rivista anarchica
anno 32 n. 279
marzo 2002


anarchici

Ritratti in piedi
Dialoghi fra storia e letteratura

a cura di Massimo Ortalli

La strage del Diana

Quella di «bombaroli» è una fama che gi anarchici si portano dietro da anni. E, a quanto pare, non del tutto campata in aria se a darle voce ci sono stati anche dei perfetti cretini, che in olimpica buona fede urlavano, nei cortei studenteschi, a pieni polmoni e con parossistica convinzione: «Bombe, sangue, anarchia». Questo prima del 12 dicembre 1969, perché dopo Piazza Fontana, fortunatamente, si è smesso, almeno per un bel po’, di gridare una tale scempiaggine; anche se, puntuali come orologi svizzeri, ogni tanto si affacciano sulla scena della cronaca, individui che si preoccupano di rinverdire questa fama. Forse nel timore che venga finalmente accantonata come uno stupido, vecchio luogo comune. Quale, in effetti è, o almeno dovrebbe essere.
Comunque sia, questa nomea, che ci avviluppa come un tabarro, al pari di quella di sognatori, di utopisti, di romantici cavalieri dell’ideale, di figure tutte di un pezzo, di belve assetate di sangue, di brava gente con la testa fra le nuvole, di individualisti asociali, di sottoproletari ribelli, di piccolo borghesi, di sorpassati mangiapreti, di residui ottocenteschi, di pacifisti tolstoiani, ha una sua ragion d’essere. Infatti, una volta sfrondata dalle foglie del pregiudizio e della superficialità, anch’essa, come tutte le nomee, trae origine da una certa dose di verità. E sarebbe da ipocriti ignorarlo o nasconderlo.
Il 23 marzo 1921 un gruppo di anarchici milanesi, convinto sulla base di informazioni volutamente false, di poter colpire Gasti, il questore di Milano, fa esplodere un potentissimo ordigno all’esterno del teatro Diana. L’esplosione causa ventuno morti e più di centocinquanta feriti, ma ad essa scampa l’obiettivo principale. Gli autori del gesto, da tempo esasperati per la ingiusta detenzione dei redattori del quotidiano Umanità Nova, Borghi, Malatesta e Quaglino, vogliono richiamare l’attenzione sulle condizioni di salute dei tre detenuti. Costoro, infatti, nonostante l’avanzata età di Errico Malatesta, hanno appena iniziato uno sciopero della fame ad oltranza, per protestare contro le pretestuose lungaggini dei tempi processuali. Naturalmente, invece di far nascere un qualsiasi moto di solidarietà nei confronti del vecchio anarchico e dei suoi compagni di galera, il sanguinoso attentato genera un profondo moto di orrore, che si riverbera in nuove accuse e rinnovati, durissimi, attacchi a tutto il movimento anarchico.
Nessuno degli scopi che gli attentatori si sono prefissi viene raggiunto: la borghesia non si fa intimidire, ma diventa ancora più determinata nel combattere «la canaglia rossa»; i fascisti ne approfittano per compiere nuove e più selvagge azioni, quali la distruzione delle sedi di Umanità Nova e L’Avanti!; Malatesta e compagni restano in prigione, oppressi oltretutto da quanto avvenuto in loro nome; centinaia di persone assolutamente innocenti ci rimettono la pelle o l’integrità fisica; Gasti si fa ancora più infame e potente; il movimento anarchico viene isolato e sottoposto a feroci repressioni; l’ideale solidario ed emancipatore dell’anarchismo risulta offuscato, per l’ennesima volta, dalla sanguinosità di un atroce delitto commesso in suo nome. E un gruppo di bravi e generosi compagni disperde le proprie energie e la propria vita nelle patrie galere. Degli esecutori materiali, Giuseppe Mariani e Giuseppe Boldrini sono condannati all’ergastolo, mentre Ettore Aguggini si busca 30 anni di galera. Numerosi altri anarchici, pur estranei all’attentato, subiscono pesanti condanne che vanno dai 5 ai 18 anni.
