima della strage
del Diana, certo. Ma le mie letture, lo spoglio della stampa
anarchica dell’epoca, le mie conoscenze in generale potevano
incrociarsi utilmente con quelle di Vincenzo.
Nacque così una collaborazione stretta, che ci vide per uno
o due anni incontrarci frequentemente, discutere di aspetti
generali, scambiarci le fotocopie fatte negli archivi di stato,
ecc. Io ero poco più che un ragazzo, Mantovani aveva quasi il
doppio dei miei anni, teneva famiglia, due figli. Io ero assorbito,
con l’intensità che molti vissero in quell’epoca, nella militanza
politica, lui era certamente un progressista, con un occhio
di simpatia per gli anarchici (ed il suo libro ne fa ampiamente
fede): ma eravamo molto diversi.
Ricordo che i miei genitori, preoccupati per l’intensità della
mia partecipazione alle iniziative pubbliche anarchiche, vedevano
con occhio particolarmente benevolo le ore che trascorrevo in
casa con Vincenzo ferrarese come mia madre, che nel capoluogo
emiliano era stata attiva già negli anni 30 nel Soccorso
Rosso e che lì venne arrestata dalle autorità fasciste. L’impegno
storiografico era visto da loro come un’alternativa tranquilla
e non rischiosa alla militanza.
Nel 1975 mi laureai: Vincenzo venne alla discussione della tesi
che, nelle sue parti più originali (penso alla ricostruzione
dei rapporti tra Errico Malatesta, Giuseppe Giulietti e Gabriele
D’Annunzio, e più in generale alla “congiura anarco-fiumana”)
era ampiamente debitrice nei confronti delle ricerche di Vincenzo.
Qualche anno dopo, infine, uscì dopo varie vicende legate
soprattutto alla ricerca di un editore disposto a pubblicare
integralmente il massiccio libro di Mantovani Mazurka
Blu, che personalmente ritengo una delle opere più interessanti
ed oneste sulla storia del movimento anarchico in Italia.
Grandi sono i meriti di Mantovani: primo fra tutti quello di
aver saputo descrivere bene, con chiarezza di intenti e precisione
terminologica, un’epoca lontana della nostra storia, sempre
inquadrando gli avvenimenti specifici di cui si occupava nel
più generale quadro di quegli anni intricati e tormentati. Non
c’è traccia di sensazionalismo nelle sue pagine, che
pure affrontano episodi e personaggi che si sarebbero prestati
ad un simile approccio.
Come il compianto Pier Carlo Masini, che non aveva alcun titolo
accademico “ufficiale” (anzi, era del tutto estraneo all’Università,
e da molti cattedratici per questo snobbato), anche Mantovani
era un outsider.
Lo scrupolo meticoloso che ha messo nella sua ricerca non ha
cancellato quella verve che anima le pagine di Mazurka Blu
e ne rende così godibile la lettura.
Reso il dovuto omaggio all’amico Mantovani, resta il Diana.
Il suo libro, certo, aiuta molto a comprendere il clima nel
quale maturò quel fatto. Ma non dice, non può dire, l’ultima
parola, la verità, tutta la verità. Credo che non la si saprà
mai.
Resta la coscienza di quanto quell’attentato come altri
attentati compiuti da anarchici o sedicenti tali oltre
a spargere sangue, morte, lutti, abbia contribuito al rafforzamento
di un’immagine negativa dell’anarchismo. Troppe volte, nella
storia del movimento anarchico, i gesti più o meno sconsiderati
di alcuni pochissimi hanno fatto ricadere le loro
conseguenze sull’intero movimento.
Questo è stato a mio avviso il Diana. In
un periodo di forte riflusso della conflittualità sociale e
di parallela crescita del movimento fascista, quella bomba finì
con il favorire lo sradicamento sociale di un movimento, come
quello anarchico, che pure aveva ancora una base di massa
anticipando di mesi, forse di qualche anno, la sorte che sarebbe
toccata anche agli altri movimenti antifascisti. Le conseguenze
del Diana insieme ad altri, anche più importanti, fattori
si sarebbero fatte sentire anche in esilio ed al confino,
fino a condizionare pesantemente la ripresa anarchica nel secondo
dopoguerra.
Come il Diana, numerosi altri episodi diversi ma assimilabili
hanno caratterizzato la storia dell’anarchismo a livello internazionale,
e non solo a fine 800.
