La strage del Diana
Quella di «bombaroli» è una fama che gi
anarchici si portano dietro da anni. E, a quanto pare, non del
tutto campata in aria se a darle voce ci sono stati anche dei
perfetti cretini, che in olimpica buona fede urlavano, nei cortei
studenteschi, a pieni polmoni e con parossistica convinzione:
«Bombe, sangue, anarchia». Questo prima del 12 dicembre 1969,
perché dopo Piazza Fontana, fortunatamente, si è smesso, almeno
per un bel po’, di gridare una tale scempiaggine; anche se,
puntuali come orologi svizzeri, ogni tanto si affacciano sulla
scena della cronaca, individui che si preoccupano di rinverdire
questa fama. Forse nel timore che venga finalmente accantonata
come uno stupido, vecchio luogo comune. Quale, in effetti è,
o almeno dovrebbe essere.
Comunque sia, questa nomea, che ci avviluppa come un tabarro,
al pari di quella di sognatori, di utopisti, di romantici cavalieri
dell’ideale, di figure tutte di un pezzo, di belve assetate
di sangue, di brava gente con la testa fra le nuvole, di individualisti
asociali, di sottoproletari ribelli, di piccolo borghesi, di
sorpassati mangiapreti, di residui ottocenteschi, di pacifisti
tolstoiani, ha una sua ragion d’essere. Infatti, una volta sfrondata
dalle foglie del pregiudizio e della superficialità, anch’essa,
come tutte le nomee, trae origine da una certa dose di verità.
E sarebbe da ipocriti ignorarlo o nasconderlo.
Il 23 marzo 1921 un gruppo di anarchici milanesi, convinto sulla
base di informazioni volutamente false, di poter colpire Gasti,
il questore di Milano, fa esplodere un potentissimo ordigno
all’esterno del teatro Diana. L’esplosione causa ventuno morti
e più di centocinquanta feriti, ma ad essa scampa l’obiettivo
principale. Gli autori del gesto, da tempo esasperati per la
ingiusta detenzione dei redattori del quotidiano Umanità
Nova, Borghi, Malatesta e Quaglino, vogliono richiamare
l’attenzione sulle condizioni di salute dei tre detenuti. Costoro,
infatti, nonostante l’avanzata età di Errico Malatesta, hanno
appena iniziato uno sciopero della fame ad oltranza, per protestare
contro le pretestuose lungaggini dei tempi processuali. Naturalmente,
invece di far nascere un qualsiasi moto di solidarietà nei confronti
del vecchio anarchico e dei suoi compagni di galera, il sanguinoso
attentato genera un profondo moto di orrore, che si riverbera
in nuove accuse e rinnovati, durissimi, attacchi a tutto il
movimento anarchico.
Nessuno degli scopi che gli attentatori si sono prefissi viene
raggiunto: la borghesia non si fa intimidire, ma diventa ancora
più determinata nel combattere «la canaglia rossa»; i fascisti
ne approfittano per compiere nuove e più selvagge azioni, quali
la distruzione delle sedi di Umanità Nova e L’Avanti!;
Malatesta e compagni restano in prigione, oppressi oltretutto
da quanto avvenuto in loro nome; centinaia di persone assolutamente
innocenti ci rimettono la pelle o l’integrità fisica; Gasti
si fa ancora più infame e potente; il movimento anarchico viene
isolato e sottoposto a feroci repressioni; l’ideale solidario
ed emancipatore dell’anarchismo risulta offuscato, per l’ennesima
volta, dalla sanguinosità di un atroce delitto commesso in suo
nome. E un gruppo di bravi e generosi compagni disperde le proprie
energie e la propria vita nelle patrie galere. Degli esecutori
materiali, Giuseppe Mariani e Giuseppe Boldrini sono condannati
all’ergastolo, mentre Ettore Aguggini si busca 30 anni di galera.
Numerosi altri anarchici, pur estranei all’attentato, subiscono
pesanti condanne che vanno dai 5 ai 18 anni.