Di quanti furono coinvolti nella «faccenda del Diana», l’unico che ne ha scritto è Giuseppe Mariani. Nel 1953 ha infatti pubblicato un primo libro, Memorie di un ex-terrorista, seguito, l’anno successivo, da Nel mondo degli ergastoli, due testi autobiografici nei quali l’autore narra, con prosa asciutta ed essenziale, la sua drammatica esperienza, le vicende che precedettero l’attentato e il lungo periodo di detenzione che ne seguì. Sono testi scarni, privi di quei frequenti atteggiamenti letterari o filosofici che ci potremmo aspettare da un individuo costretto, per evidenti cause di forza maggiore, a isolate riflessioni autoreferenziali e che avrebbe potuto rimuovere, nell’isolamento del penitenziario, le proprie responsabilità. Colpisce, invece, come in quelle pagine, così cariche della tragedia che ne ha distrutto l’esistenza, non ci sia una sua parola, una sua sola parola a giustificazione di quanto commesso. Del resto Peppino Mariani, che ho avuto la fortuna di conoscere nei primi anni settanta a Imola, ospite con la sua compagna Susi a casa di Cesare Fuochi, non ha mai avuto una parola di rivendicazione del suo gesto, anche se il dirla, forse, avrebbe potuto lenire in parte l’enorme peso delle sue responsabilità. Evidentemente i 27 anni trascorsi in galera, spesi nello studio e nella riflessione, avevano profondamente cambiato l’uomo, e il suo anarchismo, rimasto integro come negli anni della giovinezza, si era maturato nel rifiuto di ogni forma di gratuita violenza.
Peppino Mariani fu graziato nel 1948, dietro l’interessamento del suo ex compagno di detenzione, e futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Trasferitosi a Sestri Levante, vi aprì una libreria, che gli permise di vivere, poveramente ma con grande dignità, fino al 1974, anno in cui si spense.
Naturalmente sul Diana si è scritto molto. Parecchi furono gli anarchici che intervennero sul momento o che ricostruirono, negli anni successivi, quei terribili frangenti, come numerosi sono gli storici che hanno inquadrato «il Diana» nella eccezionale temperie storica del Biennio rosso. Qui riporto tre testimonianze dirette particolarmente significative, vale a dire quella di Armando Borghi (A. Borghi, Vivere da anarchici, Bologna, Alfa Editoriale, 1966) quando apprende la notizia a San Vittore, quella di Luce Fabbri (L. Fabbri, Luigi Fabbri, storia di un uomo libero, Pisa, BFS, 1996) che rievoca lo sconforto, ma anche la pronta reazione del padre, quella di Errico Malatesta (E. Malatesta, Scritti scelti, vol. II, Carrara, Movimento Anarchico Italiano, 1975) che, in occasione dell’apertura del processo agli attentatori, scrive su Umanità Nova pagine di grande umanità. Per una ricostruzione più ampia dell’attentato, ho scelto le recentissime pagine di Gigi Di Lembo (L. Di Lembo, Guerra di Classe e Lotta Umana, Pisa, BFS, 2001) che riescono a rendere con perfetta sinteticità l’insieme di cause e concause che concorsero all’organizzazione dell’attentato e le conseguenze che ne sortirono. Per chi volesse approfondire l’argomento, rimando al magistrale libro di Vincenzo Mantovani (V. Mantovani, Mazurka Blu. La strage del Diana, Milano, Rusconi, 1979), meritoriamente ristampato in questi giorni dalle Edizioni Samizdat di Pescara.

