rivista anarchica
anno 32 n. 279
marzo 2002


Volantone

Riscaldamento globale e controllo sociale
a cura di Adriano Paolella e Zelinda Carloni

Globalizzazione.
Idee per capire, vivere e opporsi al nuovo modello di profitto.

Il riscaldamento globale

La temperatura del pianeta continua ad aumentare.
Negli ultimi 140 anni la temperatura media della superficie terrestre ha subito un innalzamento medio globale di 0,6°C, con il maggior incremento di circa lo 0,2°C per l’ultimo decennio.
Il 1998 è stato l’anno più caldo rilevato nella storia e i dieci anni più caldi negli ultimi 120 sono tutti successivi al 1981, tra di essi sei sono successivi al 1990.
Dal 1948 al 1998 la temperatura degli oceani è aumentata di 0,31°C fino ai 300 metri di profondità e di 0,06°C fino ai 3000 metri.
Il cambiamento delle temperature non è uniforme; le aree che hanno subito la massima variazione sono state quelle terrestri (che si riscaldano più velocemente di quelle marine) e quelle situate tra i 40°N e i 70°N.
In Italia la temperatura è aumentata negli ultimi 100 anni di 0,7°C al nord e di 0,9°C al sud.
Queste variazioni delle temperature, che a livello assoluto sembrano di ridotta entità, in realtà comportano effetti sconvolgenti sui sistemi naturali che hanno possibilità di esistere in ambiti di variazione molto ridotti. Il pianeta vive in uno spessore di pochi chilometri, tra le profondità dei mari e la parte alta dell’atmosfera, ed è biologicamente attivo in maniera significativa in una pellicola spessa, nel mare, poche decine di metri e sulla terra poche decine di centimetri.
Questa pellicola può esistere solo se le temperature ed il loro andamento giornaliero e stagionale rimangono molto simili a quelle attuali: la loro modificazione anche di pochi decimi di grado ne comporta prima la modificazione e poi la scomparsa.
Le registrate variazioni delle temperature hanno modificato la quantità e l’andamento dei venti, della nuvolosità e delle precipitazioni. Interi habitat si sono modificati e solo in alcuni casi potranno essere sostituiti da sistemi naturali maggiormente adatti alle condizioni createsi.
La velocità dei cambiamenti rende, infatti, traumatica e spesso impossibile l’evoluzione degli ecosistemi, favorendo situazioni di degrado diffuso dei suoli superficiali, erosioni, perdita del terreno vegetale, desertificazione, con una situazione particolarmente grave per gli ecosistemi in condizioni già limite.
Le modificazioni delle temperature avranno effetti anche sull’assetto sociale del pianeta. Ad esempio, già si sta modificando la localizzazione e la produttività delle aree agricole: dove storicamente si praticava l’agricoltura, e dunque in massima parte dove si è concentrata la popolazione mondiale, è già in atto una riduzione della produttività; dove non vi sono popolazioni insediate (aree maggiormente prossime al circolo polare artico) stanno aumentano le potenzialità agricole a seguito del manifestarsi di situazioni climatiche più favorevoli.
E come se si stesse riazzerando un gioco: nello sfruttamento delle risorse si riducono i vincoli derivanti dalle abitudini consolidate, dalla gestione diretta della produzione da parte delle comunità, dalla richiesta e conflittualità sociale.
Un incubo di pioggia, fango, siccità, calore, che interesserà buona metà del territorio planetario, creerà un’emergenza in cui le società saranno costrette a soffrire e cambiare (quando potranno), e questo incubo renderà possibile l’accrescersi e il consolidarsi di nuovi interessi non condivisi, privati, di mercato.
Tutto ciò non deve essere pensato come uno scenario futuro: è già in essere. Tra le innumerevoli situazioni possibili si cita solamente l’aumento del fenomeno dell’acqua alta a Venezia, che è direttamente connesso all’innalzamento del livello del mare, e che manda sott’acqua parti sempre più estese della città, per un tempo sempre più lungo, per una frequenza annuale sempre maggiore.
La risoluzione di questa nuova situazione climatica è molto impegnativa da risolvere, perché comporterebbe il cambiamento dell’intero sistema produttivo, di mercato, insediativo. Ed è ulteriormente difficile perché se anche oggi, subito, ora, si cambiasse il modello subiremmo gli effetti di quanto già fatto per almeno altri cento anni prima di stabilizzare, modificate, le condizioni del pianeta.

Alcune conseguenze già riscontrabili

Il diverso riscaldamento, delle diversi latitudini e delle aree marine rispetto a quelle terrestri, ha comportato una modificazione dell’intero sistema meteo climatico del pianeta. Vi sono zone in cui le precipitazioni sono aumentate (settentrione degli Stati Uniti +10-15%, Europa settentrionale) e zone in cui sono diminuite (Europa del sud, Sahel, Africa occidentale).
A partire dal 1950 l’atmosfera che sovrasta gli oceani è diventata più nuvolosa ed all’altezza dei tropici vi è stato un aumento dei temporali; sulle regioni tropicali e sub-tropicali dell’Africa e dell’Indonesia le piogge sono diminuite già dagli anni sessanta.
Vi è stato un incremento della percentuale delle precipitazioni durante forti nubifragi (il 10% del totale delle precipitazioni nel 1997 contro l’8% dell’inizio secolo).
La maggior parte dei disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici è causata da comportamenti ecologicamente distruttivi e da scelte politiche pericolose che interessano maggiormente i paesi più disagiati e sottosviluppati. L’Asia è il continente più colpito: le catastrofi per eventi climatici hanno provocato il 77% del totale delle perdite di vite umane, il 90% delle persone rimaste senza casa e il 45% dei danni economici.
Negli ultimi cinquant’anni eventi denominati come “grandi catastrofi naturali” hanno conosciuto un aumento vertiginoso passando dalle 20 “grandi” catastrofi degli anni ’50, alle 47 degli anni ’70, alle 86 degli anni ’90.
Nel biennio 1998-99 ci sono stati oltre 120.000 morti legati ad eventi meteoclimatici eccezionali, e milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni in seguito a calamità naturali. Negli ultimi vent’anni quasi 1,5 Mld di persone sono state colpite da alluvioni, tempeste di vento, frane.
Tale aumento è attribuibile, oltre che alla variazione dei fattori meteorologici, anche ad una gestione errata del territorio. Ad esempio, le alluvioni causate dallo Yangtze nel 1998 hanno provocato più di 4.000 vittime, colpito 223 milioni di persone, inondato 25 milioni di ettari di terre coltivate, causato danni per oltre 36 miliardi di dollari. A parte l’eccezionalità delle precipitazioni, un fattore che ha determinato la portata catastrofica dell’evento è costituito dalla massiccia opera di deforestazione degli argini collinari attuata nei decenni precedenti (prima del disastro il bacino dello Yangtze aveva visto scomparire l’85% della sua copertura forestale). La scomparsa delle foreste, che normalmente fanno da scudo alle piogge consentendo alla terra di assorbirle, lasciò scorrere le acque che trascinarono gli strati superficiali del terreno: la massa di fango precipitò a valle attraversando zone ormai completamente spoglie.
Il taglio delle foreste rende i fenomeni di siccità più gravi anche negli anni piovosi, poiché favorisce il processo di inaridimento del terreno; sono stati eventi di questo genere ad alimentare i violentissimi incendi che nel ‘97-’98 devastarono Indonesia e Brasile.
Circa 20 ml di kmq, pari al 15% della superficie emersa del pianeta, sono già affetti da qualche grado di desertificazione (i deserti coprono attualmente il 30% della superficie emersa).
Il livello del mare si è innalzato di circa 10-12 cm negli ultimi 100 anni. L’aumento della temperatura del mare aumenta il volume dello strato delle acque superficiali (circa 1 cm per ogni 0,1°C, quindi a 0,6°C di aumento corrispondono 6 cm) cui si aggiungono 2-5 cm derivati dallo scioglimento dei ghiacciai.
Nell’ultimo secolo i ghiacciai sul monte Kenya hanno perso il 92% della loro massa e quelli sul Kilimanjaro il 73%; il numero dei ghiacciai in Spagna è passato dai 27 del 1980 ai 13 del 1999; i ghiacciai dell’Europa alpina hanno perso il 50% del loro volume nell’ultimo secolo.
I ghiacciai marini nell’emisfero settentrionale sono diminuiti, dal 1978 al 1998, di 370.000 kmq ogni dieci anni. Complessivamente l’estensione dei ghiacci artici si riduce del 2,9% per decennio, con una riduzione diffusa anche significativa del loro spessore.
Effetti sono riscontrabili nella fauna. Gran parte degli insetti, per la loro maggiore capacità adattativa e lo smisurato “arsenale” genetico, aumenterebbero i loro areali e la loro presenza temporale nel corso delle stagioni. Ad esempio, il riscaldamento dell’Alaska è probabilmente alla base dei danni al fogliame provocati da un verme parassita dell’abete rosso su 20 ml di ettari di foresta [17]; sempre a titolo esemplificativo tra gli insetti i tarli nel 2020 potranno iniziare i loro voli migratori 25 giorni prima, il che vuol dire che potrebbero colonizzare zone nell’Europa settentrionale che hanno in passato raggiunto raramente con effetti dirompenti sul patrimonio forestale.
1/4 delle specie oceaniche conosciute e almeno il 65% della fauna ittica marina trovano rifugio nel sistema corallino; se la temperatura del mare supera i 28°C i polipi che vivono nel corallo espellono le alghe presenti nei loro e il corallo sbianca; se tale condizione persiste i coralli muoiono in quanto si alimentano con la fotosintesi attuata dalle alghe. In tutte le barriere coralline del mondo all’inizio degli anni ‘90 vi erano aree sbiancate; nella seconda metà degli anni ‘90 in un vasto tratto dell’Oceano Indiano, dove la temperatura delle acque aveva anche superato i 30°C, il 70% delle barriere erano morte.