Di quanti furono coinvolti nella «faccenda del Diana», l’unico
che ne ha scritto è Giuseppe Mariani. Nel 1953 ha infatti pubblicato
un primo libro, Memorie di un ex-terrorista, seguito,
l’anno successivo, da Nel mondo degli ergastoli, due
testi autobiografici nei quali l’autore narra, con prosa asciutta
ed essenziale, la sua drammatica esperienza, le vicende che
precedettero l’attentato e il lungo periodo di detenzione che
ne seguì. Sono testi scarni, privi di quei frequenti atteggiamenti
letterari o filosofici che ci potremmo aspettare da un individuo
costretto, per evidenti cause di forza maggiore, a isolate riflessioni
autoreferenziali e che avrebbe potuto rimuovere, nell’isolamento
del penitenziario, le proprie responsabilità. Colpisce, invece,
come in quelle pagine, così cariche della tragedia che ne ha
distrutto l’esistenza, non ci sia una sua parola, una sua sola
parola a giustificazione di quanto commesso. Del resto Peppino
Mariani, che ho avuto la fortuna di conoscere nei primi anni
settanta a Imola, ospite con la sua compagna Susi a casa di
Cesare Fuochi, non ha mai avuto una parola di rivendicazione
del suo gesto, anche se il dirla, forse, avrebbe potuto lenire
in parte l’enorme peso delle sue responsabilità. Evidentemente
i 27 anni trascorsi in galera, spesi nello studio e nella riflessione,
avevano profondamente cambiato l’uomo, e il suo anarchismo,
rimasto integro come negli anni della giovinezza, si era maturato
nel rifiuto di ogni forma di gratuita violenza.
Peppino Mariani fu graziato nel 1948, dietro l’interessamento
del suo ex compagno di detenzione, e futuro presidente della
Repubblica, Sandro Pertini. Trasferitosi a Sestri Levante, vi
aprì una libreria, che gli permise di vivere, poveramente ma
con grande dignità, fino al 1974, anno in cui si spense.
Naturalmente sul Diana si è scritto molto. Parecchi furono gli
anarchici che intervennero sul momento o che ricostruirono,
negli anni successivi, quei terribili frangenti, come numerosi
sono gli storici che hanno inquadrato «il Diana» nella eccezionale
temperie storica del Biennio rosso. Qui riporto tre testimonianze
dirette particolarmente significative, vale a dire quella di
Armando Borghi (A. Borghi, Vivere da anarchici, Bologna,
Alfa Editoriale, 1966) quando apprende la notizia a San Vittore,
quella di Luce Fabbri (L. Fabbri, Luigi Fabbri, storia di
un uomo libero, Pisa, BFS, 1996) che rievoca lo sconforto,
ma anche la pronta reazione del padre, quella di Errico Malatesta
(E. Malatesta, Scritti scelti, vol. II, Carrara, Movimento
Anarchico Italiano, 1975) che, in occasione dell’apertura del
processo agli attentatori, scrive su Umanità Nova pagine
di grande umanità. Per una ricostruzione più ampia dell’attentato,
ho scelto le recentissime pagine di Gigi Di Lembo (L. Di Lembo,
Guerra di Classe e Lotta Umana, Pisa, BFS, 2001) che
riescono a rendere con perfetta sinteticità l’insieme di cause
e concause che concorsero all’organizzazione dell’attentato
e le conseguenze che ne sortirono. Per chi volesse approfondire
l’argomento, rimando al magistrale libro di Vincenzo Mantovani
(V. Mantovani, Mazurka Blu. La strage del Diana, Milano,
Rusconi, 1979), meritoriamente ristampato in questi giorni dalle
Edizioni Samizdat di Pescara.
Massimo Ortalli
Non godiamo
del male
di Giuseppe Mariani
Altri fatti che la storia ignora sulla preparazione ed esecuzione
della bomba al Diana voglio ora non passare sotto silenzio in
quanto che credo ormai giunto il momento di fare intorno a quell’atto
un po’ di luce, onde sfatare tutte le sciocchezze che su di
noi e su di me in particolare, furono dette e ritenute vere.
Prima però di scendere nei particolari di quel tragico fatto
ritengo necessario dire subito, anche se nelle spiegazioni successive
risulterà maggiormente evidente, che senza l’arbitraria e prolungata
detenzione in carcere di Errico Malatesta, l’attentato non solo
non sarebbe mai stato fatto, ma neppur pensato.