Massimo Ortalli

Non godiamo
del male

di Giuseppe Mariani

Altri fatti che la storia ignora sulla preparazione ed esecuzione della bomba al Diana voglio ora non passare sotto silenzio in quanto che credo ormai giunto il momento di fare intorno a quell’atto un po’ di luce, onde sfatare tutte le sciocchezze che su di noi e su di me in particolare, furono dette e ritenute vere.
Prima però di scendere nei particolari di quel tragico fatto ritengo necessario dire subito, anche se nelle spiegazioni successive risulterà maggiormente evidente, che senza l’arbitraria e prolungata detenzione in carcere di Errico Malatesta, l’attentato non solo non sarebbe mai stato fatto, ma neppur pensato.
Quello, forse, che non risulterà a tutti egualmente evidente, per quanto ogni persona onesta lo scorga di primo acchito, è la ricerca da parte delle forze del governo, in combutta con qualche partito politico, di un fatto che servisse loro a demolire il prestigio di un uomo o di un movimento, ostacolanti i loro piani politici. Se le nostre precedenti attività terroristiche lasciano supporre in noi una formazione mentale predisposta ad azioni del genere, abbiamo anche esplicato altre attività che dimostrano tutto il contrario: la nostra partecipazione a tutte le lotte sindacali, alle agitazioni e manifestazioni collettive e alla preparazione della rivoluzione. Nel marzo del 1921 la nostra volontà era galvanizzata non solo dal fatto particolare di Malatesta detenuto e in istato di rivolta con lo sciopero della fame, ma da tutto il fermento politico e sociale del momento di cui, si può dire, noi eravamo il prodotto e l’espressione. La coscienza nostra non era oscurata, ma non è immaginabile fuori da quel particolare ambiente. C’era in noi una volontà operante, che non era solo l’espressione del nostro carattere, ma era anche l’espressione di uno stato di esasperazione. Non sono gli uomini della nostra fede politica né della nostra concezione sociale che godono del male che possono fare ai proprii simili; la rivoluzione che auspichiamo e alla maturazione della quale diamo tutto, anche la vita, esclude che si colpisca a casaccio, facendo delle vittime innocenti. Qualche volta il voler impedire che sia minacciata la libertà e la vita di uno dei nostri può suggerire il ricorso alla forza contro la forza, ma mai una violenza fine a se stessa, per quanto la disperazione possa accecare. Se poi le circostanze, trascendendo volontà e propositi, fanno seminare la morte dove si vorrebbe la pace, non diremo la solita frase con la quale gli storici da strapazzo hanno sempre creduto di giustificare i delitti di tutti i tiranni: “ Fate il processo alla storia ”. Ma diremo invece, come nel suo interrogatorio ebbe a dire il mio povero compagno Aggugini : “ Noi piangiamo sulle vittime del Diana, mentre voi non piangete mai su tutte le vittime che il vostro sistema sociale semina tutti i giorni a migliaia”.
E se il coraggio delle nostre modeste autodifese e il fiero comportamento ci hanno fatto giudicare dai prezzolati giornalisti e dai benpensanti per dei cinici, oggi dico a loro quel che pensavo allora: il giorno che avrete il coraggio di riconoscervi degli uomini con tutto il vostro bene e tutto il vostro male come lo riconosciamo per noi, meriterete che si prendano in considerazione i vostri giudizi.

Tratto da: Giuseppe Mariani, Memorie di un ex-terrorista, Torino, 1953.

 

Il pianto
di mio padre
di Luce Fabbri

Ma quel che la polizia non ottenne direttamente, finì per ottenerlo indirettamente, creandone le condizioni necessarie: prolungò la prigionia di Malatesta, di Borghi e degli altri imputati, rimandando indefinitamente il processo, finché essi, non sopportando più un incarceramento così lungo ed immotivato, iniziarono uno sciopero della fame e ne osservarono le regole molto seriamente, chiedendo solo che si regolarizzasse la loro situazione col formulare esattamente l’accusa e con l’aprire il processo. Le autorità lasciarono che le cose andassero avanti, finché la salute di Malatesta si vide tanto compromessa da far temere il peggio. Fu allora che scoppiò una bomba nel teatro Diana, a Milano, con terribili conseguenze di strage (marzo 1921). Gli autori erano dei giovani anarchici individualisti, che volevano colpire il questore e, veramente, non sapevano quello che stavano facendo.
È l’unica volta che ho visto piangere mio padre. Scese la mattina dopo a comprare il giornale e lesse il titolo e le prime righe risalendo le scale. Rientrò con uno sguardo disperato, si buttò su una sedia e si coprì la faccia con le mani. Atterrita, vedevo le sue spalle sussultare.
Per parecchi mesi, gli fu difficile scrivere, non solo articoli, ma anche lettere. Eppure, più che mai, bisognava farlo. Pensava a come si doveva sentire Malatesta, così indebolito, in prigione e con l’incubo di quella tragedia orribile, ch’era il contrario di ciò ch’egli aveva sempre sostenuto e a cui il suo nome era in certo modo legato.
La sparizione momentanea di “Umanità Nova”, i cui uffici furono distrutti dai fascisti la stessa sera, produsse una breve pausa nel lavoro intenso che caratterizzò per mio padre quel periodo. Nello stato di depressione in cui era, non l’avrebbe potuto sostenere. Però fece quel che poté per cominciare pazientemente a ricostruire il movimento, che aveva ricevuto un colpo apparentemente mortale. Si mise al lavoro per documentare l’avversione di Malatesta agli attentati individuali, soprattutto a quelli che colpiscono nel mucchio. La rilettura di tanti testi dell’amico, per fame una scelta, gli fece bene certamente. Nei primi giorni, sotto l’impero della disperazione, redasse il comunicato della Commissione di Corrispondenza dell’UAI, che condannava recisamente l’attentato.