La lezione che personalmente trassi già allora, in quelle lunghe
ore trascorse a lavorare con Mantovani, e che poi ho sviluppato
nei tre decenni che ci separano da allora, mi ha portato ad
aborrire sempre più la violenza terroristica (ché di questo
si tratta), le bombe, gli attentati, la mistica della vendetta,
la mitologia della lotta dura, il “colpo su colpo” e quant’altro.
Credo che il nostro movimento abbia già dato e pagato
anche troppo.
Esattamente come scrisse pubblicamente uno degli autori dell’attentato
del Diana, Giuseppe Mariani il caro Peppino che conobbi
e frequentai negli ultimi anni della sua vita , all’indomani
della propria scarcerazione, dopo aver trascorso un quarto di
secolo in carcere condannato all’ergastolo e averne scritto
un libro che meriterebbe anch’esso di venire ripubblicato. Quel
libro (edito a Torino nel 1953 dalle Arti Grafiche Fratelli
Garino) si intitolava Memorie di un ex-terrorista. “Ex”,
appunto. E non a caso.
Paolo Finzi
Passeggiate:
in morte di G.D.
“La formula per rovesciare il mondo non l’abbiamo
trovata nei libri, ma girando”.
Passeggiava a lungo, a volte per tutta la notte, da solo o in
compagnia, cercando di tracciare nuove vie attraverso Parigi,
come se fosse cosa facile, di vederla con occhi nuovi. Questi
giri notturni senza fine e senza meta li chiamava a volte esercizi
di psicogeografia, che definiva come “studio degli effetti esatti
dell’ambiente geografico che agiscono direttamente sul comportamento
emotivo degli individui”.
Parigi che amava in modo assoluto stava cambiando ai ritmi della
modernizzazione capitalistica.
Le città che erano state luoghi di scambio, civiltà e di libertà
si mercantilizzavano e producevano un progressivo isolamento
degli individui; le strade luoghi di vita, ridotte a luoghi
del commercio, dello shopping, a vetrine di merci.
Riprendendo Marx, oltre Marx, nella sua critica al feticismo
della merce, egli affermava che il capitalismo nella sua forma
contemporanea si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli:
ossia di rappresentazioni che si sono ormai svincolate da ogni
rapporto referenziale alla realtà. “Tutto ciò che era direttamente
vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. Lo stato
spettacolare e i suoi guardiani, i giornalisti di stato, producono
gli eventi in forma spettacolare e trasformano gli esseri umani
in spettatori che partecipano tutti al gran varietà costruito
da altri. Nella fase dello “spettacolo” la comunicazione umana
divenuta una merce e lo spettacolo è l’espropriazione e l’alienazione
della socialità umana. La comunicazione spettacolare, al contrario
delle apparenze, isola gli uomini. “Considerato secondo i suoi
propri termini, lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza
e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come apparenza”.
Svelare questo stato di cose richiede una critica della vita
quotidiana.
Riprendere la strada, andare alla deriva (dérive), incontrando
i derelitti, gli emarginati, gli irregolari nelle bettole della
città e bevendo smodatamente, fino al mattino a volte fino all’incoscienza.
Deriva: una tecnica di spaesamento attraverso il passaggio improvviso
attraverso ambienti diversi che considerava la base di quella
rivoluzione della vita quotidiana che si sforzava di praticare
oltre che teorizzare, la ricerca sperimentale di un nuovo modo
di vivere.
Costruire delle situazioni, ossia momenti di vita concretamente
e deliberatamente costruiti per mezzo dell’organizzazione collettiva
di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti. Situazioni
irripetibili, costruite nella forma di un’opera d’arte totale
che dà forma all’ambiente, concatena performance e gesti assolutamente
gratuiti, inventa nuove passioni per affermare nuove forme di
socialità e stravolge la comunicazione non solo per scandalizzare,
poiché lo scandalo ha breve durata, ma per produrre forme nuove
di pensiero.
Confuso con un epigono di dadaisti e surrealisti, ha cercato
di distanziarsene ridicolizzandoli. Preferiva essere ricordato
come un bandito che un artista. Accusato di ogni specie di crimini,
plagio, terrorismo, e controllato quotidianamente a vista dalla
polizia, si arrivò ad accusarlo di aver ucciso il suo amico
ed editore ricchissimo, Liebermann, freddato con tre colpi di
pistola misteriosamente. Diffamato, odiato e adorato come un
guru, è diventato persino il personaggio di un romanzo poliziesco,
oltre che di numerose biografie acide e malevole. Sapeva di
meritare tanto odio e ne era orgoglioso: era per lui segno che
la società cercava di proteggersene. Non era certamente una
persona facile da frequentare, anche perché si dava arie da
aristocratico. Disprezzava al massimo grado giornalisti e cosiddetti
intellettuali, ma anche il popolo dei servitori che si accontentano
delle briciole avanzate, conquistate duramente con il lavoro
di una vita.
