Dagli attentati dell’11 settembre all’inizio
bombardamenti americani e inglesi su Kabul e Kandahar è passato
poco meno di un mese ma la guerra era iniziata molti giorni
prima. Non si era ancora sparato un colpo, le indagini proseguivano
a rilento, non ci si era ancora ripresi dallo spettacolo assurdo
di quei due boeing che si infilavano nelle torri gemelle del
World Trade Center e già eravamo in guerra. Nei pensieri, almeno,
nelle reazioni istintive, nei comportamenti più privati, nell’isteria
diffusa. Forse ha ragione il presidente americano George W.
Bush jr. Quella contro l’internazionale del terrore è e sarà
una guerra di “tipo nuovo”, un’inedita forma di conflitto. Ce
ne accorgiamo dal clima permaloso e allarmato che sta maturando,
dalla retorica del patriottismo, dai troppi ricatti mentali
di politici, politicanti e intellettuali. Questa guerra ad alleanze
variabili e con molteplici armi e risorse belliche comincia
dalla porta di casa o nel cyberspazio (come ha detto il ministro
della difesa Usa Rumsfeld) e riguarda la vita quotidiana e gli
spazi ambigui della normalità, le situazioni ordinarie, i delicati
equilibri della vita civile. Il nemico è nascosto nell’ombra
delle nostre città multiculturali e ha già valicato le mura
della cittadella assediata. Il nemico, chiunque diavolo sia,
è qui tra noi.
Il primo effetto è un invito all’ordine che suona come un ricatto
sottile e un’aperta minaccia. Una cappa pesante di conformismo
sta avvelenando il discorso pubblico. Gli spazi di libertà cominciano
a chiudersi. L’occidente sotto assedio serra le file e il dissenso
e la critica, la protesta, il dubbio, lo spirito critico e il
non-conformismo tornano a essere atteggiamenti severamente vietati
e pericolosi. Il nemico è alle porte. Chi non canta nel coro
fa il suo gioco, come si diceva una volta, “oggettivamente”.
Sta tornando il tempo della caccia alle streghe, la paranoia
ossessiva della quinta colonna.
Per la politica ufficiale, per la politica con la P maiuscola,
il cumulo di macerie delle torri gemelle di Manhattan ha finito
per rivelarsi una grottesca manna piombata dal cielo (insieme
ai boeing dei dirottatori). Quegli 8 “grandi” che a Genova erano
apparsi infinitamente irrilevanti e patetici, smarriti, smaccatamente
inutili e decorativi, ora possono nuovamente illudersi di guidare
le danze della storia mondiale (anche se per adesso giocano
di rimessa, stanno chiusi in difesa). Normale che per il momento
vogliano imporre un clima mentale diverso, drammatizzare la
situazione, creare un pathos da fine del mondo. Saranno loro
a “salvarci” da Osama bin Laden e dai minacciosi deliri del
fondamentalismo islamico con una grande coalizione globale e
una santa alleanza per la democrazia; avranno pure il diritto
di chiederci qualche piccolo sacrificio. La rinuncia al dissenso
e alla protesta, il silenzio, una rinnovata obbedienza, gli
occhi chiusi.
Un ritornello usurato
Bush, Berlusconi, Blair & compagnia cantante vivono il
loro momento di gloria sfruttando una grande paura immaginaria.
Sembrano tutti piccoli Churchill improvvisati. Recitano la loro
litania con zelo e puntiglio, sono commoventi. Stiamo vivendo
un’altra volta le nostre “finest hours”, siamo arrivati – non
se ne può dubitare – a una grande svolta. Eccoci qua a difendere
la civiltà moderna e l’Occidente, i grandi valori della democrazia.
Sta diventando un ritornello usurato e uno stucchevole rumore
di fondo. Chi non ha voglia di allinearsi deve fare i conti
con questo clima asfissiante da giorni di guerra. Subito dopo
l’11 settembre, con una gaffe emblematica e significativa, la
Casa Bianca aveva messo in guardia gli americani: adesso, disse
il suo impagabile portavoce Fleischer, gli “americani devono
stare attenti a quello che dicono”. Più che un invito era un
avvertimento mafioso, un autoritario richiamo all’ordine. Proibito
dissentire o scherzare, proibito cantare fuori dal coro, proibito
in ultima analisi criticare il presidente crociato e la sua
ghenga. Dal “Washington Post” al “New York Times” persino i
grandi giornali borghesi hanno semplicemente risposto picche.
