Il riscaldamento globale
La temperatura del pianeta continua ad aumentare.
Negli ultimi 140 anni la temperatura media della superficie
terrestre ha subito un innalzamento medio globale di 0,6°C,
con il maggior incremento di circa lo 0,2°C per l’ultimo decennio.
Il 1998 è stato l’anno più caldo rilevato nella storia e i dieci
anni più caldi negli ultimi 120 sono tutti successivi al 1981,
tra di essi sei sono successivi al 1990.
Dal 1948 al 1998 la temperatura degli oceani è aumentata di
0,31°C fino ai 300 metri di profondità e di 0,06°C fino ai 3000
metri.
Il cambiamento delle temperature non è uniforme; le aree che
hanno subito la massima variazione sono state quelle terrestri
(che si riscaldano più velocemente di quelle marine) e quelle
situate tra i 40°N e i 70°N.
In Italia la temperatura è aumentata negli ultimi 100 anni di
0,7°C al nord e di 0,9°C al sud.
Queste variazioni delle temperature, che a livello assoluto
sembrano di ridotta entità, in realtà comportano effetti sconvolgenti
sui sistemi naturali che hanno possibilità di esistere in ambiti
di variazione molto ridotti. Il pianeta vive in uno spessore
di pochi chilometri, tra le profondità dei mari e la parte alta
dell’atmosfera, ed è biologicamente attivo in maniera significativa
in una pellicola spessa, nel mare, poche decine di metri e sulla
terra poche decine di centimetri.
Questa pellicola può esistere solo se le temperature ed il loro
andamento giornaliero e stagionale rimangono molto simili a
quelle attuali: la loro modificazione anche di pochi decimi
di grado ne comporta prima la modificazione e poi la scomparsa.
Le registrate variazioni delle temperature hanno modificato
la quantità e l’andamento dei venti, della nuvolosità e delle
precipitazioni. Interi habitat si sono modificati e solo in
alcuni casi potranno essere sostituiti da sistemi naturali maggiormente
adatti alle condizioni createsi.
La velocità dei cambiamenti rende, infatti, traumatica e spesso
impossibile l’evoluzione degli ecosistemi, favorendo situazioni
di degrado diffuso dei suoli superficiali, erosioni, perdita
del terreno vegetale, desertificazione, con una situazione particolarmente
grave per gli ecosistemi in condizioni già limite.
Le modificazioni delle temperature avranno effetti anche sull’assetto
sociale del pianeta. Ad esempio, già si sta modificando la localizzazione
e la produttività delle aree agricole: dove storicamente si
praticava l’agricoltura, e dunque in massima parte dove si è
concentrata la popolazione mondiale, è già in atto una riduzione
della produttività; dove non vi sono popolazioni insediate (aree
maggiormente prossime al circolo polare artico) stanno aumentano
le potenzialità agricole a seguito del manifestarsi di situazioni
climatiche più favorevoli.
E come se si stesse riazzerando un gioco: nello sfruttamento
delle risorse si riducono i vincoli derivanti dalle abitudini
consolidate, dalla gestione diretta della produzione da parte
delle comunità, dalla richiesta e conflittualità sociale.
Un incubo di pioggia, fango, siccità, calore, che interesserà
buona metà del territorio planetario, creerà un’emergenza in
cui le società saranno costrette a soffrire e cambiare (quando
potranno), e questo incubo renderà possibile l’accrescersi e
il consolidarsi di nuovi interessi non condivisi, privati, di
mercato.
Tutto ciò non deve essere pensato come uno scenario futuro:
è già in essere. Tra le innumerevoli situazioni possibili si
cita solamente l’aumento del fenomeno dell’acqua alta a Venezia,
che è direttamente connesso all’innalzamento del livello del
mare, e che manda sott’acqua parti sempre più estese della città,
per un tempo sempre più lungo, per una frequenza annuale sempre
maggiore.