Quello, forse, che non risulterà a tutti egualmente evidente,
per quanto ogni persona onesta lo scorga di primo acchito, è
la ricerca da parte delle forze del governo, in combutta con
qualche partito politico, di un fatto che servisse loro a demolire
il prestigio di un uomo o di un movimento, ostacolanti i loro
piani politici. Se le nostre precedenti attività terroristiche
lasciano supporre in noi una formazione mentale predisposta
ad azioni del genere, abbiamo anche esplicato altre attività
che dimostrano tutto il contrario: la nostra partecipazione
a tutte le lotte sindacali, alle agitazioni e manifestazioni
collettive e alla preparazione della rivoluzione. Nel marzo
del 1921 la nostra volontà era galvanizzata non solo dal fatto
particolare di Malatesta detenuto e in istato di rivolta con
lo sciopero della fame, ma da tutto il fermento politico e sociale
del momento di cui, si può dire, noi eravamo il prodotto e l’espressione.
La coscienza nostra non era oscurata, ma non è immaginabile
fuori da quel particolare ambiente. C’era in noi una volontà
operante, che non era solo l’espressione del nostro carattere,
ma era anche l’espressione di uno stato di esasperazione. Non
sono gli uomini della nostra fede politica né della nostra
concezione sociale che godono del male che possono fare ai proprii
simili; la rivoluzione che auspichiamo e alla maturazione della
quale diamo tutto, anche la vita, esclude che si colpisca a
casaccio, facendo delle vittime innocenti. Qualche volta il
voler impedire che sia minacciata la libertà e la vita di uno
dei nostri può suggerire il ricorso alla forza contro la forza,
ma mai una violenza fine a se stessa, per quanto la disperazione
possa accecare. Se poi le circostanze, trascendendo volontà
e propositi, fanno seminare la morte dove si vorrebbe la pace,
non diremo la solita frase con la quale gli storici da strapazzo
hanno sempre creduto di giustificare i delitti di tutti i tiranni:
“ Fate il processo alla storia ”. Ma diremo invece, come nel
suo interrogatorio ebbe a dire il mio povero compagno Aggugini
: “ Noi piangiamo sulle vittime del Diana, mentre voi non piangete
mai su tutte le vittime che il vostro sistema sociale semina
tutti i giorni a migliaia”.
E se il coraggio delle nostre modeste autodifese e il fiero
comportamento ci hanno fatto giudicare dai prezzolati giornalisti
e dai benpensanti per dei cinici, oggi dico a loro quel che
pensavo allora: il giorno che avrete il coraggio di riconoscervi
degli uomini con tutto il vostro bene e tutto il vostro male
come lo riconosciamo per noi, meriterete che si prendano in
considerazione i vostri giudizi.
Tratto da: Giuseppe Mariani, Memorie di un ex-terrorista,
Torino, 1953.
Il pianto
di mio padre
di Luce Fabbri
Ma quel che la polizia non ottenne direttamente, finì per ottenerlo
indirettamente, creandone le condizioni necessarie: prolungò
la prigionia di Malatesta, di Borghi e degli altri imputati,
rimandando indefinitamente il processo, finché essi, non sopportando
più un incarceramento così lungo ed immotivato, iniziarono uno
sciopero della fame e ne osservarono le regole molto seriamente,
chiedendo solo che si regolarizzasse la loro situazione col
formulare esattamente l’accusa e con l’aprire il processo. Le
autorità lasciarono che le cose andassero avanti, finché la
salute di Malatesta si vide tanto compromessa da far temere
il peggio. Fu allora che scoppiò una bomba nel teatro Diana,
a Milano, con terribili conseguenze di strage (marzo 1921).
Gli autori erano dei giovani anarchici individualisti, che volevano
colpire il questore e, veramente, non sapevano quello che stavano
facendo.
È l’unica volta che ho visto piangere mio padre. Scese la mattina
dopo a comprare il giornale e lesse il titolo e le prime righe
risalendo le scale. Rientrò con uno sguardo disperato, si buttò
su una sedia e si coprì la faccia con le mani. Atterrita, vedevo
le sue spalle sussultare.
Per parecchi mesi, gli fu difficile scrivere, non solo articoli,
ma anche lettere. Eppure, più che mai, bisognava farlo. Pensava
a come si doveva sentire Malatesta, così indebolito, in prigione
e con l’incubo di quella tragedia orribile, ch’era il contrario
di ciò ch’egli aveva sempre sostenuto e a cui il suo nome era
in certo modo legato.
La sparizione momentanea di “Umanità Nova”, i cui uffici furono
distrutti dai fascisti la stessa sera, produsse una breve pausa
nel lavoro intenso che caratterizzò per mio padre quel periodo.