Non c’è allarme, non c’è ansia, che tenga. La libertà di parola
e di espressione restano almeno in linea di principio fondamentali.
Almeno in America (e almeno in teoria). La censura di guerra
non può passare.
Ma ogni Paese, evidentemente, ha i maledetti politici e i maledetti
giornali che si merita. Dall’altra parte dell’Atlantico, qui
da noi, alla periferia dell’impero, ci siamo ritrovati come
capita sempre più realisti del re (e decisamente molto più imbecilli).
Parecchio prima che un ispirato Berlusconi enunciasse la sua
filosofia della storia tascabile celebrando la “superiorità”
dell’Occidente sul medioevo islamico ed equiparasse senza troppe
perifrasi il popolo di Seattle e la protesta “no-global” ai
kamikaze e ai terroristi di Osama bin Laden, quell’equazione
reazionaria era già stata ampiamente messa a punto nei lugubri
ma sempre fervidi pensatoi della sinistra locale.
Su “Repubblica” (il tempio della resistenza militante al berlusconismo
imperante e alla nuova destra) Lucio Caracciolo aveva immediatamente
scomunicato preventivamente i “pacifisti” e Mario Pirani aveva
già elaborato il suo ameno teorema: tra i no-global e bin Laden
non c’è di fatto nessuna differenza. Chi critica lo stile di
vita dell’Occidente e i dogmi religiosi del mercato è fuori
dal gioco: “dopo la catastrofe terroristica dell’11 settembre,
quei no-global che manifestarono a Genova... dovrebbero riflettere”.
I loro slogan, le loro proteste, hanno un segno perverso e inaccettabile.
Il movimento rischia di diventare “un supporter ideale, per
quanto involontario e incosciente del fondamentalismo islamico”.
Entusiasmante. Gli avrebbe fatto eco pochi giorni dopo il pontefice
massimo degli opinionisti italici, l’austero, saccentissimo,
Angelo Panebianco sul “Corriere della sera”: “Nei giorni di
Genova, teppisti a parte, tante brave e miti persone erano là
riunite a manifestare contro il G8 parlando di quella riunione
dei capi di governo di alcuni dei Paesi più liberi del mondo
più o meno negli stessi termini in cui ne parla bin Laden”.
Gli ayatollah si sono pronunciati. Il verbo è stato emesso.
Gli editti sono stampati e divulgati. Anche gli italiani – si
capisce – farebbero bene a “stare attenti a quello che dicono”.
Si lanciano scomuniche e anatemi per preparare una guerra che
tutto sommato non ci coinvolgerà più di tanto e certo non vedrà
le truppe da sbarco del battaglione San Marco impegnate tra
le sbreccate montagne dell’Afghanistan. Ma che conta? Bisogna
serrare i ranghi, dire le preghierine, recitare il credo. Ricatti,
censure preventive, equiparazioni astratte e spensierate sono
le supposte intellettuali necessarie in questo uggioso clima
di guerra incipiente. Niente di straordinariamente nuovo, niente
di veramente impensabile o inedito. È il solito clima da ultima
spiaggia, sono i consueti inviti al patriottismo mentale, alla
lobotomia autoimposta, all’autocensura.
Le ultime radiografie del presente denunciano una situazione
pesante e intollerabile. La posta celere della storia mondiale
ci recapita telegrammi, lettere e cartoline da un mondo amputato.
Improvvisamente, siamo ripiombati in un clima da caccia alle
streghe senza neanche capire bene chi siano i cacciatori e chi
le streghe. Il dissenso non è tollerato, la voglia di rivolta
equivale a un crimine, la protesta è un delitto di lesa democrazia
o di leso Occidente. L’atmosfera tirannica del presente è venata
di un perbenismo diffuso e che pretende di ridurre tutti al
silenzio e all’obbedienza. Spiazzata, la politica sembra capace
di ripensarsi solo rimettendo a nuovo il vecchio schema tradizionale
della contrapposizione tra “amico e nemico”. Non è una novità
e non sorprende. Più diventa vuota e marginale più cerca di
salvarsi l’anima con questi modelli scolastici da manuale di
filosofia politica, con questi paradigmi sfocati e desueti.
Non sorprende, d’accordo, ma resta irritante. Alti valori, proclami,
solenni, intimidatorie esortazioni, ormai ci ronzano nella testa
come i gracchianti bollettini della Grande Guerra. Sembra un
film in bianco e nero ma è questo nostro sbilenco presente da
operetta. Livore, risentimento, supponenza arrogante, ricatti
meschini continuano ad alternarsi in un balletto stonato. Politici,
opinionisti, intellettuali pensosi credono di recitare un dramma.