 

Le cause e i motivi

L’innalzamento della temperatura del pianeta è causato da una serie di fattori concomitanti di diversa incidenza.
Nel modello di società occidentale lo svolgimento delle attività produttive comporta l’emissione, diretta o indiretta, nell’atmosfera di sostanze che provocano il fenomeno chiamato “effetto serra” la cui presenza ed incremento provoca l’innalzamento della temperatura.
Principale, ma non unico, gas-serra è l’anidride carbonica, emessa in grandissima parte dall’uso dei combustibili fossili. Tale uso libera attualmente nell’aria circa 6 miliardi di tonnellate di carbonio ogni anno, aggiungendo ogni anno 3 miliardi di tonnellate ai 170 miliardi accumulati a partire dalla rivoluzione industriale. Dal periodo pre-industriale il biossido di carbonio è aumentato da 280 a 360 parti per milione in volume (ppmv), a cui si aggiungono l’aumento della concentrazione di molte altre sostanze tra cui il metano da 700 a 1720 ppvm, e il protossido di azoto da 275 a 3103.
La quantità di emissioni non è ugualmente ripartita tra tutta la popolazione del pianeta: nel 1995 il 20% della popolazione mondiale, residente nei paesi a maggiore emissione, ha prodotto il 63% delle emissioni e il 20% della popolazione, residente nei paesi a minima emissione, ha prodotto il 2% del totale delle emissioni.
Come si vede dalla tabella, le emissioni procapite degli Stati Uniti sono 20 volte superiori a quelle dell’India e 2 volte superiori a quelle del Regno Unito.

Emissioni pro capite di carbonio da utilizzo di combustibili (1994)

Nazione
Tonnellate
Stati Uniti 5,26
Australia 4,19
Canada 3,97
Russia 3,08
Germania 2,89
Regno Unito 2,62
Ucraina 2,43
Giappone 2,39
Sudafrica 2,07
Cina 0,71
India 0,24

Le emissioni sono direttamente connesse principalmente alla quantità di energia elettrica consumata, alla quantità di merci e di processi produttivi e di smaltimento connessi e alla mobilità, ambiti questi che bruciano le maggiori quantità di combustibili fossili e caratterizzano il modello consumistico globalizzato. Ma altri settori, apparentemente non incisivi, come quello delle comunicazioni, consumano quantità significative di energia: in Italia, il cliente che richiede la maggiore quantità di energia elettrica è la Telecom con il 4% del totale nazionale.

Aumento delle attività che scaldano
Al di là delle emissioni, quasi tutte le attività, proprio per le modalità con cui si svolgono, per il costante uso di strumentazioni energivore e per l’abituale sovradimensionamento, producono calore.
Il calore emesso da un contadino che vanga il terreno non è confrontabile con quello di un trattore, né il calore emesso da una persona che cammina con quello di un autoveicolo.
Proprio l’enorme abuso di strumenti comporta la presenza diffusa di un numero infinito di fonti di calore (una fila di macchine in una strada di campagna è paragonabile ad una fila di termosifoni che riscalda l’atmosfera).

Riduzione dei “captatori”
La diffusa e gigantesca deforestazione in corso ha eliminato quei “polmoni naturali”, rappresentati da boschi e foreste, che fungevano da captatori di CO2 e da riduttori dell’effetto serra, oltre che da stabilizzatori diretti delle temperature.

Riduzione degli “ammortizzatori”
Gli ecosistemi sono stati alterati in modo così profondo che la loro resilienza, cioè la capacità intrinseca di assorbire gli effetti delle avversità climatiche e ristabilirsi in nuovo equilibrio, è drasticamente diminuita. La deforestazione, oltre a ridurre la capacità di assorbimento del CO2 del pianeta, danneggia i bacini idrici, fa aumentare i rischi di incendio e contribuisce all’innesco di mutamenti climatici, mentre, per esempio, la distruzione di paludi costiere, dune e mangrovie, elimina gli “ammortizzatori naturali” in grado di proteggere le coste dai tifoni marini. I periodi di siccità – e le carestie che spesso li seguono – sono innescati in parte da variabilità climatica globale, ma vengono peggiorati da scelte sbagliate quali la deforestazione, lo sfruttamento intensivo delle terre da pascolo, e l’utilizzo indiscriminato dei fiumi e pozzi per l’irrigazione.

Aumento delle merci e della parcellizzazione delle attività.
La società di mercato continua a produrre merci. La loro produzione richiede una grande quantità di energia e gran parte dei prodotti per funzionare ha bisogno di energia.
La domanda di energia, e quindi di consumi di combustibili fossili per la sua produzione, è direttamente connessa al consumo delle merci ed al sostegno fornito al modello di mercato e consumistico. Inoltre l’energia stessa è una merce che viene prodotta e venduta da soggetti che hanno interesse ad aumentare i loro profitti e quindi ad aumentarne i consumi.
Gran parte delle merci viene prodotta attraverso l’uso di parti di natura (petrolio, carbone, legna ecc.); questa selvaggia spoliazione non si interrompe in presenza di interessi comuni e si attua esclusivamente in ragione di un profitto privato.
Ciò è facilitato della mancanza di controllo, da parte delle comunità, delle risorse e dei consumi. Inoltre le attività si svolgono in una elevata frammentazione delle varie fasi in cui si compongono, sistema tipico dell’industrializzazione, frammentazione che determina una profonda inconsapevolezza, da parte sia dei produttori diretti sia dei consumatori, degli effetti ambientali e sociali apportati e parcellizza le responsabilità.
Prendere la legna nel bosco, tagliarla, portarla presso l’abitazione, ritagliarla, sistemarla, portarla alla stufa, pulire la stufa. Queste azioni erano svolte da una sola persona che, comprendendo la fatica del suo agire, cercava soluzioni economiche di riscaldamento (stufe efficienti), soluzioni che rendessero necessaria la minore quantità di calore (ottimizzazione dell’edificio), soluzioni che rendessero possibile la permanenza delle risorse negli anni successivi (mai fare deperire il bosco).
L’uomo lavorava su un sistema e non su una sua parte e ne gestiva la complessità.
Oggi accendere il riscaldamento, per l’individuo che ne usufruisce, è un’azione semplice ma incosciente del fatto che questo utilizzo comporta una serie di azioni complesse e di grande portata per gli effetti che produce (estrazione del gasolio, oleodotto, raffineria, trasporto, stoccaggio, trasporto e vendita al dettaglio, produzione impianto riscaldamento, messa in opera, manutenzione ecc)
Ognuna di queste azioni ha un soggetto promotore che da queste trae lucro e che ha interesse ad aumentare la quantità e il prezzo per ottenere i massimi profitti: ciascuno di questi soggetti diviene di fatto promotore di un maggiore consumo.
Questa modalità di agire non è più semplice e conveniente né per la comunità né per l’ambiente, è solo più funzionale alla produzione e alla vendita dei prodotti e più funzionale all’aumento dei consumi dai quali la produzione e la commercializzazione trae profitti.