Nello stato di depressione in cui era, non l’avrebbe potuto
sostenere. Però fece quel che poté per cominciare pazientemente
a ricostruire il movimento, che aveva ricevuto un colpo apparentemente
mortale. Si mise al lavoro per documentare l’avversione di Malatesta
agli attentati individuali, soprattutto a quelli che colpiscono
nel mucchio. La rilettura di tanti testi dell’amico, per fame
una scelta, gli fece bene certamente. Nei primi giorni, sotto
l’impero della disperazione, redasse il comunicato della Commissione
di Corrispondenza dell’UAI, che condannava recisamente l’attentato.
Tratto da: Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero,
Pisa, BSF, 1996.
I processati
del “Diana”
di Errico Malatesta
Da persona che ha conosciuto intimamente la famiglia
Mariani, ricevo il seguente articolo, che giunge molto a proposito,
nel momento in cui si apre il dibattimento del processo contro
gli accusati della strage del “Diana”.
Io dirò, o piuttosto ripeterò, a sentenza pronunziata, quale
è la mia opinione sulla violenza anarchica e più specialmente
sugli attentati cosiddetti terroristi. Ma oggi non si tratta
di discutere delle teorie e dei metodi di lotta; si tratta di
difendere coloro che sono esposti a una vendetta, forse feroce,
da parte di quegli stessi che sono la causa, i responsabili
primi, dell’esempio lamentato.
I processati per l’attentato del “Diana” sono in massima parte
completamente innocenti e la loro condanna sarebbe un delitto
cento volte peggiore di quello che ad essi s’imputa, poiché
fatto a sangue freddo, per odio cieco contro chi aspira ad una
più umana convivenza sociale.
Ma ve ne sono alcuni la cui colpabilità sembra stabilita dalla
loro confessione, ed è a questi pei quali forse non v’è da sperare
nessuna simpatia da parte di giudici prevenuti e parziali per
interessi e pregiudizi di classe, è a questi sventurati che
bisogna rendere giustizia, giustizia almeno morale poiché siamo
impotenti a fare di più.
Quei giovani errarono; ed il loro tragico errore produsse conseguenze
funeste, opposte al fine che essi avevano in vista. Ma le loro
vere intenzioni erano sante, poiché santa era la causa per la
quale essi offrivano, olocausti volontari, la loro libertà e
la loro vita. Ed oggi che in Italia, colla connivenza o colla
tolleranza del governo e della magistratura, si uccidono i lavoratori
a centinaia da gente vènale per la difesa di sordidi interessi,
ogni uomo di cuore, ogni uomo onesto dovrebbe dirsi: Quelli
del “Diana” uccisero, è vero, ma uccisero accecati da una nobile
passione, e non già per mandato e per guadagnare dei quattrini.
Lo scritto che segue mostra chi è veramente il Mariani uno di
quelli che l’accusa vorrà far passare per un mostro, e che probabilmente,
per disdegno e disprezzo degli accusatori, non vorrà mostrarsi
quale veramente egli è.
Dell’Aguggini, di cui sappiamo il candido entusiasmo e lo spirito
d’illimitato sacrifizio, dirà, speriamo, qualcuno che più da
vicino l’ha conosciuto.
Tratto da: Errico Malatesta, Pagine di lotta quotidiana
v. 2°, Carrara,1975.
Come spiegarlo?
di Armando Borghi
A mezza mattina, sono scosso dallo sbatacchiare
di chiavi e catenacci. Una guardia entra ed esce rapidamente,
lasciando sul mio letto un giornale. La prostrazione mi rendeva
lento il riflettere, ma finii per incuriosirmi. Alzai il capo,
ed ecco Il Popolo d’Italia che portava su tutta la pagina
a caratteri cubitali: “La strage anarchica al Diana”. I sottotitoli
erano pieni di particolari macabri. Il Diana: il lettore sa
già che io vi avevo passato una notte al mio ritorno dalla Russia.
All’Albergo era annesso un teatro. Una bomba, esplosa durante
una rappresentazione, aveva fatto una ventina di vittime
tutte innocenti.