La risoluzione di questa nuova situazione climatica è molto
impegnativa da risolvere, perché comporterebbe il cambiamento
dell’intero sistema produttivo, di mercato, insediativo. Ed
è ulteriormente difficile perché se anche oggi, subito,
ora, si cambiasse il modello subiremmo gli effetti di quanto
già fatto per almeno altri cento anni prima di stabilizzare,
modificate, le condizioni del pianeta.
Alcune
conseguenze già riscontrabili
Il
diverso riscaldamento, delle diversi latitudini e delle
aree marine rispetto a quelle terrestri, ha comportato
una modificazione dell’intero sistema meteo climatico
del pianeta. Vi sono zone in cui le precipitazioni
sono aumentate (settentrione degli Stati Uniti +10-15%,
Europa settentrionale) e zone in cui sono diminuite (Europa
del sud, Sahel, Africa occidentale).
A partire dal 1950 l’atmosfera che sovrasta gli oceani
è diventata più nuvolosa ed all’altezza dei tropici vi
è stato un aumento dei temporali; sulle regioni tropicali
e sub-tropicali dell’Africa e dell’Indonesia le piogge
sono diminuite già dagli anni sessanta.
Vi è stato un incremento della percentuale delle precipitazioni
durante forti nubifragi (il 10% del totale delle precipitazioni
nel 1997 contro l’8% dell’inizio secolo).
La maggior parte dei disastri ambientali provocati
dai cambiamenti climatici è causata da comportamenti ecologicamente
distruttivi e da scelte politiche pericolose che interessano
maggiormente i paesi più disagiati e sottosviluppati.
L’Asia è il continente più colpito: le catastrofi per
eventi climatici hanno provocato il 77% del totale delle
perdite di vite umane, il 90% delle persone rimaste senza
casa e il 45% dei danni economici.
Negli ultimi cinquant’anni eventi denominati come “grandi
catastrofi naturali” hanno conosciuto un aumento vertiginoso
passando dalle 20 “grandi” catastrofi degli anni ’50,
alle 47 degli anni ’70, alle 86 degli anni ’90.
Nel biennio 1998-99 ci sono stati oltre 120.000 morti
legati ad eventi meteoclimatici eccezionali, e milioni
di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie
abitazioni in seguito a calamità naturali. Negli ultimi
vent’anni quasi 1,5 Mld di persone sono state colpite
da alluvioni, tempeste di vento, frane.
Tale aumento è attribuibile, oltre che alla variazione
dei fattori meteorologici, anche ad una gestione errata
del territorio. Ad esempio, le alluvioni causate dallo
Yangtze nel 1998 hanno provocato più di 4.000 vittime,
colpito 223 milioni di persone, inondato 25 milioni di
ettari di terre coltivate, causato danni per oltre 36
miliardi di dollari. A parte l’eccezionalità delle precipitazioni,
un fattore che ha determinato la portata catastrofica
dell’evento è costituito dalla massiccia opera di deforestazione
degli argini collinari attuata nei decenni precedenti
(prima del disastro il bacino dello Yangtze aveva visto
scomparire l’85% della sua copertura forestale). La scomparsa
delle foreste, che normalmente fanno da scudo alle piogge
consentendo alla terra di assorbirle, lasciò scorrere
le acque che trascinarono gli strati superficiali del
terreno: la massa di fango precipitò a valle attraversando
zone ormai completamente spoglie.
Il taglio delle foreste rende i fenomeni di siccità
più gravi anche negli anni piovosi, poiché favorisce il
processo di inaridimento del terreno; sono stati eventi
di questo genere ad alimentare i violentissimi incendi
che nel ‘97-’98 devastarono Indonesia e Brasile.
Circa 20 ml di kmq, pari al 15% della superficie emersa
del pianeta, sono già affetti da qualche grado di desertificazione
(i deserti coprono attualmente il 30% della superficie
emersa).
Il livello del mare si è innalzato di circa 10-12
cm negli ultimi 100 anni. L’aumento della temperatura
del mare aumenta il volume dello strato delle acque superficiali
(circa 1 cm per ogni 0,1°C, quindi a 0,6°C di aumento
corrispondono 6 cm) cui si aggiungono 2-5 cm derivati
dallo scioglimento dei ghiacciai.