L’effetto serra

In circostanze normali, quando i raggi solari riscaldano la Terra, una percentuale di tale calore viene di nuovo riflessa nello spazio mentre oceani e terreni assorbono il resto. Ma la recente intensificazione della concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera trattiene il calore che verrebbe riflesso e che, a sua volta, si spande nelle acque dell’oceano e provoca l’innalzamento del livello del mare. Il riscaldamento accelera anche l’evaporazione, mentre dilata l’aria perché possa contenere più acqua. Il vapore acqueo risultante, sospeso nell’aria, a sua volta cattura altro vapore, perpetuando il ciclo. Più è il calore trattenuto, più intenso sarà l’effetto serra.
Un certo tipo di gas, nominati gas serra (anidride carbonica CO2, metano CH4, protossido di azoto N2O, idrofluorocarburi HFC, perfluorocarburi FFC, esofluoruro di zolfo SF6), prodotti per gran parte dalle emissioni di combustione, favoriscono per le loro caratteristiche fisiche e di comportamento lo svilupparsi dell’effetto serra.
La concentrazione dei gas serra trattiene nell’atmosfera una quantità di calore pari a quella prodotta in 300.000 impianti nucleari.

 

Le previsioni

Le emissioni globali dal 1990 al 1996 sono aumentate del 7%.
Se non si modifica l’attuale tendenza è possibile prevedere che le emissioni globali di carbonio da combustibile fossile saranno nel 2010 superiori del 40% a quelle del 1990, raggiungendo così i 9 Mld di tonnellate annue.
Per riportare il clima terrestre in una situazione di equilibrio nel giro di poche centinaia di anni, le emissioni di carbonio dovrebbero essere riportare al valore che oceani e foreste sono in grado di assorbire, cioè 1-2 miliardi di tonnellate annue, pari all’80% in meno delle attuali emissioni.
Se si volesse stabilizzare entro il 2100 la concentrazione di CO2 a livello doppio dell’attuale (le previsioni indicano che sarà il triplo) i livelli correnti dovrebbero calare a meno del 30% rispetto a quelli attuali.
I possibili scenari futuri elaborati dall’IPCC, elaborazione in cui convergono le ricerche e le tesi di oltre 2000 scienziati mondiali e dei principali enti di ricerca, è così sintetizzabile:
· Incremento della temperatura di 2°C per l’anno 2100;
· Oltre 50 cm di innalzamento del livello dei mari per il 2100;
· Significativa perdita di specie animali e vegetali;
· Aumento delle patologie a carico degli umani (ampliamento dell’areale della malaria, della febbre gialla, della febbre Dengue, delle malattie cardiorespiratorie); incremento delle malattie e delle morti a causa delle “onde di calore”, diffusione anche nelle zone temperate di malattie infettive tipiche
delle zone tropicali;
· Modifiche significative dei cicli climatici con l’intensificazione dei fenomeni esterni (forti precipitazioni con eventi alluvionali alternate a lunghi periodi di siccità), alterazione degli ecosistemi terrestri e acquatici, degradazione e aridificazione dei suoli, modificazioni delle produzioni agricole;
· Migrazioni di massa delle popolazioni e creazione di “profughi dell’ambiente”;
· Estinzione di culture;
· Nuova minaccia per la stabilità e la sicurezza internazionale.

Sulla base dell’andamento dei fenomeni meteorologici, la caratteristica assunta dall’attuale situazione è quella di un “caos climatico”, in cui freddo, caldo, pioggia, vento, maree e correnti hanno un andamento non rispondente a quello storicamente mantenuto e nel lungo periodo difficilmente prevedibile.
Periodi, intensità, dimensioni degli eventi sono un continuo susseguirsi di anomalie che si situano ai massimi livelli rilevati dalle informazioni disponibili.
Se il riscaldamento procede nell’attuale direzione lo scenario a breve termine potrebbe avvantaggiare l’Europa settentrionale e l’America del Nord: le stagioni agricole si allungherebbero e sorgerebbero aziende più vicine al Circolo polare artico. L’Europa meridionale, gran parte dell’Africa tropicale e l’America centrale e meridionale soffrirebbero una riduzione della produttività agricola, maggiori ondate di caldo, carenze idriche.
Circa mezzo miliardo di persone nelle zone tropicali più aride troverebbe difficoltà ad adattarsi.
Nell’agricoltura industrializzata del nord del mondo le variazioni non dovrebbero portare scompensi, ma per tutti coloro, e sono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, che aspettano piogge e sole e da loro dipendono, la variazione sarà un dramma e per tantissimi una tragedia.
Se invece si ipotizzano scenari a lungo termine, considerando che le riserve di combustibili fossili esistenti sono sufficienti a provocare un innalzamento ininterrotto dei livelli di CO2 fino al XXI secolo inoltrato, essi sono assolutamente negativi per tutti.

Alcune conseguenze previste

Secondo il rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change- Commissione d’esperti costituita nel 1988 dal Programma sull’Ambiente delle’ONU e dall’Organizzazione Meteorologica mondiale) del 1995 “ si prevede che la frequenza di inondazioni, siccità, incendi e ondate di calore aumenterà in alcune regioni” all’aumentare della temperatura.
L’aumento calcolato al 2100 varia tra il minimo di 1,3°C e i 4,0°C, con l’emisfero nord si scalderà due volte di più rispetto alla media e quindi tra i 2,5°C e gli 8°C.
Le precipitazioni complessive medie aumenteranno dal 4 al 20%, anche in questo caso non uniformemente; nell’area dell’Europa meridionale è possibile ipotizzare periodi di siccità più frequenti superiori ai 30 giorni (fattore di aumento da 2 a 5 volte) e la diminuzione delle precipitazioni del 22%.
L’aumento medio del livello del mare è previsto tra i 17 e i 99 cm per il 2100 e proseguirà anche a stabilizzazione delle concentrazione di gas-serra avvenuta fino al 2300 tra i 50 e i 200 cm.
Effetti connessi alla modificazione della circolazione dell’atmosfera (El Niño, cicloni extra-tropicali, concentrazioni delle piovosità ecc.): sono oggi poco attendibilmente valutabili nei loro futuri caratteri ma sicuramente saranno presenti con un’entità accresciuta rispetto a quella già manifestatasi nell’ultimo decennio.
Altri effetti previsti sono connessi alla modificazione della grande corrente oceanica che oggi si muove, portando caldo nell’Europa del nord, proprio in ragione di una diversa temperatura tra le acque fredde del nord e quelle calde del sud. Se la temperatura delle acque del nord aumenta si potrebbe arrivare ad un ristagno della corrente che non riscalderebbe più il nord Europa, trasformando il suo clima e rendendolo simile a quello del Labrador (stessa latitudine ma non interessato alla corrente del Golfo).
Entro il 2050 potrebbe scomparire 1/4 dei ghiacci montani e entro il 2100 la metà; si stima che i ghiacciai himalayani si ridurranno nei prossimi 35 anni del 20%, compromettendo le disponibilità d’acqua per 500 ml di indiani che vivono lungo gli affluenti dell’Indo e del Gange.
Entro il 2050 si verificherà un cambiamento nel tipo della vegetazione predominante delle aree protette che interesserà il 24% della loro superficie. 1/3 delle foreste subirà un enorme cambiamento; in particolare le foreste tropicali, molto sensibili all’umidità, si modificheranno in ragione dell’aumento della temperatura che aumenterà l’evaporazione e ridurrà l’umidità.
L’aumento della temperatura di 2°C sposta le fasce climatiche latitudinali di circa 400 km e quella altitudinali di circa 400 metri di quota. Tutti i sistemi montani saranno e molti scompariranno.

Gli accordi internazionali

Nonostante la messe di dati sperimentali a disposizione ci sono soggetti che ancora sostengono la naturalità del cambiamenti climatici, ovvero la marginalità dell’incidenza del fattore umano.