È avanspettacolo, non dategli retta.
Inutile farla tanto lunga, inutile stracciarsi le vesti. Non
bisogna lasciarsi condizionare da queste emergenze immaginarie.
Mai come oggi ribellarsi è giusto. Pensare con la propria testa,
rivendicare autonomia e indipendenza, parlare liberamente, dissentire.
La linfa vitale della nostra vita civile (quel poco che ne resta),
l’anima (tramortita) della democrazia, stanno tutte qui. Non
sembra proprio il caso di sacrificarle agli idoli del momento,
alla grande paura del nemico islamico o anticapitalista o all’apprensione
venata di lievi e cialtroni egoismi di piccolo borghesi da quattro
soldi (o da quarantamila miliardi, tanto è lo stesso). Se Berlusconi
e i suoi numi tutelari (di sinistra) recitano questo patetico
libera nos domine dalla minaccia fondamentalista o dalla sovversione
“no-global” non è davvero il caso di affrettarsi a prenderli
sul serio. La vita, e la storia, sono cose un po’ più impegnative
e più complesse.
Viviamo in un tempo strozzato, sopravviviamo incerti – in modo
più o meno agevole o stentato – in una fase stupida di facili
censure, ricatti mediocri, conformismi d’accatto e ipocrisia.
Mai come oggi ribellarsi è giusto e indispensabile. Non ci sono
altre vie d’uscita o scappatoie di comodo, non ci sono scale
antincendio per svignarsela. Una vita indipendente e autonoma,
l’intransigenza, il desiderio di dire di no, il gusto e la voglia
della protesta non sono opzioni da scegliere ma imperativi obbligati.
Bisogna soltanto aggiungere che questo è vero sempre ed è vero
comunque. Dovunque stiamo. Ovunque ci collochiamo. Sempre, praticamente.
In ogni caso. Non è accettabile nessuna doppia morale, nessuno
doppio standard. Non c’è emergenza, non esiste grande Nemico
(neppure i carabinieri o Berlusconi) e non c’è circostanza che
possano rivendicare il diritto di mettere il silenziatore al
dissenso e alla spirito critico, all’irriverente rigore del
giudizio autonomo.
Va detto per onestà e per decenza mentale, per coerenza. Anche
dall’altra parte della barricata, anche tra chi vive o teorizza
la rivolta “no-global” e la rivoluzione, stanno affermandosi
i vecchi meccanismi politicisti di una volta, i soliti riflessi
condizionati da scontro all’ultimo sangue o all’ultima spiaggia.
La morale è chiara (ma non è “morale”). Siamo sotto assedio
anche “noi” che aspiriamo a un mondo diverso e liberato: guai
a chi rompe i ranghi (e le scatole), guai a chi denuncia ritardi
o sbagli, illusioni da poco, involuzioni. Non è possibile fingere
di non vederlo o lasciar stare. Anche nel Movimento affiora
lentamente questa meschina tendenza autoritaria (o più semplicemente
“politicamente corretta”, perbenista). Per cause di forza maggiore,
sembra di capire, oggi conviene misurare le parole, stare dannatamente
attenti a “quel che si dice” (come direbbe la Casa Bianca),
fare i bravi. (...)
Bisogna spezzare questa situazione e dare aria alla casa. Dopo
Manhattan è più chiaro di prima e forse più urgente. Non possiamo
sacrificare il presente a schemi ideologici pretenziosi, allarmi
bellici, goffe e leziose diatribe dialettiche sul futuro. Se
vogliamo capire in che mondo viviamo e dove vogliamo andare
siamo costretti a pensare da soli. Quasi da soli. Senza patria,
identità collettive, appartenenze dubbie, fedeltà posticce e
approssimative. Anche per raccontare la Storia che ci sta più
a cuore, anche per parlare di questo desiderio diffuso di rivolta
che sembra nato due anni fa tra le strade e le piazze di Seattle,
dovremo fare un radicale sforzo di indipendenza mentale e di
onestà. Poco male se non ne verrà fuori un ritratto carino o
edificante. Sono cose che capitano, è la vita. Pasolini diceva
che è meglio essere amici “della verità che amici del popolo”.
Aveva ragione.