Mi trascinai come potei verso la porta, bussai e domandai di
parlare con Errico e Quaglino. La guardia mi disse che Errico
chiedeva lo stesso. Ottenemmo di essere riuniti per discutere
il da farsi. Quaglino ed io nella cella di Errico. Chiedemmo
di restar soli. Non ci venne concesso, erano là Direttore, Capoguardia,
Sottocapo e Cappellano. In loro presenza, in uno stato che ci
faceva desiderare la morte, per quello che si sapeva e per quello
che si ignorava, dovemmo esaminare il da farsi. Storditi ed
affranti dal dolore, ci trovammo subito d’accordo che era intervenuto
un elemento imprevisto e disastroso per noi: ogni movimento
di solidarietà con noi nel paese sarebbe diventato impossibile,
o sarebbe stato soffocato. C’era pericolo di altri attentati
che aggraverebbero il disastro. Errico disse che innanzi a quel
lutto e quella carneficina, la nostra causa era ridotta a zero,
dovevamo cessare lo sciopero. Errico aveva ragione.
Il direttore fece il bel gesto di proporci di scrivere una dichiarazione
per condannare l’attentato, lui l’avrebbe passata alla stampa.
Troppa grazia. Fummo d’accordo nel domandare che ci fosse concesso
subito un colloquio coi nostri avvocati. Avremmo caso mai consegnato
a loro una dichiarazione. Non ci fu concesso, e la dichiarazione
per conseguenza mancò.
In Italia nessuno osava più dire che ci aveva conosciuti. Chi
avesse speso una parola per noi era in pericolo. La caccia dell’anarchico
obbligò a darsi alla macchia i nostri più noti. Il terrore a
Milano toccò lo zenit. Mussolini superò tutti nella ferocia.
Insultò atrocemente il vecchio, da cui aveva mendicato un saluto,
e che innocente ed ignaro di tutto, non poteva essere messo
in causa.
Il giorno seguente alla bomba, venne scarcerato Corrado Quaglino.
Scoprivano adesso che ne aveva diritto, perché “incensurato”.
Errico ed io fummo passati in infermeria. Errico era assai malconcio;
ma la sua frugalità, associata alle precauzioni che gli suggerivano
le sue conoscenze di medicina, lo aiutarono, e per suo consiglio
aiutarono anche me a superare la crisi.
Ogni comunicazione coll’esterno: visite, soccorso, avvocati,
lettere, tutto soppresso. Non saprei descrivere e forse nemmeno
rappresentare a me stesso l’atonia estrema, in cui eravamo caduti,
il caos del nostro pensiero, gli enigmi, le incognite, le tenebre
che tentavamo di penetrare, e non riuscivamo. Alle altre mie
sofferenze si aggiungeva l’incertezza sulla sorte di Virgilia.
I giornali avevano pubblicato che i locali dell’Unione sindacale
erano stati distrutti. Che ne era stato di lei? Solo dopo qualche
tempo, seppi che era in salvo.
E riecco Giulietti! Venne a visitare Errico all’infermeria.
Io ero presente. La condotta di quello sciagurato fu vergognosa.
Alla presenza delle autorità, ne disse di tutti i colori contro
gli anarchici. Voleva si dimenticasse che era stato solidale
con noi nello sciopero della fame. Parlava a suocera perché
nuora intendesse. La sua fu la visita del panico.
A noi sembrava impossibile che quell’attentato fosse stato opera
di anarchici. Rovinava la campagna così bene avviata a nostro
favore. Sta però il fatto che esso fu opera di alcuni giovani,
che militavano nell’anarchismo. Come spiegarlo?
Quando fummo liberati dal carcere e procurammo di capire quel
che c’era dietro a quel fatto, ci fu assicurato da chi era in
grado di informarci con conoscenza di causa, che la bomba
non era affatto destinata al Diana. Era destinata a San
Fedele, cioè alla questura centrale. Si voleva la pelle di Gasti.
Gli attentatori erano già in Piazza del Duomo, a pochi passi
da San Fedele. Proprio in quel momento, qualcuno una
donna? li informò che Gasti non era a San Fedele, ma
al Diana. Con quella terribile valigia per le mani, perdettero
l’uso della ragione. E fu la strage.
Nota bene: nella grande Milano, cinque minuti dopo lo
scoppio della bomba, le squadre fasciste attaccarono a ferro
e fuoco simultaneamente tre sedi lontanissime l’una dall’altra:
l’Avanti!, l’Unione Sindacale Italiana e la Umanità
Nova. Tutto era pronto per l’ora giusta. Su questo particolare
dei cinque minuti potei accertarmi in modo sicuro quando fui
liberato dal carcere. Virgilia che era a Milano e che giusto
per pochi minuti riuscì a mettersi in salvo, mi fornì gli elementi
di questa certezza.