Tali posizioni, sostenute per gran parte dagli esperti consulenti delle grandi multinazionali del settore energetico e petrolifero statunitensi, hanno indirizzato la politica degli Stati Uniti, i maggiori responsabili delle emissioni planetarie ed hanno, attraverso di essa, operato un freno all’individuazione di soluzioni alternative.
Ancora oggi, al di là di ogni ragionevole ipotesi, campagne informative, evidentemente pilotate da interessi precisi, tendono a mantenere l’opinione pubblica nel dubbio. Il problema non è da sottovalutare. Infatti se venisse riconosciuta la responsabilità dei comportamenti umani sulle modificazioni del clima, sarebbe poi difficile negare l’attuazione di misure “riparatrici”.
In realtà è stata ormai chiaramente stabilita la dipendenza tra variazioni climatiche ed emissioni serra, e questo non solo per le risoluzioni finali dell’IPCC ma anche per le decisioni che hanno investito la comunità internazionale. Inoltre è comunque intuitivo che non possa essere indifferente alle condizioni complessive del pianeta l’immissione in atmosfera di milioni di tonnellate annue di anidride carbonica.
Alcuni paesi hanno avviato azioni finalizzate alla riduzione delle emissioni attraverso la promozione di tecnologie innovative e di comportamenti che riducano gli sprechi energetici.
Il protocollo di Kyoto partendo dal riconoscimento dell’incidenza dei gas serra sui cambiamenti climatici impegna i paesi industrializzati e quelli ad economia di transizione (Est europeo) a ridurre complessivamente del 5% nel periodo 2008-2012 le principali emissioni antropiche dei gas serra.
Il protocollo è stato siglato da oltre 160 nazioni nel dicembre del 1997, appunto a Kyoto, nell’ambito della Convenzione quadro sui Cambiamenti climatici definita a Rio de Janeiro nel 1992.

Taglio dei gas serra previsti da Kyoto ...........................................-5,2%
Taglio di fatto senza gli USA .......................................................-3,8%
Tagli accettati dall’Unione Europea ..............................................-8,0%
Tagli accettati dall’Italia ..............................................................-6,5%
Incremento di CO2 in Italia nel decennio 1990-2000 ......................+5,4%
Tagli accettati dall’Italia per il 2008..............................................-12,0%
Incremento dei gas serra negli USA dal 1999 al 2000 ...................+3,1%
Gas serra emessi dagli USA sul totale delle emissioni .................25,0%

La globalizzazione, un acceleratore di riscaldamento

L’energia pro capite consumata in un anno da un abitante del Nord America (Canada e USA) è pari a 7.947 kg petrolio equivalente; quella di un abitante dell’Europa (inclusi paesi dell’Est Europa e Russia) di 3.507 kg petrolio equivalente (Italia 2.846, Francia 4.233, UK 3.894); di un abitante dell’Asia 1.635; di un abitante del Nord Africa e Medio Oriente 1.388; del Congo Democratico 303; del Sud America 1.202.
Gli Stati Uniti consumano energia 26 volte superiore a quella consumata nel Congo Democratico, 6,6 volte superiore a quella nel Sud America e 2,7 superiore a quella in Italia.
Questi dati, che corrispondono ai risultati sulle analisi delle emissioni, mettono in diretto collegamento l’energia consumata, e quindi il modello di vita, alla quantità di emissioni, gravando la prima, in maniera indiscutibile, sulle seconde.
Il fatto che il consumo degli Stati Uniti sia doppio di quello dell’Europa, visti i livelli di benessere materiale simili, indica come vi sia nei primi come minimo la metà dell’energia impiegata basata su sprechi di merci e prodotti, e questo rappresenta di fatto un abuso di consumo. Tutto ciò a prescindere dalla necessaria verifica degli sprechi e degli abusi energetici europei che ridurrebbero ancor più la richiesta energetica di questi paesi.
È dunque questo modello perseguito e proposto dai paesi occidentali che è fortemente energivoro in quanto basato sul mercato e dunque finalizzato alla produzione e commercializzazione, una volta garantito il benessere materiale, del superfluo.
Se tutti i paesi si uniformassero ai paesi maggiormente energivori la gravità della situazione ambientale acquisterebbe proporzioni da disastro ambientale, ma in realtà è a questo che si sta tendendo: obiettivo dichiarato è portare i consumi (e quindi i consumi energetici e la produzione di gas serra e di calore) a livelli simili a quelli statunitensi, in quanto questo permette l’allargamento dei mercati. Indipendentemente dal benessere effettivo dei singoli e delle comunità, in questo modello globale e consumistico il benessere si produce con le merci.
In questo modello la merce non è strumento ma fine, in quanto attraverso di essa si produce lucro; dunque gli sprechi non sono intesi come un limite del sistema ma come una sua forza, e attraverso di essi si aumenta la grandezza e la consistenza del mercato.
Ciò a cui si assiste è dunque il continuo incremento dei consumi energetici promossi appunto dal modello consumistico attraverso la globalizzazione.
Confrontando quali siano stati i maggiori incrementi si nota che i “paesi in via di sviluppo” hanno registrato una crescita di emissioni nel periodo 1990-95 del 25% e i paesi sviluppati dell’8%. I tassi di incremento sono spaventosi: i paesi industrializzati sono responsabili del 76% delle emissioni complessive di carbonio in tutto il pianeta a partire dal 1950, ma dal 1990 al 1996 le emissioni sono aumentate in Indonesia del 150%, in India del 140%, in Cina del 130%, in Brasile del 120%.
L’atteggiamento da parte dei produttori è quello di creare mercati al di là di ogni ragionevolezza nell’attuazione esclusiva di un parametro economico.
Tipico è il caso degli autoveicoli: tra i principali responsabili delle emissioni e fonte di inquinamento con il più rapido accrescimento negli ultimi vent’anni (il parco autovetture è passato da 50 a 500 milioni di unità negli ultimi cinquant’anni) sono oggetto di promozione anche in paesi con sistemi di mobilità alternativa a ridotte emissioni
Le politiche di globalizzazione del commercio hanno aperto mercati finora impermeabili: recentemente la General Motors ha firmato con la Cina un contratto da un miliardo di dollari per la produzione di 100.000 veicoli di media cilindrata l’anno; nuove frontiere del commercio dell’auto si aprono anche nei confronti della Russia; l’incremento delle automobili nei primi anni ’90 nella Corea del Sud ed in Thailandia è stato rispettivamente del 25 e del 40%.
Ma l’incremento dei consumi e delle emissioni interessa anche soggetti che hanno già livelli di consumi insostenibili: dal 1990 al 1996 gli Stati Uniti hanno aumentato del 9% le emissioni (si veda anche la politica energetica praticata dall’attuale governo, tutta tesa a garantire ed aumentare gli attuali consumi attraverso gli stessi strumenti) quando, con il 23% dell’energia mondiale, già sono il paese con il maggiore consumo di energia nel mondo.
Il rifiuto degli USA di sottoscrivere la convenzione di Kyoto (gli Europei sono sempre stati più positivi e disponibili ad una modificazione dei comportamenti) ha portato ad alleggerire ulteriormente i contenuti e gli impegni del paese che è il maggiore inquinatore dell’atmosfera (Marrakesh 2001) fino ai livelli compatibili con il modello di mercato esistente ed il protocollo di Kyoto, e successive modificazioni, è divenuto esso stesso un ulteriore mezzo per rafforzare la politica statunitense, ponendo opzioni sul futuro di numerosi paesi: in sintesi anche attraverso Kyoto si sostengono i grandi produttori, non si individuano i responsabili, si mantengono le distanze tra ricchi e poveri, si fa mercato.
Gli Stati Uniti sono i paladini di un interesse economico che per gran parte, ma non solo, ha sede in quello stato, propugnatore di un modello basato sulla necessità del continuo allargamento del mercato e praticato nella grande autonomia dell’economia nei confronti della società e dell’ambiente.
Ed è proprio questo modello che rappresenta un ostacolo oggettivo alla riduzione delle emissioni.
I governi liberisti non regolamentano le attività in quanto il prelievo e il consumo indiscriminato delle risorse e l’abuso di merci sono lo strumento ottimale per ottenere i massimi profitti.
Se uno stato aderisce alla convenzione Kyoto, ad esempio, si pone l’obiettivo di raggiungere una riduzione delle emissioni. Per ridurre le emissioni può agire sui produttori di energia, che bruciano grandi quantità di combustibili fossili e quindi emettono grandi quantità di CO2, fino a riconvertire gli impianti esistenti in impianti a maggiore efficienza produttiva.
Ma le centrali che producono energia rispondono alle leggi del mercato e quindi hanno l’obiettivo principale di fornire energia a prezzi concorrenziali ed ottenere il massimo profitto sulle loro produzioni. Essi dunque sceglieranno non i combustibili a minore emissione ma quelli a maggiore rendimento e a minore costo seppure maggiormente inquinanti, seppure con effetti negativi nell’ambiente e nelle società.
Lo scenario paradossale è stato in un recente passato quello dei governi occidentali che per non ledere gli imprenditori intervenivano per rifondere il danno provocato dalla riduzione di proventi. In questo caso la collettività si trovava a pagare tre volte un prodotto: una volta acquistandolo, una volta sovvenzionandolo, e una volta subendo i danni ambientali e sociali connessi alla produzione. Ma questo stesso scenario, certo non risolutivo e comunque prudente, non è assolutamente praticato dai governi liberisti che lasciano l’iniziativa nelle mani delle stesse imprese produttrici.
Il lasciare all’unica variabile del profitto la soluzione dei problemi della comunità planetaria è la motivazione per cui, anche in presenza di soluzioni tecnologiche migliorative dell’efficienza ambientale, nessun miglioramento significativo è stato apportato ai prodotti o alla loro maniera di essere utilizzati. Come visto, se dallo spreco di materiali e di energia si ottiene il massimo profitto, non si modificano gli strumenti che ad esso conducono anche se ciò ha come conseguenza lo sconsiderato abuso delle risorse naturale ed il sacrificio della popolazione.
Ma il modello globale proposto è ulteriormente incapace di risolvere il problema del riscaldamento del pianeta. Infatti la soluzione dei problemi, sia per la globalità delle manifestazioni, sia per l’impossibilità di affrontarli localmente, non può essere che internazionale.
In realtà il problema può essere risolto, o comunque seriamente affrontato, solo da una comunità internazionalista ancor più che internazionale, che non escluda soluzioni anche drastiche per l’attuale assetto mondiale della politica e dell’economia, ovvero che attui un’azione congiunta e diffusa di riduzione delle emissioni e di individuazione di soluzioni a minore consumo energetico e di minore emissione diretta di calore.
E proprio in questo il modello dei consumi globalizzato, che si presenta come sistema di benessere universale, mostra i suoi limiti nell’affrontare i problemi che riguardano tutti e la sua predisposizione a dare vantaggi agli interessi dei singoli.