Nell’ultimo secolo i ghiacciai sul monte Kenya
hanno perso il 92% della loro massa e quelli sul Kilimanjaro
il 73%; il numero dei ghiacciai in Spagna è passato dai
27 del 1980 ai 13 del 1999; i ghiacciai dell’Europa alpina
hanno perso il 50% del loro volume nell’ultimo secolo.
I ghiacciai marini nell’emisfero settentrionale
sono diminuiti, dal 1978 al 1998, di 370.000 kmq ogni
dieci anni. Complessivamente l’estensione dei ghiacci
artici si riduce del 2,9% per decennio, con una riduzione
diffusa anche significativa del loro spessore.
Effetti sono riscontrabili nella fauna. Gran parte
degli insetti, per la loro maggiore capacità adattativa
e lo smisurato “arsenale” genetico, aumenterebbero i loro
areali e la loro presenza temporale nel corso delle stagioni.
Ad esempio, il riscaldamento dell’Alaska è probabilmente
alla base dei danni al fogliame provocati da un verme
parassita dell’abete rosso su 20 ml di ettari di foresta
[17]; sempre a titolo esemplificativo tra gli insetti
i tarli nel 2020 potranno iniziare i loro voli migratori
25 giorni prima, il che vuol dire che potrebbero colonizzare
zone nell’Europa settentrionale che hanno in passato raggiunto
raramente con effetti dirompenti sul patrimonio forestale.
1/4 delle specie oceaniche conosciute e almeno il 65%
della fauna ittica marina trovano rifugio nel sistema
corallino; se la temperatura del mare supera i 28°C
i polipi che vivono nel corallo espellono le alghe presenti
nei loro e il corallo sbianca; se tale condizione persiste
i coralli muoiono in quanto si alimentano con la fotosintesi
attuata dalle alghe. In tutte le barriere coralline del
mondo all’inizio degli anni ‘90 vi erano aree sbiancate;
nella seconda metà degli anni ‘90 in un vasto tratto dell’Oceano
Indiano, dove la temperatura delle acque aveva anche superato
i 30°C, il 70% delle barriere erano morte.
|
Le cause e i motivi
L’innalzamento della temperatura del pianeta è
causato da una serie di fattori concomitanti di diversa incidenza.
Nel modello di società occidentale lo svolgimento delle attività
produttive comporta l’emissione, diretta o indiretta, nell’atmosfera
di sostanze che provocano il fenomeno chiamato “effetto serra”
la cui presenza ed incremento provoca l’innalzamento della temperatura.
Principale, ma non unico, gas-serra è l’anidride carbonica,
emessa in grandissima parte dall’uso dei combustibili fossili.
Tale uso libera attualmente nell’aria circa 6 miliardi di tonnellate
di carbonio ogni anno, aggiungendo ogni anno 3 miliardi di tonnellate
ai 170 miliardi accumulati a partire dalla rivoluzione industriale.
Dal periodo pre-industriale il biossido di carbonio è aumentato
da 280 a 360 parti per milione in volume (ppmv), a cui si aggiungono
l’aumento della concentrazione di molte altre sostanze tra cui
il metano da 700 a 1720 ppvm, e il protossido di azoto da 275
a 3103.
La quantità di emissioni non è ugualmente ripartita tra tutta
la popolazione del pianeta: nel 1995 il 20% della popolazione
mondiale, residente nei paesi a maggiore emissione, ha prodotto
il 63% delle emissioni e il 20% della popolazione, residente
nei paesi a minima emissione, ha prodotto il 2% del totale delle
emissioni.
Come si vede dalla tabella, le emissioni procapite degli Stati
Uniti sono 20 volte superiori a quelle dell’India e 2 volte
superiori a quelle del Regno Unito.