“Somigliano molto a degli schiavi perché sono parcheggiati in
massa e in spazi ridottissimi in fabbricati lugubri e malsani;
malnutriti con un’alimentazione inquinata e senza gusto; mal
curati nelle loro malattie che sempre si rinnovano; continuamente
e macchinalmente sorvegliati; tenuti nell’analfabetismo modernizzato
e nelle superstizioni spettacolari che corrispondono agli interessi
dei loro padroni.”
Così sprezzante e sarcastico che pochi dei suoi amici , o cosiddetti
tali, hanno resistito a lungo. Alla fine il suo gruppo attraverso
innumerevoli e cruente espulsioni, si era ridotto a due persone,
lui stesso e un altro.
Forse è improprio nel suo caso parlare di settarismo: era impossibile
conciliare un individualismo così estremo con un qualsiasi compromesso
che il gruppo necessariamente richiede.
Si occupò di arte, in particolare del cinema, per dimostrare
che era finita, che le arti andavano superate in direzione di
una rivoluzione della vita quotidiana. Portare a compimento
la dissoluzione delle arti come gesto estremo e come nuovo inizio.
Con l’aiuto del suo amico editore Liebermann per un certo periodo
affittò una sala dove i suoi film (e solo quelli) venivano proiettati
tutti i giorni, anche quando non c’era nessuno spettatore. E
doveva succedere spesso, dato che le sue pellicole erano a dir
poco irritanti; ad esempio Hurlements en faveur de Sade
del 1952 è un film in bianco e nero della durata di 80 minuti,
di cui 50 completamente nero e il resto bianco, con la colonna
sonora di rumori e citazioni. “Il mondo è già stato filmato,
diceva in uno dei suoi film; si tratta ora di trasformarlo”.
Del resto la pratica del plagio, della citazione del détournement
erano tra le sue tattiche preferite. “I miei libri sono pieni
di trappole, di parole e di frasi che, deliberatamente, hanno
molteplici significati. Non per trarre in inganno il lettore,
ma perché complessa e con diverse facce è l’esperienza di chi
li ha scritti”. Il suo libro più celebre diventato ormai un
“classico”, come si dice, teorico, è intessuto di citazioni
segrete, rovesciamenti e allusioni: al Capitale di Marx,
alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, Mc Luhan,
quasi a spingere il lettore a un gioco enigmistico. Il libro
del “dottore in niente”, come amava definirsi, La società
dello spettacolo, era diventato un cult per gli intellettuali
e questo sollevava critiche, veleni, incomprensioni. Visse gli
ultimi anni in quasi isolamento, a rivedere e a preparare nuove
edizioni delle sue opere, finché temette di essere diventato
un sopravvissuto e pose fine alla sua vita con un colpo di fucile
in una casa in Alvernia, dopo anni in cui si era ritirato da
Parigi.
Molto del suo spirito sopravvive nei movimenti di guerriglia
comunicativa, descritti in un libro recente dal titolo Comunicazione-guerriglia.
Esplicitamente gli autori multipli del libro riconoscono la
paternità di alcune idee situazioniste, che stimolarono la promozione
della guerriglia nei mass-media. Alla psicogeografia si ispirano
per esempio quando scrivono che “per compiere azioni di comunicazione-guerriglia
è necessario analizzare l’effetto di potere, simbolico e reale,
delle strutture parziali, poiché la riuscita delle azioni dipende
fortemente dai luoghi in cui si svolgono. Non si tratta soltanto
di propagare concetti attraverso interventi nello spazio pubblico:
è altrettanto importante cambiare lo spazio in cui si svolge
l’azione e riempirlo con nuove concatenazioni di senso”. Oppure
alla pratica del fake, il falso, che è una conseguenza
della sua teoria del falso indiscutibile. E nell’attuale movimento
antiglobale possiamo toccare con mano quasi quotidianamente
uno stile di discorso politico e azione simbolica molto simile
a quello della comunicazione-guerriglia.