Il mercato del clima

Il WTO interviene nelle scelte dei governi
Secondo le regole dettate dal WTO vale il principio per cui “prodotti similari” non possono essere discriminati in base alle modalità di produzione o al luogo di provenienza. Questo significa, per esempio, che se un governo decidesse di promuovere la produzione di automobili che garantisca un uso significativamente minore di risorse combustibili, il WTO ricorrerebbe al tribunale mondiale del Commercio per violazione delle regole del commercio globale, in quanto questa azione discriminerebbe gli altri produttori di automobili, e ne uscirebbe vincente.
Il problema è che molti dei paesi che hanno firmato il protocollo di Kyoto, che impegna a serie misure per la riduzione dei gas-serra, sono anche aderenti al WTO: questo conflitto è evidentemente destinato a non permettere di produrre effetti significativi per quanto riguarda la risoluzione del problema dei mutamenti climatici, o comunque di renderla piuttosto “faticosa”.

Quel che non poté la scienza poté l’economia
I dirigenti delle assicurazioni sono preoccupati: i premi delle compagnie e le coperture delle polizze relativi agli eccessi del clima si sono sempre basati sulla regola della media. Ma l’andamento dei fenomeni degli ultimi anni li costringe a “rinegoziare la copertura”: “Il mercato assicurativo è il primo ad essere colpito dal cambiamento del clima…tutto il settore potrebbe andare in rovina”, è l’affermazione di Nutter, presidente della RAA.[25] Nei soli Stati Uniti i rimborsi assicurativi per danni provocati dal clima negli anni ’90 sono arrivati a 57 miliardi di dollari, contro i 17 miliardi di dollari per gli anni ’80.
Dunque, se non basta la scienza a convincere gli irriducibili della gravità della situazione, può essere che ci riesca l’economia di mercato…

Rimanere nell’ottica di mercato.
Ovvero come fare dell’inquinamento un businness

La ratifica impone nuove pratiche nei tagli delle emissioni, come quella di poter ricorrere ai “meccanismi flessibili” che prevedono di poter “bilanciare” le emissioni con la creazione di foreste che compenserebbero il danno, ovvero di “comprare” da altri paesi meno inquinatori (normalmente del terzo mondo) i “diritti” per poter incrementare le proprie emissioni, in modo che complessivamente la quantità di gas serra rimanga dentro i parametri previsti.

Prima regola vendere
È ormai un dato chiaro e indiscutibile anche alla ragione comune che l’aumento dei consumi energetici è il principale responsabile dei cambiamenti climatici in atto, e che questi mutamenti sottopongono le popolazioni del pianeta a eventi meteorologici eccezionali e gravi.
Chiaro per tutti, ma non per l’Amministrazione degli Stati Uniti. In seguito ad una grave ondata di calore che colpì alcuni anni fa gli Stati Uniti del Sud, e che provocò parecchi morti, l’ex presidente Clinton, manifestando il suo cordoglio e l’intenzione di porre rimedio alla situazione, si impegnò, con grande e grave serietà, a che “ciascun americano potesse essere dotato di un impianto di aria condizionata, povero o ricco che fosse”. La citazione è a memoria, essendo tratta da un’intervista televisiva di quegli anni.
In questa maniera anche il clima diviene mezzo di business sebbene suicida.

I governi governati tipici della globalizzazione
L’attuale politica degli USA taglia gli investimenti per le fonti energetiche rinnovabili, alternative a quelle fossili, del 27%, gli investimenti per progetti solari e energia eolica calano del 49%. Il Vicepresidente dichiara che la riduzione dei consumi energetici è una virtù personale ma non può costituire la politica energetica del paese. Il Presidente avvia una campagna di sfruttamento delle risorse petrolifere nelle aree protette dell’Alaska e dichiara che sarà necessario costruire migliaia di nuovi impianti di produzione elettrica.
La recente politica statunitense è basata sul petrolio, ed è stato stimato che essa aumenterà le emissioni del Paese di circa il 35%.
Il Presidente Bush, oltre ad essere direttamente connesso al mondo del petrolio (Bush senior è comproprietario di società che possiedono pozzi, guarda caso, nel Golfo Persico), è stato sostenuto nella sua campagna elettorale dall’intero comparto petrolifero statunitense.

La soluzione praticata: aumentare il controllo sociale dei territori e delle tecniche