Tratto da: Armando Borghi, Vivere da anarchici, Bologna,
Edizioni Alfa, 1966.
Le reazioni
del movimento
di Luigi Di Lembo
Qualche giorno dopo l’attentato, Malatesta e Borghi
poterono finalmente incontrare i loro difensori (40). L’avvocato
socialista Buffoni ebbe l’incarico di rendere nota la loro posizione
sull’“Avanti!” del 1 ° aprile:
«I giornali parlano di attentato anarchico. Ebbene io
ci tengo a dichiarare che quel triste fatto non può aver niente
a che fare con le idee anarchiche [...]. Io ricorderò [...]
le antiche e le recenti mie polemiche contro gli atti terroristici
individuali, contro il ravasciolismo, contro il cosiddetto banditismo
rosso, contro la propaganda col fatto. [...] Se coloro che hanno
compiuto l’opera di distruzione e di sangue dovessero o volessero
chiamarsi anarchici, restano pur sempre degli individui che
non sanno cosa è l’anarchismo».
Buffoni trasmise a Fabbri anche la richiesta di Malatesta di
documentare le sue affermazioni, cosa che Fabbri fece accuratamente
sull’“Avanti!” del 3 aprile. Il primo comunicato della CDC dell’UAI
del 27 marzo aveva più o meno anticipato quelle argomentazioni:
in sostanza diceva che l’uso della violenza “quando è ciecamente
impulsivo e brutale [...] avviene malgrado la propaganda anarchica
e non per cagion sua” (41). Tra i militanti, la convinzione
generale fu che l’attentato al Diana era opera di agenti provocatori;
c’erano recenti esempi di tale presenza e soprattutto c’era
la prontezza della reazione fascista e della scelta della pista
anarchica da parte della polizia (42). Il 7 aprile “Il Libertario”,
che era stato un po’ il padrino di “Umanità Nova”, comunicava
ai lettori che sarebbe uscito due volte a settimana e che, in
quei limiti, avrebbe fatto le veci del quotidiano. Il 20 pubblicava
il manifesto Gli Anarchici di Umanità Nova al Proletariato,
a firma della Redazione e già affisso a Milano qualche giorno
prima. In realtà quel documento era stato scritto da due soli
redattori, considerato che gli altri erano in galera o latitanti.
Dà veramente la misura dello sgomento di parte del movimento
in quel disastro che colpiva le radici umaniste dell’anarchismo
e sembrava distruggere anni di propaganda.
«Voi non crederete, no, amici operai, al torrente di accuse
che si riversano oggi sul nome degli anarchici! [diceva tra
l’altro il manifesto] Voi sapete che non facciamo della retorica
[...] se vi diciamo che daremmo tutto il nostro sangue perché
l’eccidio, purtroppo irreparabile, non fosse avvenuto. [...]
L’imprevisto eccidio di Milano a tutti insegna qualche cosa;
è monito per tutti, anche per noi, [...] ci sprona ad una sempre
maggiore umanità, nella lotta per raggiungere una civiltà superiore.
Così l’intendessero, dall’altra sponda, i nemici della libertà
e del proletariato! L’ora della vera pacificazione sarebbe raggiunta.»
Il documento fu fatto proprio dalla CdC dell’UAI che ne chiese
la pubblicazione a tutti i giornali aderenti (43); tutt’altra
posizione prese però Damiani, che della redazione di “Umanità
Nova” era l’anima ma che non era stato consultato.
«Tengo a dichiarare [scrisse su “Il Libertario” del 23
aprile) che se interrogato in tempo mi sarei rifiutato di sottoscrivere
quel [...] piagnisteo di perfetto sapore tolstoiano che, in
quest’ora di tormenta, mi sembra anche un inutile atto di debolezza.