Tratto da: Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero, Pisa, BSF, 1996.

 

I processati del “Diana”
di Errico Malatesta

Da persona che ha conosciuto intimamente la famiglia Mariani, ricevo il seguente articolo, che giunge molto a proposito, nel momento in cui si apre il dibattimento del processo contro gli accusati della strage del “Diana”.
Io dirò, o piuttosto ripeterò, a sentenza pronunziata, quale è la mia opinione sulla violenza anarchica e più specialmente sugli attentati cosiddetti terroristi. Ma oggi non si tratta di discutere delle teorie e dei metodi di lotta; si tratta di difendere coloro che sono esposti a una vendetta, forse feroce, da parte di quegli stessi che sono la causa, i responsabili primi, dell’esempio lamentato.
I processati per l’attentato del “Diana” sono in massima parte completamente innocenti e la loro condanna sarebbe un delitto cento volte peggiore di quello che ad essi s’imputa, poiché fatto a sangue freddo, per odio cieco contro chi aspira ad una più umana convivenza sociale.
Ma ve ne sono alcuni la cui colpabilità sembra stabilita dalla loro confessione, ed è a questi pei quali forse non v’è da sperare nessuna simpatia da parte di giudici prevenuti e parziali per interessi e pregiudizi di classe, è a questi sventurati che bisogna rendere giustizia, giustizia almeno morale poiché siamo impotenti a fare di più.
Quei giovani errarono; ed il loro tragico errore produsse conseguenze funeste, opposte al fine che essi avevano in vista. Ma le loro vere intenzioni erano sante, poiché santa era la causa per la quale essi offrivano, olocausti volontari, la loro libertà e la loro vita. Ed oggi che in Italia, colla connivenza o colla tolleranza del governo e della magistratura, si uccidono i lavoratori a centinaia da gente vènale per la difesa di sordidi interessi, ogni uomo di cuore, ogni uomo onesto dovrebbe dirsi: Quelli del “Diana” uccisero, è vero, ma uccisero accecati da una nobile passione, e non già per mandato e per guadagnare dei quattrini.
Lo scritto che segue mostra chi è veramente il Mariani uno di quelli che l’accusa vorrà far passare per un mostro, e che probabilmente, per disdegno e disprezzo degli accusatori, non vorrà mostrarsi quale veramente egli è.
Dell’Aguggini, di cui sappiamo il candido entusiasmo e lo spirito d’illimitato sacrifizio, dirà, speriamo, qualcuno che più da vicino l’ha conosciuto.

Tratto da: Errico Malatesta, Pagine di lotta quotidiana v. 2°, Carrara,1975.

 