Ecco perché possiamo dire che Guy Débord è oggi più vivo che
mai.
Filippo
Trasatti
Costruito attraverso:
Felice Piemontese, Dottore in niente, Marsilio, Venezia
2001.
AA.VV., Comunicazione-guerriglia, Derive Approdi, Milano
2001
AA.VV., I situazionisti, Manifestolibri, Roma 1991.
Guy Débord, Commentari sulla società dello spettacolo,
SugarCo, Milano 1988.
Lanima
oscura dellAmerica
Nazione guerriera. Aspetti del militarismo
nella cultura statunitense (Colonnese editore, via San Pietro
a Majella 7, Napoli, tel. 081.293900, info@colonnese.it,
pp. 160, L. 18.000. euro 9.30). Mai davvero sopito, il dibattito
intorno all’“imperialismo americano” è tornato a rinfocolarsi
all’indomani dell’11 settembre. Se, come nota l’autore nell’Introduzione,
“l’antiamericanismo in Italia ultimamente sembra essere diventato
un peccato” (p.7), l’interesse di questo libro, scritto e pubblicato
prima degli avvenimenti di questi ultimi mesi, è quello di affrontare
questo tema dal punto di vista peculiare di un patriottismo
di ispirazione pacifista degli americani “frustrati perché non
possono andare orgogliosi della propria patria”, macchiata da
un “imperante militarismo” (p. 1). Richiamandosi a una tradizione
di pacifismo antimilitarista che va da Henry Thoreau a Mark
Twain, fino a Noam Chomsky, Gordon Poole (dal 1975 docente all’Istituto
Universitario Orientale di Napoli) ripercorre la storia statunitense
leggendola come una storia di conflitti, interni ed esterni.
Muovendo da un’analisi di documenti che affermano la necessità
di difendere i propri “interessi vitali” da minacce e attacchi
“potenziali e reali e non necessariamente militari” per mezzo
di politiche estremamente aggressive (bombardamenti a tappeto,
armi atomiche e chimiche), l’autore si interroga su come e quando
concetti come guerra di annientamento o popolo nemico
siano entrati a far parte della cultura militare statunitense.
Poole individua nella Guerra civile il momento di svolta in
cui i due concetti divengono operanti, ovvero il momento in
cui la guerra, da conflitto di posizione con relativamente pochi
morti e poca distruzione, si fa più feroce. La fiamma delle
passioni politiche che caratterizza il conflitto, l’introduzione
di nuove armi, l’esempio napoleonico importato dall’Europa,
sono i diversi fattori invocati per spiegare una delle prime
carneficine mosse da una politica di annientamento del nemico.
Nemico che non è più inteso solo come l’esercito, ma anche come
il popolo che lo sostiene: è questa dunque la prima “guerra
totale”. Dalla guerra di Secessione l’America esce profondamente
diversa, non solo politicamente ed economicamente (aspetti già
molto studiati), ma – quel che è qui più interessante
anche militarmente. Si afferma infatti una nuova mentalità nei
confronti della guerra, che rende concepibili, accettabili oltre
che tecnicamente attuabili, distruzioni di proporzioni inaudite
e sofferenze volutamente inflitte alle popolazioni civili.
Una teoria militare che si andrà replicando a partire dalla
guerra di sterminio contro i Nativi americani e che, “costantemente
aggiornata e ridefinita secondo i progressi tecnologici e strategici
sviluppatasi durante gli anni e le guerre del ventesimo secolo”
(p. 23), giungendo ad informare i War Plans della NATO.
Pensando al solo conflitto nel Golfo persico, “gli orrori dell’ormai
decennale embargo non sono che la conferma di come sia operante
il concetto di popolo nemico” (p. 28).
Il libro analizza come l’evoluzione della cultura bellica sia
andata intrecciandosi con l’evoluzione di una certa cultura
nazionale, rispecchiata e spesso amplificata dagli intellettuali
americani. L’idea alla base di concetti come quello ottocentesco
di “manifest destiny” (l’America come investita di un
destino imperiale), già portatore di istanze imperialistiche,
verrà ripresa e rilanciata lungo tutto il XX secolo, con connotazioni
diverse: da un fondamento esplicitamente razziale (gli americani
come “popolo eletto”) all’enfasi strumentale sulla difesa di
valori di libertà e di democrazia che, “definiti dagli americani
stessi, vanno imposti forzosamente ma selettivamente al tiranno
di turno, giustificando interventi militari per il loro ripristino”
(p. 53). Pool mette peraltro in luce come un latente sostrato
razzista sia ancor oggi operante nella politica estera americana
(“L’indottrinamento delle truppe spesso prevede di inculcare
un disprezzo nei confronti dei popoli implicitamente considerati
inferiori”), cui contribuiscono anche i mass media demonizzando
il nemico di turno, da Saddam Hussein a Milosevic, fino a Osama
Bin Laden oggi.