Al di là di timorosi proclami nessuno stato ha attivato significative azioni sulle cause del riscaldamento globale. La scelta nei confronti del problema “cambiamento climatico”, sostenuta al di là delle parole dai loro atteggiamenti, è di ignorare i segnali di profonda alterazione e confermare gli obiettivi, i criteri e le modalità del modello praticato.
Tale scelta scaturisce, come già accennato, dalla totale incapacità da parte dei governi di modificare i comportamenti del settore produttivo ed energetico, in quanto ciò lederebbe gli interessi che sostengono i governi e dunque da esso difesi.
Nonostante questa considerazione, l’atteggiamento suicida messo in atto da questo sistema globale ed imposto ai 4/5 del mondo induce a delle perplessità; non sembra infatti verosimile, al di là del potere esercitato dalle lobby dei produttori, che interi stati non riescano a comprendere quale sia l’enorme rischio che l’umanità, e dunque anche gli interessi privati che rappresentano, stanno affrontando.
Sembra quasi che la posizione degli stati “sovrani”, abbia verificato la possibilità di aumentare i propri vantaggi economici e militari attraverso il mantenimento e l’incremento delle differenze ed un migliore posizionamento dei propri poteri, piuttosto che affrontare la possibilità di risolvere il problema..
Questo modello di mercato può, incredibilmente, trarre vantaggi dal disastro ecologico del mutamento climatico e tali vantaggi, già valutati, potrebbero essere la ragione della blanda risposta degli stati.
Ad esempio, all’aumento della pressione sulle risorse idriche ha corrisposto il crescente controllo delle stesse da parte di governi e privati. Tale problema riguarderà maggiormente le aree di nuova siccità e quindi l’Europa meridionale, l’Africa e zone tropicali aumentando la loro dipendenza da soggetti esterni e indebolendole politicamente, senza invece interessare vaste aree dei paesi già ricchi che non avranno problemi di risorse idriche.
Per quanto attiene l’agricoltura e il deterioramento dei suoli la risposta è stata l’aumento della produzione artificiale. I produttori agricoli aumentano la richiesta di semi che possano fronteggiare situazioni di alterazioni (semi transgenici ibridi), i quali semi però debbono essere comprati direttamente dalle multinazionali produttrici. In tale maniera si incrementa l’asservimento delle popolazioni agricole dei paesi poveri agli interessi dell’industria dei paesi ricchi. Inoltre il deterioramento dei suoli renderà necessario il cambiamento delle modalità di produzione con l’uso maggiore di additivi chimici in zone artificializzate ad elevata produttività. Ciò è un bene per i produttori di impianti; si potranno vendere più serre, più impianti di irrigazione e di riscaldamento delle stesse e ciò concentrerà di più la produzione nei paesi che riusciranno ad effettuare tali investimenti, e quindi nei paesi ricchi, aumentando la sudditanza dei paesi già poveri.
Ad altri temi, come quello della modificazione delle foreste, si risponde con l’attesa: esse non rappresentano grande interesse per il mercato del grande profitto; il taglio delle foreste è un bell’interesse ma a quello già sta procedendo attivamente.Altri temi si presentano già vantaggiosi per alcuni.
Ad esempio la modificazione della produttività agricola che migliorerà al nord (Stati Uniti del nord, Canada, Europa del Nord, Russia) e peggiorerà al sud comporta solo dei benefici per il modello globale. Parte delle aree ricche potrà divenire più ricca, mentre la parte povera del mondo sarà più povera; in questa parte si ridurrà la produttività, si ridurrà quindi l’autonomia alimentare e, a seguito di questa, quella sociale e politica crescendo così la dipendenza dal modello globale
Ad altri problemi connessi si risponde con soluzioni tecniche attraverso il mercato dei prodotti. L’aumento degli eventi meteoclimatici estremi: essi coinvolgono principalmente popolazioni povere che non hanno alcun interesse per il modello; quando invece si manifestano in aree con popolazioni ricche si sta già ricorrendo all’uso di sistemi d’allarme e tecniche per ridurre il rischio per le persone e le cose. L’aumento del livello del mare: se esso sarà localizzato dove vi sono interessi fondiari, produttivi, immobiliari si interverrà artificializzando le coste (dighe, argini, difese spondali etc.); se sarà localizzato in aree dove l’interesse è minimo (paesi poveri, ambiti naturali etc) non si interverrà.
Anche per quanto riguarda il fastidio provocato dal già riscontrato aumento delle temperature, nei paesi ricchi si procederà all’uso sempre più esteso di impianti di climatizzazione degli ambienti chiusi, ambienti che hanno già avuto un incremento nel numero, nella estensione, nella tipologia (mercati, sport, attività ricreative, serre ecc.). Per il resto del mondo si perderanno enormi superfici abitabili (esodi e sofferenze).
Questo scenario che già si sta attuando, seppure senz’alcuna dichiarazione programmatica, potrebbe essere il ragionamento che sostiene la politica del lasciare tutto com’è messo in atto dagli stati potenti. Esso procura (sta procurando) il riscaldamento del pianeta, salva gli interessi di alcuni e massacra l’ecosistema planetario e i popoli che lo abitano.

La soluzione di ottimizzazione del modello: aumentare l’efficienza

Fin dagli anni sessanta il problema dell’esorbitante consumo energetico del modello praticato ha fatto nascere perplessità e critiche. Alla produzione di energia sono stati connessi problemi ambientali e sociali e si è sostanziata una ricerca tesa all’individuazione di soluzioni alternative per la produzione e l’uso dell’energia.
Numerose sono le tecniche già individuate, operative e sperimentalmente collaudate: sistemi per la produzione di energia a basso impatto, soluzioni per la riduzione dei consumi e delle emissioni nei mezzi di produzione, nei mezzi di trasporto, nelle abitazioni.
Oggi sono disponibili automobili che percorrono più di 50 km con un litro di benzina, edifici che non abbiano perdite di calore superiori a 50-60 kwh/mq all’anno, sono possibili risparmi fino al 77% sull’energia per la climatizzazione degli edifici, miglioramenti fino al 50% dell’efficienza energetica degli elettrodomestici ecc.
Quasi tutte queste soluzioni dimostrano la loro praticabilità nell’ambito dei sistemi produttivi e di profitto consolidati. È dunque possibile migliorare l’efficienza energetica della mobilità, della produzione, del commercio, dell’abitare garantendo guadagni, accontentando industriali, immettendo sul mercato nuove merci e riducendo di quattro o più volte il consumo energetico.
Sembrerebbe la soluzione ottimale: garantisce il mantenimento dell’attuale modello ed una concreta praticabilità: in sintesi possiamo continuare a consumare senza preoccuparci. Eppure nessuna di queste soluzioni è stata applicata in maniera diffusa: rimangono sul mercato macchine che fanno con un litro 8 km, vengono costruiti edifici con perdite di calore pari a circa 500 kwh/mq annui (è la media italiana) e spaventosi consumi per la climatizzazione .
Ciò dimostra che la praticabilità tecnica ed economica delle soluzioni prospettate non è stata di fatto garanzia della loro realizzabilità.
Nessuna di queste concrete e praticabili soluzioni è riuscita a sostituire le attuali tecniche inquinanti in quanto non ha superato le regole di convenienza dettate e praticate dall’attuale economia. Prelevare un bene comune come il petrolio a costi bassissimi, facendo arricchire pochi personaggi locali e alcune multinazionali, per rivenderlo, grazie alle enormi quantità, a basso prezzo è molto più conveniente di qualsiasi altra soluzione praticabile quando i costi ambientali, l’inquinamento, i costi sociali (per esempio delle malattie conseguenti), dell’alterazione della qualità dell’habitat li paga la collettività.
Inoltre il controllo scientifico delle tecniche, la capacità di produrle e commercializzarle, la possibilità di acquisirle sarà possibile esclusivamente per i benestanti dei paesi ricchi. Queste nuove soluzioni disponibili, questi nuovi prodotti in realtà sono pronti ad aumentare il divario tra le diverse popolazioni e tra i diversi individui. Beni pubblici, quali sono aria, clima, acque, saranno ulteriormente privatizzati e le condizioni dell’esistenza saranno garantite da merci e servizi acquistabili sul mercato; in questo le tecniche approntate in risposta alle mutazioni climatiche incrementeranno la distanza tra nord e sud ovvero tra chi possederà le soluzioni tecnologiche e chi le dovrà acquisire.
Infine, il cammino verso quell’efficienza energetica che consentirebbe almeno una riduzione delle emissioni diventa impraticabile senza una contemporanea riduzione dei consumi di energia.
Ad esempio fra il 1950 e il 1990 le tonnellate di carbonio emesse per ogni milione di dollari di prodotto mondiale lordo sono state ridotte del 39% (da 250 a 150 tonnellate) e questa riduzione evidenzia un significativo aumento di efficienza. Ma nello stesso periodo le emissioni mondiali di carbonio da combustibili fossili, in ragione di un vertiginoso aumento della produzione, sono passate da circa 1 ml di tonnellate del 1950 a più di 6 ml di tonnellate nel 2000.
È dunque possibile una riduzione delle emissioni attraverso l’aumento dell’efficienza dei processi e dei prodotti solo se essa è accompagnata da una revisione dei criteri su cui si fonda il modello e quindi solo se si riducono gli sprechi, le merci, i consumi.

 

La soluzione di superamento del modello: ridurre, rallentare, riutilizzare

La soluzione prospettabile al fine di ridurre il riscaldamento del pianeta è quella di modificare i caratteri del modello consumistico e globalizzato promuovendo modalità di esistenza in condizione di non alterare dell’ambiente.
Per fare questo è necessario ridurre la quantità di merci, di movimenti, di scambi, di ridurre in sintesi la grandezza del mercato e la quantità degli oggetti commercializzabili; è necessario rallentare le azioni svolte, allungando i tempi del loro svolgimento; è necessario usare e riutilizzare gli oggetti e le merci fino a quando esse presentino la capacità di svolgere la loro funzione.
Così facendo si eliminerebbero quei comportamenti energivori, contrari ai precedenti, che per essere svolti consumano energia e materiali, tempo e spazio e quindi direttamente producono emissioni.
I livelli di azione praticabili sono la denuncia, la proposizione di comportamenti attuabili da altri soggetti, e l’azione diretta.