Come spiegarlo?
di Armando Borghi

A mezza mattina, sono scosso dallo sbatacchiare di chiavi e catenacci. Una guardia entra ed esce rapidamente, lasciando sul mio letto un giornale. La prostrazione mi rendeva lento il riflettere, ma finii per incuriosirmi. Alzai il capo, ed ecco Il Popolo d’Italia che portava su tutta la pagina a caratteri cubitali: “La strage anarchica al Diana”. I sottotitoli erano pieni di particolari macabri. Il Diana: il lettore sa già che io vi avevo passato una notte al mio ritorno dalla Russia. All’Albergo era annesso un teatro. Una bomba, esplosa durante una rappresentazione, aveva fatto una ventina di vittime – tutte innocenti.
Mi trascinai come potei verso la porta, bussai e domandai di parlare con Errico e Quaglino. La guardia mi disse che Errico chiedeva lo stesso. Ottenemmo di essere riuniti per discutere il da farsi. Quaglino ed io nella cella di Errico. Chiedemmo di restar soli. Non ci venne concesso, erano là Direttore, Capoguardia, Sottocapo e Cappellano. In loro presenza, in uno stato che ci faceva desiderare la morte, per quello che si sapeva e per quello che si ignorava, dovemmo esaminare il da farsi. Storditi ed affranti dal dolore, ci trovammo subito d’accordo che era intervenuto un elemento imprevisto e disastroso per noi: ogni movimento di solidarietà con noi nel paese sarebbe diventato impossibile, o sarebbe stato soffocato. C’era pericolo di altri attentati che aggraverebbero il disastro. Errico disse che innanzi a quel lutto e quella carneficina, la nostra causa era ridotta a zero, dovevamo cessare lo sciopero. Errico aveva ragione.
Il direttore fece il bel gesto di proporci di scrivere una dichiarazione per condannare l’attentato, lui l’avrebbe passata alla stampa. Troppa grazia. Fummo d’accordo nel domandare che ci fosse concesso subito un colloquio coi nostri avvocati. Avremmo caso mai consegnato a loro una dichiarazione. Non ci fu concesso, e la dichiarazione per conseguenza mancò.
In Italia nessuno osava più dire che ci aveva conosciuti. Chi avesse speso una parola per noi era in pericolo. La caccia dell’anarchico obbligò a darsi alla macchia i nostri più noti. Il terrore a Milano toccò lo zenit. Mussolini superò tutti nella ferocia. Insultò atrocemente il vecchio, da cui aveva mendicato un saluto, e che innocente ed ignaro di tutto, non poteva essere messo in causa.
Il giorno seguente alla bomba, venne scarcerato Corrado Quaglino. Scoprivano adesso che ne aveva diritto, perché “incensurato”. Errico ed io fummo passati in infermeria. Errico era assai malconcio; ma la sua frugalità, associata alle precauzioni che gli suggerivano le sue conoscenze di medicina, lo aiutarono, e per suo consiglio aiutarono anche me a superare la crisi.
Ogni comunicazione coll’esterno: visite, soccorso, avvocati, lettere, tutto soppresso. Non saprei descrivere e forse nemmeno rappresentare a me stesso l’atonia estrema, in cui eravamo caduti, il caos del nostro pensiero, gli enigmi, le incognite, le tenebre che tentavamo di penetrare, e non riuscivamo. Alle altre mie sofferenze si aggiungeva l’incertezza sulla sorte di Virgilia. I giornali avevano pubblicato che i locali dell’Unione sindacale erano stati distrutti. Che ne era stato di lei? Solo dopo qualche tempo, seppi che era in salvo.
E riecco Giulietti! Venne a visitare Errico all’infermeria. Io ero presente. La condotta di quello sciagurato fu vergognosa. Alla presenza delle autorità, ne disse di tutti i colori contro gli anarchici. Voleva si dimenticasse che era stato solidale con noi nello sciopero della fame. Parlava a suocera perché nuora intendesse. La sua fu la visita del panico.
A noi sembrava impossibile che quell’attentato fosse stato opera di anarchici. Rovinava la campagna così bene avviata a nostro favore. Sta però il fatto che esso fu opera di alcuni giovani, che militavano nell’anarchismo. Come spiegarlo?
Quando fummo liberati dal carcere e procurammo di capire quel che c’era dietro a quel fatto, ci fu assicurato da chi era in grado di informarci con conoscenza di causa, che la bomba non era affatto destinata al Diana. Era destinata a San Fedele, cioè alla questura centrale. Si voleva la pelle di Gasti. Gli attentatori erano già in Piazza del Duomo, a pochi passi da San Fedele. Proprio in quel momento, qualcuno – una donna? – li informò che Gasti non era a San Fedele, ma al Diana. Con quella terribile valigia per le mani, perdettero l’uso della ragione. E fu la strage.
Nota bene: nella grande Milano, cinque minuti dopo lo scoppio della bomba, le squadre fasciste attaccarono a ferro e fuoco simultaneamente tre sedi lontanissime l’una dall’altra: l’Avanti!, l’Unione Sindacale Italiana e la Umanità Nova. Tutto era pronto per l’ora giusta. Su questo particolare dei cinque minuti potei accertarmi in modo sicuro quando fui liberato dal carcere. Virgilia che era a Milano e che giusto per pochi minuti riuscì a mettersi in salvo, mi fornì gli elementi di questa certezza.