Emissioni pro capite di carbonio da utilizzo di combustibili
(1994)
Nazione
|
Tonnellate
|
Stati Uniti |
5,26 |
Australia |
4,19 |
Canada |
3,97 |
Russia |
3,08 |
Germania |
2,89 |
Regno Unito |
2,62 |
Ucraina |
2,43 |
Giappone |
2,39 |
Sudafrica |
2,07 |
Cina |
0,71 |
India |
0,24 |
Le emissioni sono direttamente connesse principalmente
alla quantità di energia elettrica consumata, alla quantità
di merci e di processi produttivi e di smaltimento connessi
e alla mobilità, ambiti questi che bruciano le maggiori quantità
di combustibili fossili e caratterizzano il modello consumistico
globalizzato. Ma altri settori, apparentemente non incisivi,
come quello delle comunicazioni, consumano quantità significative
di energia: in Italia, il cliente che richiede la maggiore quantità
di energia elettrica è la Telecom con il 4% del totale nazionale.
Aumento delle attività che scaldano
Al di là delle emissioni, quasi tutte le attività, proprio per
le modalità con cui si svolgono, per il costante uso di strumentazioni
energivore e per l’abituale sovradimensionamento, producono
calore.
Il calore emesso da un contadino che vanga il terreno non è
confrontabile con quello di un trattore, né il calore emesso
da una persona che cammina con quello di un autoveicolo.
Proprio l’enorme abuso di strumenti comporta la presenza diffusa
di un numero infinito di fonti di calore (una fila di macchine
in una strada di campagna è paragonabile ad una fila di termosifoni
che riscalda l’atmosfera).
Riduzione dei “captatori”
La diffusa e gigantesca deforestazione in corso ha eliminato
quei “polmoni naturali”, rappresentati da boschi e foreste,
che fungevano da captatori di CO2 e da riduttori dell’effetto
serra, oltre che da stabilizzatori diretti delle temperature.
Riduzione degli “ammortizzatori”
Gli ecosistemi sono stati alterati in modo così profondo che
la loro resilienza, cioè la capacità intrinseca di assorbire
gli effetti delle avversità climatiche e ristabilirsi in nuovo
equilibrio, è drasticamente diminuita. La deforestazione, oltre
a ridurre la capacità di assorbimento del CO2 del pianeta, danneggia
i bacini idrici, fa aumentare i rischi di incendio e contribuisce
all’innesco di mutamenti climatici, mentre, per esempio, la
distruzione di paludi costiere, dune e mangrovie, elimina gli
“ammortizzatori naturali” in grado di proteggere le coste dai
tifoni marini. I periodi di siccità – e le carestie che spesso
li seguono sono innescati in parte da variabilità climatica
globale, ma vengono peggiorati da scelte sbagliate quali la
deforestazione, lo sfruttamento intensivo delle terre da pascolo,
e l’utilizzo indiscriminato dei fiumi e pozzi per l’irrigazione.
Aumento delle merci e della parcellizzazione
delle attività.
La società di mercato continua a produrre merci. La loro produzione
richiede una grande quantità di energia e gran parte dei prodotti
per funzionare ha bisogno di energia.
La domanda di energia, e quindi di consumi di combustibili fossili
per la sua produzione, è direttamente connessa al consumo delle
merci ed al sostegno fornito al modello di mercato e consumistico.
Inoltre l’energia stessa è una merce che viene prodotta e venduta
da soggetti che hanno interesse ad aumentare i loro profitti
e quindi ad aumentarne i consumi.
Gran parte delle merci viene prodotta attraverso l’uso di parti
di natura (petrolio, carbone, legna ecc.); questa selvaggia
spoliazione non si interrompe in presenza di interessi comuni
e si attua esclusivamente in ragione di un profitto privato.
Ciò è facilitato della mancanza di controllo, da parte delle
comunità, delle risorse e dei consumi. Inoltre le attività si
svolgono in una elevata frammentazione delle varie fasi in cui
si compongono, sistema tipico dell’industrializzazione, frammentazione
che determina una profonda inconsapevolezza, da parte sia dei
produttori diretti sia dei consumatori, degli effetti ambientali
e sociali apportati e parcellizza le responsabilità.