E, in ogni caso, se l’idea del popolo eletto da Dio è forse
oggi politicamente insostenibile, “quel che rimane vivo e palesemente
operante (…) è l’idea centrale che gli Stati Uniti d’America
hanno il diritto (basato sul potere) di dominare il mondo intero
per imporre militarmente le istituzioni di un liberismo politico
ed economico – un pensiero unico oggi incorporato in istituzioni
sovranazionali (...) sulle quali gli Stati Uniti esercitano
un’influenza predominante” (p. 55).
Un capitolo analizza infine la retorica di alcuni tra i teorici
della filosofia militarista americana contemporanea. Ponendo
l’accento sulla centralità nelle “guerre del futuro” del controllo
delle tecnologie più sofisticate e dei mezzi di informazione
e comunicazione, questi “futurologi” dimostrano ancora una volta
di fondarsi su una pregiudiziale ideologica, finendo per giustificare
in funzione propagandistica il “nuovo” militarismo.
Il motivo di questo libro, peraltro, è lungi dal rappresentare
un puro esercizio intellettuale o accademico: “meglio cercare
i motivi economici, politici e tecnici dei grandi fenomeni sociali,
anche di quelli bellici, per poter individuare le possibili
leve per una trasformazione della società in senso pacifista”
(p. 48), è la convinzione di Poole, egli stesso in prima persona
un militante pacifista.
Anna
Spadolini
Le ali delle
donne hanno radici nel mondo
Chi nutre la disposizione a imparare dalle differenze
culturali; chi, dalla paura di non ritrovarsi in esse, accede
alla grazia di accogliere quanto l’altro-altro ha di più perturbante
per la propria fragile identità; e chi, non da ultimo, gode
di una sufficiente libertà da far sì che il mistero della vita
accresca la capacità di ascolto, trova nel libro di Fatima Mernissi,
L’harem e l’occidente (Giunti, Firenze, 2000, pp.192,
L. 28.000), quello che fa per sé.
Come era solita dirle Jasmina, la nonna illetterata vissuta
in un harem, sapiente cultrice delle illuminazioni (lawami)
cui giungevano gli errabondi sufi (i mistici dell’Islam),
e sagace divulgatrice delle tradizioni orali di Mille e una
notte, “viaggiare è il modo migliore per conoscere e accrescere
la tua forza”. Ed un libro come L’harem e l’occidente
porta la cifra di un tale insegnamento.
Con leggerezza e passione, con umorismo e intelligenza, l’autrice
nata a Fez, borgo medievale del Marocco, e docente all’Università
di Rabat conduce chi la legge ad un raffronto-viaggio
davvero illuminante. Mosso più da enigmi che da soluzioni, il
viaggio tocca le rappresentazioni sull’harem presenti
reali e immaginarie nelle culture maschili occidentale
cristiana e orientale musulmana, dove si esprimono le rispettive
e malcelate paure erotiche nei confronti dell’altro sesso.
Negli agili e repentini passaggi testuali che articolano il
racconto, la tensione dell’autrice è diretta, a partire dai
propri sconcerti, a comprendere le ragioni dell’altro.
Una sorta di intelligenza d’amore la guida. Comprendere, per
lei, significa né sacrificarsi a ciò che l’altro sostiene,
accettando, per esempio, lo stile di vita che da quelle ragioni
emerge; né omologarlo al proprio convincimento. Comprendere
evoca, molto semplicemente e meno doverosamente, riconoscere
la diversità, la peculiare irriducibilità che ogni esistenza
pone. E riconoscere in tale alterità almeno una piccola
parte del ragionamento che la anima. Sembra questa strana
comprensione sostenere qualcosa di banale e tuttavia
avvicinarsi a qualcosa di impalpabile da non riuscire ad aderirvi.