Tratto da: Armando Borghi, Vivere da anarchici, Bologna, Edizioni Alfa, 1966.

 

Le reazioni
del movimento
di Luigi Di Lembo

Qualche giorno dopo l’attentato, Malatesta e Borghi poterono finalmente incontrare i loro difensori (40). L’avvocato socialista Buffoni ebbe l’incarico di rendere nota la loro posizione sull’“Avanti!” del 1 ° aprile:

«I giornali parlano di attentato anarchico. Ebbene io ci tengo a dichiarare che quel triste fatto non può aver niente a che fare con le idee anarchiche [...]. Io ricorderò [...] le antiche e le recenti mie polemiche contro gli atti terroristici individuali, contro il ravasciolismo, contro il cosiddetto banditismo rosso, contro la propaganda col fatto. [...] Se coloro che hanno compiuto l’opera di distruzione e di sangue dovessero o volessero chiamarsi anarchici, restano pur sempre degli individui che non sanno cosa è l’anarchismo».

Buffoni trasmise a Fabbri anche la richiesta di Malatesta di documentare le sue affermazioni, cosa che Fabbri fece accuratamente sull’“Avanti!” del 3 aprile. Il primo comunicato della CDC dell’UAI del 27 marzo aveva più o meno anticipato quelle argomentazioni: in sostanza diceva che l’uso della violenza “quando è ciecamente impulsivo e brutale [...] avviene malgrado la propaganda anarchica e non per cagion sua” (41). Tra i militanti, la convinzione generale fu che l’attentato al Diana era opera di agenti provocatori; c’erano recenti esempi di tale presenza e soprattutto c’era la prontezza della reazione fascista e della scelta della pista anarchica da parte della polizia (42). Il 7 aprile “Il Libertario”, che era stato un po’ il padrino di “Umanità Nova”, comunicava ai lettori che sarebbe uscito due volte a settimana e che, in quei limiti, avrebbe fatto le veci del quotidiano. Il 20 pubblicava il manifesto Gli Anarchici di Umanità Nova al Proletariato, a firma della Redazione e già affisso a Milano qualche giorno prima. In realtà quel documento era stato scritto da due soli redattori, considerato che gli altri erano in galera o latitanti. Dà veramente la misura dello sgomento di parte del movimento in quel disastro che colpiva le radici umaniste dell’anarchismo e sembrava distruggere anni di propaganda.

«Voi non crederete, no, amici operai, al torrente di accuse che si riversano oggi sul nome degli anarchici! [diceva tra l’altro il manifesto] Voi sapete che non facciamo della retorica [...] se vi diciamo che daremmo tutto il nostro sangue perché l’eccidio, purtroppo irreparabile, non fosse avvenuto. [...] L’imprevisto eccidio di Milano a tutti insegna qualche cosa; è monito per tutti, anche per noi, [...] ci sprona ad una sempre maggiore umanità, nella lotta per raggiungere una civiltà superiore. Così l’intendessero, dall’altra sponda, i nemici della libertà e del proletariato! L’ora della vera pacificazione sarebbe raggiunta.»

Il documento fu fatto proprio dalla CdC dell’UAI che ne chiese la pubblicazione a tutti i giornali aderenti (43); tutt’altra posizione prese però Damiani, che della redazione di “Umanità Nova” era l’anima ma che non era stato consultato.

«Tengo a dichiarare [scrisse su “Il Libertario” del 23 aprile) che se interrogato in tempo mi sarei rifiutato di sottoscrivere quel [...] piagnisteo di perfetto sapore tolstoiano che, in quest’ora di tormenta, mi sembra anche un inutile atto di debolezza. [...] Scopriamoci di fronte ai poveri morti del Diana [...] ma non chiediamo ai fioretti di S. Francesco lo stile mellifluo per le omelie sulla pace sociale [...]. Il manifesto si rivolge al proletariato italiano scongiurandolo a non credere alle calunnie lanciate contro gli anarchici di “Umanità nova” dalla questura e dalla stampa [...] Lo strazio [...] non deve farci dimenticare che contro la violenza [di Stato e padroni], la quale non da oggi ci vieta la libertà di vivere la nostra vita, non da oggi affermammo la nostra volontà rivoluzionaria, la rivoluzione intera non soltanto come argomentazione accademica ma come opposizione di forza a forza, di violenza a violenza. [...] Basta di piagnistei.»