Prendere la legna nel bosco, tagliarla, portarla presso l’abitazione,
ritagliarla, sistemarla, portarla alla stufa, pulire la stufa.
Queste azioni erano svolte da una sola persona che, comprendendo
la fatica del suo agire, cercava soluzioni economiche di riscaldamento
(stufe efficienti), soluzioni che rendessero necessaria la minore
quantità di calore (ottimizzazione dell’edificio), soluzioni
che rendessero possibile la permanenza delle risorse negli anni
successivi (mai fare deperire il bosco).
L’uomo lavorava su un sistema e non su una sua parte e ne gestiva
la complessità.
Oggi accendere il riscaldamento, per l’individuo che ne usufruisce,
è un’azione semplice ma incosciente del fatto che questo utilizzo
comporta una serie di azioni complesse e di grande portata per
gli effetti che produce (estrazione del gasolio, oleodotto,
raffineria, trasporto, stoccaggio, trasporto e vendita al dettaglio,
produzione impianto riscaldamento, messa in opera, manutenzione
ecc)
Ognuna di queste azioni ha un soggetto promotore che da queste
trae lucro e che ha interesse ad aumentare la quantità e il
prezzo per ottenere i massimi profitti: ciascuno di questi soggetti
diviene di fatto promotore di un maggiore consumo.
Questa modalità di agire non è più semplice e conveniente né
per la comunità né per l’ambiente, è solo più funzionale alla
produzione e alla vendita dei prodotti e più funzionale all’aumento
dei consumi dai quali la produzione e la commercializzazione
trae profitti.
Leffetto
serra
In
circostanze normali, quando i raggi solari riscaldano
la Terra, una percentuale di tale calore viene di nuovo
riflessa nello spazio mentre oceani e terreni assorbono
il resto. Ma la recente intensificazione della concentrazione
di biossido di carbonio nell’atmosfera trattiene il calore
che verrebbe riflesso e che, a sua volta, si spande nelle
acque dell’oceano e provoca l’innalzamento del livello
del mare. Il riscaldamento accelera anche l’evaporazione,
mentre dilata l’aria perché possa contenere più acqua.
Il vapore acqueo risultante, sospeso nell’aria, a sua
volta cattura altro vapore, perpetuando il ciclo. Più
è il calore trattenuto, più intenso sarà l’effetto serra.
Un certo tipo di gas, nominati gas serra (anidride carbonica
CO2, metano CH4, protossido di azoto N2O, idrofluorocarburi
HFC, perfluorocarburi FFC, esofluoruro di zolfo SF6),
prodotti per gran parte dalle emissioni di combustione,
favoriscono per le loro caratteristiche fisiche e di comportamento
lo svilupparsi dell’effetto serra.
La concentrazione dei gas serra trattiene nell’atmosfera
una quantità di calore pari a quella prodotta in 300.000
impianti nucleari.
|
Le previsioni
Le emissioni globali dal 1990 al 1996 sono aumentate
del 7%.
Se non si modifica l’attuale tendenza è possibile prevedere
che le emissioni globali di carbonio da combustibile fossile
saranno nel 2010 superiori del 40% a quelle del 1990, raggiungendo
così i 9 Mld di tonnellate annue.
Per riportare il clima terrestre in una situazione di equilibrio
nel giro di poche centinaia di anni, le emissioni di carbonio
dovrebbero essere riportare al valore che oceani e foreste sono
in grado di assorbire, cioè 1-2 miliardi di tonnellate annue,
pari all’80% in meno delle attuali emissioni.
Se si volesse stabilizzare entro il 2100 la concentrazione di
CO2 a livello doppio dell’attuale (le previsioni indicano che
sarà il triplo) i livelli correnti dovrebbero calare a meno
del 30% rispetto a quelli attuali.
