Il filosofo tedesco Immanuel
Kant è morto alle undici del mattino di una domenica, il 12
febbraio del 1804. In vita sua non fu tenero con nessuno e tantomeno
con i filosofi che lo precedettero – fino al punto che Mendelssohn
lo chiamava “lo smantellatore”. La sua fama era tale che il
viaggiatore colto dell’epoca – per esempio il russo Nikolaj
Karamzin (cfr. Incontro con Kant, Il Minotauro, Milano
1995) includeva Koenigsberg (poi Kaliningrad) nel suo
itinerario con la speranza di poterlo incontrare. Fu amorevolmente
assistito e osservato con scrupolo di cronista (da Thomas De
Quincey, che, poi, scrisse, per l’appunto Gli ultimi giorni
di Immanuel Kant, Adelphi, Milano 1983) nei giorni che ne
precedettero la morte e, prima che se ne svolgessero i solenni
funerali, a cura del dr. Knorr (che, spero, non avesse alcunché
a che fare con l’omonimo inventore dei dadi per brodo), del
suo cranio venne fatto un calco che sarebbe, poi, andato ad
arricchire la collezione del dr. Gall, noto frenologo.
Sembrerà dunque strano che, ad onta di tanta celebrità, qualcosa
di suo ci rimanesse ancora da leggere. Pochi mesi or sono, invece,
per la prima volta, sono uscite in edizione italiana le sue
Bemerkungen Meltemi, Roma 2001), ovvero le sue “osservazioni”
che la curatrice, Katrin Tenembaum, in fin dei conti correttamente,
ha voluto caratterizzare come Note per un diario filosofico.
La storia di queste Note è curiosa e merita di essere
raccontata. Nel 1836, a Koenisberg, in un mucchio di carta straccia
destinata al macero, fu rinvenuta una copia di un’opera di Kant,
le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime
– e non una copia qualsiasi, ma la copia appartenuta a Kant
medesimo, con i margini zeppi di annotazioni. Il caso ha voluto
che questo volume finisse nelle mani di Schubert, uno dei due
curatori della prima raccolta delle opere kantiane, e da lì,
di curatore in curatore (magari perdendo per strada qualche
pezzo venduto sottobanco ai collezionisti di autografi) è iniziato
quel lavoro di certosina espunzione che, dai margini, avrebbe
portato il pensiero di Kant nel XX volume dell’opera omnia pubblicato
in Germania soltanto nel 1942.
Visto che i margini contornano pur sempre riflessioni sul bello
e sul sublime, non stupirà che, qua e là, figurino molte considerazioni
di ordine estetico. Stupirà un po’ di più che Kant dedichi tanta
attenzione alle donne. Nulla, beninteso, che possa far mutare
l’interpretazione femminista che del filosofo ha evidenziato
la componente sostanzialmente misogina, ma molto di più – in
termini di varietà di temi e di profondità di analisi – di quel
che ci si poteva aspettare.
Il tratto più significativo, comune a questo insieme di osservazioni,
a mio avviso, tuttavia, è un altro. Ed è ciò che non solo differenzia
Kant, ma anche qualsiasi altro filosofo di un generico passato
remoto, dai filosofi odierni. Mi riferisco alla tenace capacità
di generalizzazione esercitata nei confronti di taluni oggetti
di studio particolari: i generi, d’accordo, ma poi le nazionalità,
le classi sociali, le tipologie umane pencolanti fra biologia
e psicologia.
È così, allora, che Kant asserisce in piena serenità
che “le donne tedesche sono oneste, le francesi sono delle coquettes”,
oppure che “tutte le vedove si risposano, ma non tutti i vedovi”.
Che “le donne sono tutte avare, eccetto quando la vanità è più
forte”, che “il melanconico ride ancora quando tutti gli altri
hanno smesso di ridere”, che “il collerico sanguigno ama solo
la coquette” (inutile dire che la “coquette” è una categoria
dello spirito che nel “pensiero kantiano” occupa un posto rilevante),
che “le persone basse sono altezzose e irascibili, le persone
alte sono calme”, che “i nobili di solito pagano male” o che
“l’aristocratico si figura che il borghese sia oppresso dai
mali del disprezzo per uno sfarzo di cui è stato privato, e
il borghese, da parte sua, non comprende come potrebbe prendere
l’abitudine di annoverare certi divertimenti tra i propri bisogni”.
Al di là dei singoli contenuti, si tratta di forme argomentative
che, oggi, non fanno più parte del discorso filosofico di alto
livello, ma, se mai, di ciò che del discorso filosofico di alto
livello è finito nella chiacchiera da bar. Nonostante non si
sia affatto liberi da pregiudizi, siamo tutti restii ad un tasso
di generalizzazione così alto. Stiamo bene attenti a non cadere
in affermazioni che riguardino “tutti” gli esemplari di una
classe, così come, peraltro, siamo più guardinghi anche nel
costituire le “classi” medesime. Anche ciò, presumibilmente,
può essere ascritto al passaggio da sistematiche potenti a contentini
da pensiero debole. Ma non si creda in chissà quali vantaggi.
Felice Accame
P.s.: A fronte di generalizzazioni vetuste, infatti,
nelle annotazioni di Kant, ce ne sono anche di freschissime.
Quando dice, per esempio, che “la mollezza nei costumi, l’ozio
e la vanità danno origine alle scienze” sembra prefigurare Feyerabend
quando, in Contro il metodo, diceva che, senza una buona
dose di pigrizia, non c’è scoperta scientifica.
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