rivista anarchica
anno 32 n. 279
marzo 2002


attenzione sociale


diario a cura di Felice Accame

Kant sui margini

 

Il filosofo tedesco Immanuel Kant è morto alle undici del mattino di una domenica, il 12 febbraio del 1804. In vita sua non fu tenero con nessuno e tantomeno con i filosofi che lo precedettero – fino al punto che Mendelssohn lo chiamava “lo smantellatore”. La sua fama era tale che il viaggiatore colto dell’epoca – per esempio il russo Nikolaj Karamzin (cfr. Incontro con Kant, Il Minotauro, Milano 1995) – includeva Koenigsberg (poi Kaliningrad) nel suo itinerario con la speranza di poterlo incontrare. Fu amorevolmente assistito e osservato con scrupolo di cronista (da Thomas De Quincey, che, poi, scrisse, per l’appunto Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, Adelphi, Milano 1983) nei giorni che ne precedettero la morte e, prima che se ne svolgessero i solenni funerali, a cura del dr. Knorr (che, spero, non avesse alcunché a che fare con l’omonimo inventore dei dadi per brodo), del suo cranio venne fatto un calco che sarebbe, poi, andato ad arricchire la collezione del dr. Gall, noto frenologo.
Sembrerà dunque strano che, ad onta di tanta celebrità, qualcosa di suo ci rimanesse ancora da leggere. Pochi mesi or sono, invece, per la prima volta, sono uscite in edizione italiana le sue Bemerkungen Meltemi, Roma 2001), ovvero le sue “osservazioni” che la curatrice, Katrin Tenembaum, in fin dei conti correttamente, ha voluto caratterizzare come Note per un diario filosofico.
La storia di queste Note è curiosa e merita di essere raccontata. Nel 1836, a Koenisberg, in un mucchio di carta straccia destinata al macero, fu rinvenuta una copia di un’opera di Kant, le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime – e non una copia qualsiasi, ma la copia appartenuta a Kant medesimo, con i margini zeppi di annotazioni. Il caso ha voluto che questo volume finisse nelle mani di Schubert, uno dei due curatori della prima raccolta delle opere kantiane, e da lì, di curatore in curatore (magari perdendo per strada qualche pezzo venduto sottobanco ai collezionisti di autografi) è iniziato quel lavoro di certosina espunzione che, dai margini, avrebbe portato il pensiero di Kant nel XX volume dell’opera omnia pubblicato in Germania soltanto nel 1942.
Visto che i margini contornano pur sempre riflessioni sul bello e sul sublime, non stupirà che, qua e là, figurino molte considerazioni di ordine estetico. Stupirà un po’ di più che Kant dedichi tanta attenzione alle donne. Nulla, beninteso, che possa far mutare l’interpretazione femminista che del filosofo ha evidenziato la componente sostanzialmente misogina, ma molto di più – in termini di varietà di temi e di profondità di analisi – di quel che ci si poteva aspettare.
Il tratto più significativo, comune a questo insieme di osservazioni, a mio avviso, tuttavia, è un altro. Ed è ciò che non solo differenzia Kant, ma anche qualsiasi altro filosofo di un generico passato remoto, dai filosofi odierni. Mi riferisco alla tenace capacità di generalizzazione esercitata nei confronti di taluni oggetti di studio particolari: i generi, d’accordo, ma poi le nazionalità, le classi sociali, le tipologie umane pencolanti fra biologia e psicologia.
È così, allora, che Kant asserisce in piena serenità che “le donne tedesche sono oneste, le francesi sono delle coquettes”, oppure che “tutte le vedove si risposano, ma non tutti i vedovi”. Che “le donne sono tutte avare, eccetto quando la vanità è più forte”, che “il melanconico ride ancora quando tutti gli altri hanno smesso di ridere”, che “il collerico sanguigno ama solo la coquette” (inutile dire che la “coquette” è una categoria dello spirito che nel “pensiero kantiano” occupa un posto rilevante), che “le persone basse sono altezzose e irascibili, le persone alte sono calme”, che “i nobili di solito pagano male” o che “l’aristocratico si figura che il borghese sia oppresso dai mali del disprezzo per uno sfarzo di cui è stato privato, e il borghese, da parte sua, non comprende come potrebbe prendere l’abitudine di annoverare certi divertimenti tra i propri bisogni”. Al di là dei singoli contenuti, si tratta di forme argomentative che, oggi, non fanno più parte del discorso filosofico di alto livello, ma, se mai, di ciò che del discorso filosofico di alto livello è finito nella chiacchiera da bar. Nonostante non si sia affatto liberi da pregiudizi, siamo tutti restii ad un tasso di generalizzazione così alto. Stiamo bene attenti a non cadere in affermazioni che riguardino “tutti” gli esemplari di una classe, così come, peraltro, siamo più guardinghi anche nel costituire le “classi” medesime. Anche ciò, presumibilmente, può essere ascritto al passaggio da sistematiche potenti a contentini da pensiero debole. Ma non si creda in chissà quali vantaggi.

Felice Accame

P.s.: A fronte di generalizzazioni vetuste, infatti, nelle annotazioni di Kant, ce ne sono anche di freschissime. Quando dice, per esempio, che “la mollezza nei costumi, l’ozio e la vanità danno origine alle scienze” sembra prefigurare Feyerabend quando, in Contro il metodo, diceva che, senza una buona dose di pigrizia, non c’è scoperta scientifica.