Ed era tempo: non solo i fascisti stavano colpendo ovunque, ma stava emergendo la verità (44). Il 17 aprile Bertoni, da Ginevra, su “Il Risveglio” aveva accennato per la prima volta alla possibilità che gli attentatori fossero veramente anarchici. Come abbiamo visto la Svizzera era il “santuario” degli anarchici d’azione milanesi. In realtà, la notte del 23 marzo erano entrati in azione Mariani, Boldrini e Aguggini. Questi, ed Elena Melli – che accudiva Malatesta da quando si era stabilito a Milano – avevano deciso in tutta segretezza di non limitarsi a un atto dimostrativo ma di eliminare la mente dell’operazione antianarchica, il questore Gasti che, a quanto risultava loro, alloggiava in una stanza dell’Hotel Diana. I tre uomini avevano sistemato una valigia di tritolo accanto a una saracinesca che si trovava sotto la stanza dell’hotel. Il guaio fu che Gasti da qualche tempo non abitava più lì e, soprattutto, che la saracinesca dava sull’adiacente caffè-teatro Diana. Questo era gremito di spettatori dell’operetta Mazurka Blu; di qui la strage (45). Quando uscì l’articolo di Bertoni, Gasti era già addosso a Mariani e sulle tracce degli altri due. Il 13 maggio riusciva a catturare Aguggini ma gli sfuggiva Boldrini che riparerà in Germania da dove riuscirà a estradarlo solo l’anno successivo. La scoperta dei veri autori che comunque non impedì alle autorità di mantenere il coinvolgimento degli altri arrestati, del tutto estranei all’attentato, ebbe gravi conseguenze per l’anarchismo italiano. Conseguenze, come aveva capito Damiani, non nei rapporti con il movimento operaio, impegnato ormai nei corpo a corpo coi fascisti, ma al suo stesso interno.

Tratto da: Luigi Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana, Pisa, BSF, 2001.




Note
40. Il 25 marzo 1921, finalmente il Tribunale di Milano processò Malatesta e gli altri 21 imputati, che furono tutti assolti dall’accusa di cospirazione. Malatesta, Borghi e Quaglino venivano però rinviati a nuovo giudizio per istigazioni variamente sovversive, insieme a Dante Pagliai, responsabile in quanto gerente di 43 articoli incriminati apparsi su “Umanità Nova”. Pagliai rimase a piede libero, Quaglino fu scarcerato, mentre Malatesta e Borghi restarono in carcere in attesa del nuovo giudizio.

41. “Il Libertario”, La Spezia 31 mar. 1921.

42. Attentato anarchico o attentato contro gli anarchici e l’anarchia? titolò “L’Avvenire anarchico” del 1° apr., Contro Umanità Nova il titolo de “Il Libertario” del 31 mar.; Complotto, quello dell’8 apr. del “Libero accordo”, il nuovo settimanale che Temistocle Monticelli pubblicava da gennaio a Roma. Cfr. anche “Pagine libertarie”, 28 giu. 1922, fascicolo doppio speciale sull’attentato al Diana, in occasione del processo, p. 270.

43. Cfr. il comunicato della CDC dell’UAI del 15 apr. 1921, in “Il Libertario”, 23 apr. 1921. Il Consiglio Generale dell’Unione si era riunito d’urgenza il 29 marzo. Il comunicato sui suoi lavori era apparso su “II Libertario”, 16 apr. 1921.

44. Tra l'altro, il 19 aprile i fascisti, a Pistoia, distruggevano la sede dell’“Iconoclasta!” che non poté più uscire. Il 5 maggio, a Pisa incendiarono la tipografia de “L’Avvenire anarchico” che invece riuscì a continuare le pubblicazioni fino a dicembre del 1922.

45. Cfr. V. Mantovani, Mazurka Blu, cit.