I possibili scenari futuri elaborati dall’IPCC, elaborazione
in cui convergono le ricerche e le tesi di oltre 2000 scienziati
mondiali e dei principali enti di ricerca, è così sintetizzabile:
· Incremento della temperatura di 2°C per l’anno 2100;
· Oltre 50 cm di innalzamento del livello dei mari per il 2100;
· Significativa perdita di specie animali e vegetali;
· Aumento delle patologie a carico degli umani (ampliamento
dell’areale della malaria, della febbre gialla, della febbre
Dengue, delle malattie cardiorespiratorie); incremento delle
malattie e delle morti a causa delle “onde di calore”, diffusione
anche nelle zone temperate di malattie infettive tipiche
delle zone tropicali;
· Modifiche significative dei cicli climatici con l’intensificazione
dei fenomeni esterni (forti precipitazioni con eventi alluvionali
alternate a lunghi periodi di siccità), alterazione degli ecosistemi
terrestri e acquatici, degradazione e aridificazione dei suoli,
modificazioni delle produzioni agricole;
· Migrazioni di massa delle popolazioni e creazione di “profughi
dell’ambiente”;
· Estinzione di culture;
· Nuova minaccia per la stabilità e la sicurezza internazionale.
Sulla base dell’andamento dei fenomeni meteorologici, la caratteristica
assunta dall’attuale situazione è quella di un “caos climatico”,
in cui freddo, caldo, pioggia, vento, maree e correnti hanno
un andamento non rispondente a quello storicamente mantenuto
e nel lungo periodo difficilmente prevedibile.
Periodi, intensità, dimensioni degli eventi sono un continuo
susseguirsi di anomalie che si situano ai massimi livelli rilevati
dalle informazioni disponibili.
Se il riscaldamento procede nell’attuale direzione lo scenario
a breve termine potrebbe avvantaggiare l’Europa settentrionale
e l’America del Nord: le stagioni agricole si allungherebbero
e sorgerebbero aziende più vicine al Circolo polare artico.
L’Europa meridionale, gran parte dell’Africa tropicale e l’America
centrale e meridionale soffrirebbero una riduzione della produttività
agricola, maggiori ondate di caldo, carenze idriche.
Circa mezzo miliardo di persone nelle zone tropicali più aride
troverebbe difficoltà ad adattarsi.
Nell’agricoltura industrializzata del nord del mondo le variazioni
non dovrebbero portare scompensi, ma per tutti coloro, e sono
la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, che aspettano
piogge e sole e da loro dipendono, la variazione sarà un dramma
e per tantissimi una tragedia.
Se invece si ipotizzano scenari a lungo termine, considerando
che le riserve di combustibili fossili esistenti sono sufficienti
a provocare un innalzamento ininterrotto dei livelli di CO2
fino al XXI secolo inoltrato, essi sono assolutamente negativi
per tutti.
Alcune
conseguenze previste
Secondo il rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel
on Climate Change- Commissione d’esperti costituita nel
1988 dal Programma sull’Ambiente delle’ONU e dall’Organizzazione
Meteorologica mondiale) del 1995 “ si prevede che la frequenza
di inondazioni, siccità, incendi e ondate di calore
aumenterà in alcune regioni” all’aumentare della temperatura.
L’aumento calcolato al 2100 varia tra il minimo
di 1,3°C e i 4,0°C, con l’emisfero nord si scalderà due
volte di più rispetto alla media e quindi tra i 2,5°C
e gli 8°C.
Le precipitazioni complessive medie aumenteranno
dal 4 al 20%, anche in questo caso non uniformemente;
nell’area dell’Europa meridionale è possibile ipotizzare
periodi di siccità più frequenti superiori ai 30 giorni
(fattore di aumento da 2 a 5 volte) e la diminuzione delle
precipitazioni del 22%.
L’aumento medio del livello del mare è previsto
tra i 17 e i 99 cm per il 2100 e proseguirà anche a stabilizzazione
delle concentrazione di gas-serra avvenuta fino al 2300
tra i 50 e i 200 cm.