[...] Scopriamoci di fronte ai poveri morti del Diana [...]
ma non chiediamo ai fioretti di S. Francesco lo stile mellifluo
per le omelie sulla pace sociale [...]. Il manifesto si rivolge
al proletariato italiano scongiurandolo a non credere alle calunnie
lanciate contro gli anarchici di “Umanità nova” dalla questura
e dalla stampa [...] Lo strazio [...] non deve farci dimenticare
che contro la violenza [di Stato e padroni], la quale non da
oggi ci vieta la libertà di vivere la nostra vita, non da oggi
affermammo la nostra volontà rivoluzionaria, la rivoluzione
intera non soltanto come argomentazione accademica ma come opposizione
di forza a forza, di violenza a violenza. [...] Basta di piagnistei.»
Ed era tempo: non solo i fascisti stavano colpendo ovunque,
ma stava emergendo la verità (44). Il 17 aprile Bertoni, da
Ginevra, su “Il Risveglio” aveva accennato per la prima volta
alla possibilità che gli attentatori fossero veramente anarchici.
Come abbiamo visto la Svizzera era il “santuario” degli anarchici
d’azione milanesi. In realtà, la notte del 23 marzo erano entrati
in azione Mariani, Boldrini e Aguggini. Questi, ed Elena Melli
– che accudiva Malatesta da quando si era stabilito a Milano
– avevano deciso in tutta segretezza di non limitarsi a un atto
dimostrativo ma di eliminare la mente dell’operazione antianarchica,
il questore Gasti che, a quanto risultava loro, alloggiava in
una stanza dell’Hotel Diana. I tre uomini avevano sistemato
una valigia di tritolo accanto a una saracinesca che si trovava
sotto la stanza dell’hotel. Il guaio fu che Gasti da qualche
tempo non abitava più lì e, soprattutto, che la saracinesca
dava sull’adiacente caffè-teatro Diana. Questo era gremito di
spettatori dell’operetta Mazurka Blu; di qui la strage
(45). Quando uscì l’articolo di Bertoni, Gasti era già addosso
a Mariani e sulle tracce degli altri due. Il 13 maggio riusciva
a catturare Aguggini ma gli sfuggiva Boldrini che riparerà in
Germania da dove riuscirà a estradarlo solo l’anno successivo.
La scoperta dei veri autori che comunque non impedì alle autorità
di mantenere il coinvolgimento degli altri arrestati, del tutto
estranei all’attentato, ebbe gravi conseguenze per l’anarchismo
italiano. Conseguenze, come aveva capito Damiani, non nei rapporti
con il movimento operaio, impegnato ormai nei corpo a corpo
coi fascisti, ma al suo stesso interno.
Tratto da: Luigi Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana,
Pisa, BSF, 2001.
Note
40. Il 25 marzo 1921, finalmente il Tribunale di Milano processò
Malatesta e gli altri 21 imputati, che furono tutti assolti
dall’accusa di cospirazione. Malatesta, Borghi e Quaglino venivano
però rinviati a nuovo giudizio per istigazioni variamente sovversive,
insieme a Dante Pagliai, responsabile in quanto gerente di 43
articoli incriminati apparsi su “Umanità Nova”. Pagliai rimase
a piede libero, Quaglino fu scarcerato, mentre Malatesta e Borghi
restarono in carcere in attesa del nuovo giudizio.
41. “Il Libertario”, La Spezia 31 mar. 1921.
42. Attentato anarchico o attentato contro gli anarchici
e l’anarchia? titolò “L’Avvenire anarchico” del 1° apr.,
Contro Umanità Nova il titolo de “Il Libertario” del
31 mar.; Complotto, quello dell’8 apr. del “Libero accordo”,
il nuovo settimanale che Temistocle Monticelli pubblicava da
gennaio a Roma. Cfr. anche “Pagine libertarie”, 28 giu. 1922,
fascicolo doppio speciale sull’attentato al Diana, in occasione
del processo, p. 270.
43. Cfr. il comunicato della CDC dell’UAI del 15 apr. 1921,
in “Il Libertario”, 23 apr. 1921. Il Consiglio Generale dell’Unione
si era riunito d’urgenza il 29 marzo. Il comunicato sui suoi
lavori era apparso su “II Libertario”, 16 apr. 1921.
44. Tra l'altro, il 19 aprile i fascisti, a Pistoia, distruggevano
la sede dell“Iconoclasta!” che non poté più uscire. Il
5 maggio, a Pisa incendiarono la tipografia de “LAvvenire
anarchico” che invece riuscì a continuare le pubblicazioni fino
a dicembre del 1922.
45. Cfr. V. Mantovani, Mazurka Blu, cit.
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