Da Seattle a Genova
I luoghi e le date, le circostanze. Seattle e Genova. La fine
del 1999, il luglio del 2001. Quasi due anni, e forse, purtroppo,
un breve ma già troppo lungo viaggio a vuoto. I luoghi, quindi,
le date, le circostanze e il senso politico di un percorso che,
fuori dall’ottimismo consolatorio di chi deve salvare la faccia
o la poltrona, è cominciato a Seattle e sembra essersi esaurito
tra le strade e i vicoli di Genova, sull’asfalto di Piazza Alimonda.
Questo libro non è un “bilancio” ma il tentativo di capire un
fatto “nuovo” nel mondo – l’affermarsi di una sensibilità diversa,
la rinascita di un “linguaggio della protesta”, di una sorprendente
esigenza di ribellione – che rischia di essersi già bruciato
nei cerimoniali della politica tradizionale, negli automatismi
di un gergo vuoto o nei riti spenti e invecchiati della “piazza”.
A Seattle è cominciato qualcosa di nuovo. Gli scontri di piazza
che hanno accompagnato il vertice del Wto a fine novembre 1999
hanno introdotto parole e situazioni inedite nel codice politico
del presente. A cominciare dall’improvvisa valenza polemica
di questa parola monstre: “globalizzazione”. Per anni è stato
un tema per specialisti, un termine esoterico, un algoritmo
o una formula per cercare di spiegare la Storia e il corso del
mondo dopo la fine di ideologie e grandi narrazioni, dopo l’avvento
obbligato del postmoderno. Il mondo stava cambiando, non si
sapeva perché (non si sa mai perché); non si capiva come. Alla
fine ci siamo ritrovati tutti a parlare e discutere di globalizzazione,
a ragionare di un “pianeta unico”. A Seattle, la teoria è diventata
sensibilità diffusa e voglia di schierarsi, esigenza di ribellione
e di rivalsa, protesta contro i “padroni” del mondo e i loro
giochi economici, i loro abracadabra finanziari. Dalle ceneri
della lotta di classe era, o sembrava, rinato un altro antagonismo.
Un movimento, una sensibilità comune si sono affermati contro
politici e corporations, multinazionali, brand, icone del neoconsumismo,
oggetti di culto di un mondo “in vendita”. Per la prima volta
dalla caduta del Muro di Berlino, l’idolatria del mercato è
stata messa in discussione non dai soliti tre o quattro intellettuali
biliosi, o dal rancore nostalgico di ex-comunisti più o meno
onesti, più o meno mascherati, ma da un movimento articolato
e composito, plurale, contraddittorio, diversificato e fantasioso.
Una cosa è certa, almeno una. In questi due anni, il lessico,
il vocabolario politico con cui giudichiamo il presente si è
trasformato in modo radicale. Le categorie tradizionali facevano
acqua da tutte le parti. Adesso sono state relegate in cantina,
giustamente. Destra e sinistra. Socialismo, liberismo, “terza
via”. Tutte queste parole sono diventate reperti di modernariato
ideologico, anticaglie. Anche i più ostinati e i più pigri hanno
dovuto riconoscere che la situazione attuale risponde a una
polarità diversa, anche se probabilmente altrettanto inadeguata
e incerta, egualmente rigida e insoddisfacente. Oggi a dividersi
il campo da gioco, a fare le squadre, sono gli amici e i nemici
della globalizzazione. I poteri costituiti, più o meno davanti
agli occhi di tutti, in parlamento, o nel riserbo ovattato delle
stanzette dove di riuniscono comitati d’affari e consigli d’amministrazione.
E il “popolo di Seattle”: questa galassia di sensibilità, istinti
politici, associazioni e movimenti schierati in battaglia contro
la globalizzazione e i suoi sacerdoti.
Quello che ha fatto di Seattle un simbolo e una pietra di paragone
sta proprio in questo: la velocità con cui una situazione anomala
– un vertice internazionale turbato a forza di slogan e vetrine
infrante da misteriosi, spiazzanti revenants giunti apparentemente
del passato – è riuscita immediatamente a trasformarsi in un
paradigma, in un problema di filosofia politica e nel principale
dilemma del presente. Ma sono passati solo due anni e già sembra
trascorsa un’eternità. A Seattle, per la prima volta dopo decenni,
si è risentita una voce che sembrava spenta. Il linguaggio e
i gesti della protesta, la voglia di ribellarsi, la spensierata,
irriverente, esigenza di dire di no e di rifiutare una situazione
che in troppi avevano sancito come un quadro obbligato e inevitabile.
(...).
Vittorio Giacopini
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