Proporre
Nessuno stato, in un modello di libero mercato, può e vuole imporre una tendenza ai produttori ed al mercato stesso. Nessun paese, che applichi quel modello, riuscirà a gestire la riduzione delle emissioni: esse si ridurranno se e quando il mercato, ovvero coloro i quali gestiscono i profitti che da esso scaturiscono, avranno la convenienza a comportarsi in altra maniera
Alla riscontrabile congenita incampacità da parte di questo sistema a modificare il proprio atteggiamento si aggiunge il sospetto che le modificazioni socio politiche prodotte dal riscaldamento, se adeguatamente gestite dai forti, possano esser vantaggiose per alcuni stati.
Questa condizione può diventare un grande “business”: aumenta il divario tra ricchi e poveri e consolida i poteri dei potenti.
L’enorme dispendio di energia che caratterizza lo “sviluppo” dei paesi e che segna la colonizzazione del globo da parte del modello di vita occidentale, consumistico e assoggettato alle leggi del mercato, non implica affatto un aumento del “benessere”; anzi le società a basso consumo energetico sono spesso più equilibrate, meno esposte alle contraddizioni e alle lacerazioni sociali e umane che il nostro modello comporta, con una migliore relazione con la natura e l’ambiente, con una maggiore autonomia politica e sociale.
È dunque fondamentale denunciare come il modello occidentale sia in realtà sostenuto dall’interesse di pochi e sostenga l’interesse di pochi, e che il benessere che si affanna a proporre al mondo nasconda in realtà la difesa di un privilegio riservato a chi ne può disporre.
Il modello globale proposto non può modificare le cause che originano i cambiamenti climatici perchè l’intervento risolutivo sarebbe diretto ad un benessere diffuso e di cui tutti potrebbero usufruire direttamente, mentre le azioni che guidano questo modello di società sono basate sulle merci, sul profitto, sul beneficio privati.

Denunciare

L’azione di proporre nuove soluzioni e la richiesta alle amministrazioni ed agli operatori per modificare politica e criteri operativi al fine di una riduzione delle emissioni è fondamentale. Mantenere sotto pressione con richieste concrete, fattibili che migliorino effettivamente anche un poco le condizioni complessive è indispensabile per permettere almeno la permanenza della tensione verso il miglioramento, tensione che in assenza di stimoli scomparirebbe, fagocitata dalle logiche di mercato.
Ma tutto ciò deve essere fatto con la consapevolezza che il miglioramento riformista, inteso come un lento ma ineluttabile processo, in presenza delle attuali regole sociali non è garanzia di buon fine. Anzi, ottiche riformiste, miglioriste, buoniste, si infrangono contro interessi eccessivi, illogici, potenti per affrontare i quali non si possono adattare finalità e comportamenti alle loro logiche ma è necessario, mantenendo la propria autonomia, richiedere con consapevole energia e semplicità una contaminazione della loro prassi.
In quest’ottica le pressioni presso le amministrazioni pubbliche o gli operatori privati per tentare di modificarne seppur di poco i comportamenti può aver un valore.
Tra i grandi ambiti di intervento il primo è la richiesta di mettere in atto sistemi di produzione energetica a minore impatto sul clima. Vi è la possibilità di sostituire a impianti tradizionali a combustibili fossili soluzioni che afferiscono all’uso delle biomasse, dell’energia eolica e di quella solare. Ciascuno di questi sistemi non può autonomamente riuscire a soddisfare il fabbisogno energetico degli stati ricchi ma l’insieme di queste soluzioni, se debitamente promosse e quindi adeguatamente diffuse, può soddisfare le esigenze energetiche dei paesi.
Il secondo è riportare sui produttori i costi ambientali e sociali delle merci, caricando quindi i costi dei singoli prodotti dell’effettivo onere che la comunità sostiene. In questo quadro il petrolio avrebbe, proprio in ragione dell’inquinamento ambientale e dei danni alla salute dei cittadini, un prezzo molto superiore a quello attuale.
Questa misura potrebbe essere estesa a tutti coloro i quali emettono sostanze inquinanti nei loro processi produttivi e potrebbe essere combinata con un’azione di sgravi fiscali e di incentivi per coloro che invece non inquinano o hanno posto in atto soluzioni a minor impatto.
Il terzo è di puntare ad una politica dell’efficienza e quindi stimolare le amministrazioni e gli imprenditori ad adottare soluzioni ottimali al fine della riduzione delle emissioni e al risparmio energetico.
Queste ipotesi sono fattibili e totalmente compatibili con l’attuale struttura imprenditoriale e di mercato (riducendo lievemente i profitti) e sono già perseguite in numerosi paesi in cui i governi, dietro lo stimolo dei cittadini, hanno preso atto della loro attuabilità e hanno proceduto, non senza difficoltà, alla loro sperimentazione.
Molto più difficile da promuovere nelle amministrazione e tra i produttori è invece la riduzione della produzione e dei consumi, obiettivo questo inalienabile per una qualsiasi ipotesi di sostanziale miglioramento ambientale e sociale. Attualmente la sensibilità in questo campo riguarda solo pochi operatori che risolvono il problema della riduzione delle entrate per la limitazione delle quantità con l’aumento dei prezzi dei prodotti venduti. In una società dei consumi parlare di riduzione delle quantità assume l’immagine del suicidio imprenditoriale.
La strategia da attuare dovrebbe essere improntata a ricostruire il senso e la capacità di autogestirsi delle singole comunità insediate contribuendo a farle uscire dal mercato e così direttamente incidendo sulle dimensioni e la potenza di quest’ultimo.
L’obiettivo è quello di recuperare una gestione diretta da parte delle comunità della produzione energetica, sganciandosi dai grandi produttori di energia e dai loro interessi, recuperando l’autonomia energetica che è stata ed è alla base di una qualunque comunità non succube.
Sarebbe questa un’autonomia energetica che passa attraverso l’uso di risorse rinnovabili, il cui uso non danneggia i sistemi naturali (vento, acqua, sole) e dunque passa attraverso la consapevolezza di un rapporto paritetico con l’ambiente di cui l’individuo e la comunità sono parte.
L’opposizione alle forme di artificializzazione della vita quotidiana è l’opposizione alla dipendenza da chi gestisce e mercifica tali forme; un equilibrio con l’ambiente naturale ed il sapiente uso delle sue risorse è l’unica garanzia per la comunità di poter vivere liberamente.
In questo anche il problema della mobilità deve essere affrontato in chiave energetica e culturale. È incredibile come i mezzi di trasporto siano stati uniformati appunto a quelli prodotti dal mercato monopolistico del motore a scoppio. Anche in questo il recupero di un’autonomia locale è il primo passaggio da compiersi e tale recupero passa attraverso la consapevolezza, per esempio, che l’automobile non è uno strumento efficiente: essa ci garantisce sì una elevata mobilità ma l’abuso di questa mobilità produce un danno così forte da minare le condizioni stesse del nostro vivere, quindi da questo punto di vista è uno strumento “deficiente”.

Fare per ridurre
Ogni occidentale ha un peso energetico 20 volte superiore e a quello di un abitante del terzo mondo. 100.000.000 di occidentali “pesano” come 2.000.000.000 di uomini del terzo mondo o di 1.500.000.000 uomini “medi”.
Un gruppo di iniziative possono essere direttamente attuate: per quanto riguarda, ad esempio, l’aumento dell’efficienza della propria abitazione da un punto di vista del risparmio energetico l’attuazione passa attraverso l’aumento dell’isolamento, l’uso di illuminazione a basso consumo, l’uso degli elettrodomestici in maniera adeguata; o l’aumento dell’efficienza della propria automobile passa attraverso un uso ridotto, la scelta della piccola cilindrata, la scelta di velocità moderate.
Ma il carattere principale dell’azione praticabile è quello di consumare di meno di acquisire il minor numero di merce possibile.
Ogni individuo muovendosi velocemente e consumando energia emette calore.
Primo sistema per ridurre il riscaldamento globale è rallentare. Rallentare la velocità degli spostamenti, rallentare il ritmo degli acquisti, rallentare ...
Primo sistema per rallentare è selezionare e ottimizzare il fare.
La vita delle persone del modello consumi-mercato è piena di azioni produttive; vi è una vera ansia del produrre, ansia connessa all’accumulo del denaro, unico strumento che dà il benessere. Vi è anche un’ansia del fare cose concrete, testimoniali di un’esistenza che si sostanzia con il segno delle proprie tracce; spesso si sostituisce con esse un vuoto di ragione, un vuoto che corrisponde alla mancanza di riconoscimento del proprio fare nel fare collettivo, nell’avere un comune benessere.
La ricerca del benessere individuale, astratto da quello della comunità in cui si attua, è fortemente dispendioso in termini di risorse e di energia.
Probabilmente sottrarsi alla “frenesia produttiva”, ristabilendo fondamentali equilibri e relazioni con mondo delle cose e degli uomini, sarebbe un buon modo per iniziare a modificare il micidiale ingranaggio che oggi pretende di governare il mondo.