In verità, la comprensione umana edifica su un capire per accordo,
riducendo sovente ai propri schemi mentali l’incomprensibile
dell’altro. Il che, in altre parole, conferma la propria
identità personale e culturale, entrambi tanto più ottuse quanto
meno aperte sono al riconoscimento della differenza.
Ora, un così comprendere e un così capire, che muovono l’intelligenza
d’amore, inducono, in certa misura, pratiche politiche,
azioni morali e relazioni umane di tutt’altro genere da quelle
che si appellano alla ‘giusta guerra’, alla ‘solidarietà’ in
nome di un concetto unilaterale di ‘libertà’, allo ‘spirito
umanitario’, alla ‘colpa’ e alla ‘condanna’.
Le operazioni ‘umanitarie’, organizzate su vasta scala in termini
di ‘volontariato’ dalle agenzie che prolificano all’ombra delle
guerre, non sono accorte della tautologia che si annidia al
loro interno. Ciò non di meno sono abbagliate dalle buone intenzioni
che le rivestono. Le buone intenzioni traducono in sé idee e
valori che, senza ombra di dubbio, tendono a sostenere la pace
più agognata che realizzata, in verità. L’ideologia della
pace appare, però, mutilata sulla base di interessi per una
esportazione, imposta ad un’importazione coatta, dello stile
di vita occidentale come modello universale. E altrettanto inconsapevolmente
le buone intenzioni marciano in un circolo vizioso.
Estendendo o tentando di estendere all’intero
pianeta monocultura mentale e alimentare, le buone intenzioni
non si avvedono di ridurre alla fame numerose popolazioni, le
cui risorse si basano in sostanza sul quadro di
un’economia locale di sussistenza. Rese più indigenti di quanto
le buone intenzioni riescano poi a sollevarle dalla fame cui
l’azione politica le ha ridotte, numerose popolazioni si dibattono
in balia di questo ordine omologante. In fin dei conti, il modello
di sviluppo dell’economia e della produzione occidentale si
rivela dati alla mano insostenibile.
Hans Sponek e Denis Halliday, coordinatori dell’intervento umanitario
delle Nazioni unite per l’Iraq dal 98 al 2000, hanno dimissionato
dal loro incarico leggo in una nota di giornale (Il
Manifesto, 7 dicembre 2001) “per non essere complici
del genocidio da embargo della popolazione civile irachena”.
Gesto da interrogare, certo; ma di per sé già abbastanza eloquente.
Scena non meno eclatante è quella allestita da un’azione militarumanitaria.
Dal cielo sopra Kabul, le bombe della libertà duratura sono
cadute sulla terra degli abitati unitamente a praticissime confezioni
di riso sufficiente a garantire la sopravvivenza di un essere
umano per un paio di giorni.
Evento, come dire, ossimorico bombe e cibo così
firmato: “dono del popolo americano al popolo afgano”.
Viene un po’ da domandarsi: che reazioni susciterebbe, negli
animi occidentali, un ipotetico mai apparso in realtà
scenario dove donne musulmane emancipate organizzano
‘premurose’ associazioni per mettere al bando le operazioni
di chirurgia estetica sui corpi delle ‘sorelle’ occidentali?;
o ancora che cosa sortirebbe, nel ‘mondo sviluppato’, una mobilitazione
delle donne ‘in via di sviluppo’, affinché quegli stessi corpi
si liberino dalla soggezione di essere oggetto di normazione,
in ordine alla loro fertilità, alla maternità, alla procreazione
che, in vero, è sempre più obbligatoriamente assistita dalla
pretesa del desiderio maschile di impossessarsene e farne oggetto
di scienza? Di fatto, il ricco e potente occidente ha una conoscenza
non molto distesa della libertà femminile fuori dal sistema
dei diritti.
Di che genere, allora si chiederà, sono le alternative politiche
a tutto ciò? Quelle un po’ più nascoste e profonde, incisive
che ognuna e ognuno sa attuare a partire da sé, ponendosi
in gioco e in pensiero su ciò che (ci) capita.
Per mia parte, ho da imparare non poco dalla politica del passo
indietro. Sto imparando che c’è virtù nella politica del
niente fare sulla base del già detto e del già
fatto, che insistono sul dominio mortifero verso ogni differenza.