Bibliografia

AA.VV. (1998), I cambiamenti climatici, in L’ambiente in forma, anno I n. 4, Ministero dell’Ambiente, Roma
AA.VV. (1999), Climate Crisis, numero speciale The Ecologist vol. 29 n. 2
AA.VV. (2001), Climate Change. Time to act, The Ecologist report, nov. 2001
Abramovitz J.N. (2001), Evitare le calamità “naturali”, in Brown L.R., Flavin C., French H., State of the World 2001, Edizioni Ambiente, Milano
Bologna G. (a cura) (2000), Italia capace di futuro, EMI, Bologna
Bright C. (1997), Seguire l’ecologia del cambiamento climatico, in Brown L.R. ed altri, State of the World 1997, ISEDI, Torino
Bright C. (2000), A confronto con le “sorprese” ambientali, in Brown L.R., Flavin C., French H., State of the World 2000, Edizioni Ambiente, Milano
Bunyard P. (2000), Fidding while the Climate burns, in The Ecologist, vol.30 n.2, apr 2000
Commoner B. (1980), La politica dell’energia, Garzanti, Milano
Donati A., Masullo A. (2000), Clima: Italia in ritarso sugli obiettivi di Kyoto, in Attenzione n 17, Editrice Edicomp
Dunn S. (2001), Meno carbonio nel sistema energetico, in Brown L.R., Flavin C., French H., State of the World 2001, Edizioni Ambiente, Milano
European Commision, UNDP (1999), Energy as a Tool for Sustainable Devolopment for African, Caribbean and Pacific countries, EC-UNDP, Bruxelles-New York
Fagan B. (2001), La rivoluzione del clima. Come le variazioni climatiche hanno influenzato la storia, Sperlin & Kupfer Editori, Milano
Flavin C. (1996), Affrontare i rischi del cambiamento climatico, in Brown L.R. ed altri, State of the World 1996, ISEDI, Torino
Flavin C., Dunn S. (1998), La minaccia del cambiamento climatico, in Brown L.R., Flavin C., French H., State of the World 1998, Edizioni Ambiente, Milano
French H. (2000), Ambiente e globalizzazione. Le contraddizioni tra neoliberismo e sostenibiltà, Edizioni Ambiente, Milano
Gelbspan R. (1988), Clima rovente, Baldini & Castoldi, Milano
Gribbin J. (1988), Il clima e i suoi effetti. Come cambiano il territorio e la vita degli uomini per effetto delle mutazioni climatiche, Franco Muzzio Editore
Iacomelli A. (1998), Kyoto: El Gringo sta cambiando il clima del Pianeta, WWF, Roma
Loh J. (1997), Mutamenti climatici e aree protette, in Attenzione n. 7/8, Editrice Edicomp
Lombardi P. (1996), Il clima cambia. Una sintesi del Secondo Rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC), in Attezione (Dossier), n. 2, Edizioni Ambiente
Lovins A.B. (1979), Energia dolce, Bompiani, Milano
Mastny L. (2000), Lo scioglimento dei ghiacci, in Brown L.R., Renner M., Halweil B., Vital Signs 2000, Edizioni Ambiente, Milano
Ministero dell’Ambiente (2001), Relazione sullo stato dell’ambiente, Min.Ambiente, Roma
Navarra A., Pinchera A. (2000), Il clima, Editori Laterza, Bari
Retallack S. (1997), Kyoto: Our Last Change, in The Ecologist, vol.27 n.6, nov/dic 1997
Retallack S., Sobhani L. (2001), Perché il clima impazzisce?, in Capitalismo, Natura, Socialismo n. 11, anno IX, fascicolo 39
Roodman D.M. (1998), La ricchezza naturale delle nazioni. Come orientare il mercato a favore dell’ambiente, Edizioni Ambiente, Milano
UNDP, UNEP, World Bank, World Resources Institute (2000), World Resources 2000-2001. People and Ecosystems, Washington-Oxford
UNFPA (2001), Lo stato della popolazione nel mondo 2001. Popolazione e cambiamenti ambientali, AIDOS, Roma
Vellinga P., Van Verseveld W.J. (2000), Climate Change and extreme weather events, WWF, Gland (Svizzera)
von Weizsacker E.U., Lovins A.B., Lovins L.H. (1998), Fattore 4. Come ridurre l’impatto ambientale moltiplicando per quattro l’efficienza della produzione, Edizioni Ambiente, Milano
Wackernagel M., Rees W.E. (2000), L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, Edizioni Ambiente, Milano
WWF Internazionale (2001), Sale la febbre del Pianeta. Sintesi del III Rapporto per i decisori politici dell’International Panel on Climate Change, in Attenzione n. 22, Edizioni Edicomp, Roma
WWF, UEA (1996), Climate Change and Southern Africa: an exploration of some potential impacts and implications in the SADC region, WWF, Gland (Svizzera)

Questo volantone
è stato realizzato da Adriano Paolella e Zelinda Carloni. Per contattarli via e-mail, scrivete a antiglo@email.it

Questo volantone è il terzo di una serie – tutta curata da Adriano e Zelinda – iniziata con Globalizzazione - Idee per capire, vivere ed opporsi al nuovo modello di profitto, uscito nel n. 274 (estate 2001) in versione bilingue (italiano ed inglese) in coincidenza con la mobilitazione a Genova contro il G8.
Nel novembre 2001 è poi seguito Le strategie della fame, supplemento al n. 276. realizzato in vista del vertice di Roma (poi rimandato) della FAO. Ne sono previsti altri, in un prossimo futuro.
Chi volesse ricevere copie singole e/o per la diffusione, ci contatti per conoscerne disponibilità e prezzi.

Questo volantone esce come supplemento al n. 279 (marzo 2002) della rivista mensile anarchica “A”, direttrice responsabile Fausta Bizzozzero, registrazione al tribunale di Milano n.72 in data 24.2.1971, stampa e legatoria Sap s.n.c. (Vigano di Gaggiano - Mi).

Il prossimo volantone, uscira in estate e sarà dedicato all’uso delle risorse in vista degli incontri internazionali di Johanesburg.

“A” esce regolarmente 9 volte l’anno dal febbraio 1971. Non esce nei mesi di gennaio, agosto e settembre. È in vendita per abbonamento postale, in numerose librerie e presso centri sociali, circoli anarchici, botteghe ecc.. Se ne vuoi una copia/saggio, chiedicela. Siamo alla ricerca di nuovi diffusori.

Per qualsiasi informazione, compresa la lista completa dei nostri “prodotti” (volantone antifascista, Letture di Bakunin, Kropotkin, Malatesta e Proudhon, volantoni della serie anti-globalizzazione, maglietta “Segno Libero”, poster di Malatesta 1921, cd+libretto di Fabrizio De André “ed avevamo gli occhi troppo belli”, dossier “Signora libertà, signorina anarchia” dedicato a De André, lista di oltre cento cd, mc, ecc. della ‘Musica per “A”’, ecc.) contattaci. Se ci fai avere per fax, e-mail o in segreteria telefonica il tuo indirizzo completo, ti spediamo a casa tutte le info necessarie per poter ordinare quello che vuoi.

Una copia di “A” costa e 3,00, l’abbonamento annuo e 30,00, quello estero e 40,00, l’abbonamento sostenitore da e 100,00 in su. .

Editrice A, cas. post. 17120, I - 20170 Milano
tel. (+ 39) 02 28 96 627,
fax (+ 39) 02 28 00 12 71
e-mail arivista@tin.it
sito web www.anarca-bolo.ch/a-rivista
conto corrente postale 12 55 22 04
conto corrente bancario n. 6.81 presso ag. Milano 11
del Monte dei Paschi di Siena (Abi 01030, Cab 01612)