Pratiche, quelle del ‘passo indietro’, di ascolto, di riflessione
su ciò che non (ci) assomiglia; pratiche di raffinata qualità
sono da inventare sull’altro che sta dentro ciascuna
e ciascuno; pratiche in parole innamoranti più di quanto non
se ne trovino nel frenetico attivismo senza gli occhi del cuore
intelligente. La filosofa francese Simone Weil si è così espressa
in proposito: non l’amore del prossimo, ma quello per lo sconosciuto
è l’amore di dio. Sembra proprio che il pensiero-azione della
cultura occidentale sia incapace a fermarsi, a porre un limite
alla ‘generosità’ del suo produrre che incorre, non di rado
e l’ora presente ne è testimone, in invadenza morale e in invasione
territoriale.
Questi temi divagano dal libro della Mernissi che non li tratta
direttamente. Lei li anima simbolicamente: almeno per me, lettrice
con crescente passione, questo è (stato) l’effetto guadagnato.
L’autrice si pone sull’harem dove è nata e cresciuta fino ad
un certo punto. Da lì procede su un’impasse; scarta l’ipotesi
da convalidare in assoluta certezza o in verità unica. La cultura
occidentale (che per lei musulmana rappresenta la cultura-altra)
non è forzata ad una propria interpretazione. È svelata invece,
ascoltata e indagata con attenzione nel vivo dei rapporti umani.
È lasciata parlare nelle opere d’arte, nelle movenze delle abitudini
quotidiane, nell’affascinante libertà con cui le persone si
muovono in essa. Viene scoperta anche nella nudità del suo ‘machismo’:
in quell’harem occidentale dove la bellezza femminile non trova
il luogo della sua intelligenza.
Se nell’‘arretrato’ oriente “La mente di una donna è la più
potente arma erotica” per l’immaginario maschile, nel ‘progredito’
occidente “le donne intelligenti sono brutte”.
L’autrice si lascia guidare dallo sbigottimento per non sapersi
spiegare i ricorrenti “sorrisetti”, immancabilmente stampati
sui volti degli interlocutori, ogni volta che il discorso si
indirizza all’harem. “Ma davvero lei è nata in un harem?”
è la sorniona domanda con cui iniziano le interviste alla scrittrice.
Ebbene, se lei si lascia guidare dallo sbigottimento, chi legge
il libro è guidato da lei, attraverso ambiti disciplinari molto
diversi tra loro, al cuore della sua cultura, della sua sapienza,
della sua erudizione e della sua esperienza. Sensibilità, esperienza
e tradizione che toccano la storia, la letteratura, la filosofia
e le belle arti; tradizione, esperienza e sensibilità circolanti
nel rapporto vivo, diretto con altre e altri, piuttosto che
ricavate come l’autrice puntualizza dalle “autistiche
ricerche su internet”.
La conoscenza d’amore di Fatema Mernissi necessita, altresì,
rigenerarsi di fronte all’oceano misterioso come l’esistenza,
affascinante e con un margine ignoto come la vita simbolica.
Recita così un passo conclusivo simile a uno stupefatto inno
di gioia:
“Quando arrivò l’estate mi recai a Terama Beach, tra Rabat
e Casablanca, e cercai di scordarmi di Ingres e Matisse e dei
loro harem. Ascoltai il ruggito dell’oceano, guardai i meravigliosi
tramonti e per ore mi immersi nelle onde dell’alta marea quando
la luna è piena: prego e medito -mi dissi -ma lo faccio di fronte
all’oceano. Questo è il piccolo, ma strategico dettaglio che
sfugge [...]: le donne musulmane moderne hanno guadagnato l’accesso
al mare. Hanno polverizzato la frontiera dell’harem voluta dagli
uomini e hanno ottenuto il diritto allo spazio pubblico. Velate
o no, fatto è che siamo per strada a milioni. Meditare in piedi
tra le onde dell’Atlantico è tutt’altra cosa che farlo sedute
in un harem, tra quattro mura. Nel mare mi sento connessa al
cosmo, e sono potente come “La donna dal vestito di piume” di
Sharhazad [... ]Le donne musulmane possono volare e muoversi
liberamente, come Shirin sul suo veloce cavallo”.
L’harem e l’occidente dispiega serena e intensa visione
di vita, belligerante e tuttavia pacata giacché il viaggio
tra culture diverse, eppure similmente ispirate, è radicato
sul senso del conflitto tra i sessi. Senza toni recriminatori
e senza vittimismi alla ricerca di tutela, il racconto narra
la differenza radicale e radicante per il corso dell’avventura
umana. Una differenza al contempo imprescindibile dall’amore
per il mondo.
Monica
Giorgi
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