Effetti connessi alla modificazione della circolazione
dell’atmosfera (El Niño, cicloni extra-tropicali,
concentrazioni delle piovosità ecc.): sono oggi poco attendibilmente
valutabili nei loro futuri caratteri ma sicuramente saranno
presenti con un’entità accresciuta rispetto a quella già
manifestatasi nell’ultimo decennio.
Altri effetti previsti sono connessi alla modificazione
della grande corrente oceanica che oggi si muove,
portando caldo nell’Europa del nord, proprio in ragione
di una diversa temperatura tra le acque fredde del nord
e quelle calde del sud. Se la temperatura delle acque
del nord aumenta si potrebbe arrivare ad un ristagno della
corrente che non riscalderebbe più il nord Europa, trasformando
il suo clima e rendendolo simile a quello del Labrador
(stessa latitudine ma non interessato alla corrente del
Golfo).
Entro il 2050 potrebbe scomparire 1/4 dei ghiacci montani
e entro il 2100 la metà; si stima che i ghiacciai himalayani
si ridurranno nei prossimi 35 anni del 20%, compromettendo
le disponibilità d’acqua per 500 ml di indiani che vivono
lungo gli affluenti dell’Indo e del Gange.
Entro il 2050 si verificherà un cambiamento nel tipo della
vegetazione predominante delle aree protette che
interesserà il 24% della loro superficie. 1/3 delle foreste
subirà un enorme cambiamento; in particolare le foreste
tropicali, molto sensibili all’umidità, si modificheranno
in ragione dell’aumento della temperatura che aumenterà
l’evaporazione e ridurrà l’umidità.
L’aumento della temperatura di 2°C sposta le fasce climatiche
latitudinali di circa 400 km e quella altitudinali di
circa 400 metri di quota. Tutti i sistemi montani saranno
e molti scompariranno.
|
Gli
accordi internazionali
Nonostante la messe di dati sperimentali a disposizione
ci sono soggetti che ancora sostengono la naturalità del
cambiamenti climatici, ovvero la marginalità dell’incidenza
del fattore umano.
Tali posizioni, sostenute per gran parte dagli esperti
consulenti delle grandi multinazionali del settore energetico
e petrolifero statunitensi, hanno indirizzato la politica
degli Stati Uniti, i maggiori responsabili delle emissioni
planetarie ed hanno, attraverso di essa, operato un freno
all’individuazione di soluzioni alternative.
Ancora oggi, al di là di ogni ragionevole ipotesi, campagne
informative, evidentemente pilotate da interessi precisi,
tendono a mantenere l’opinione pubblica nel dubbio. Il
problema non è da sottovalutare. Infatti se venisse riconosciuta
la responsabilità dei comportamenti umani sulle modificazioni
del clima, sarebbe poi difficile negare l’attuazione di
misure “riparatrici”.
In realtà è stata ormai chiaramente stabilita la dipendenza
tra variazioni climatiche ed emissioni serra, e questo
non solo per le risoluzioni finali dell’IPCC ma anche
per le decisioni che hanno investito la comunità internazionale.
Inoltre è comunque intuitivo che non possa essere indifferente
alle condizioni complessive del pianeta l’immissione in
atmosfera di milioni di tonnellate annue di anidride carbonica.
Alcuni paesi hanno avviato azioni finalizzate alla riduzione
delle emissioni attraverso la promozione di tecnologie
innovative e di comportamenti che riducano gli sprechi
energetici.
Il protocollo di Kyoto partendo dal riconoscimento dell’incidenza
dei gas serra sui cambiamenti climatici impegna i paesi
industrializzati e quelli ad economia di transizione (Est
europeo) a ridurre complessivamente del 5% nel periodo
2008-2012 le principali emissioni antropiche dei gas serra.
Il protocollo è stato siglato da oltre 160 nazioni nel
dicembre del 1997, appunto a Kyoto, nell’ambito della
Convenzione quadro sui Cambiamenti climatici definita
a Rio de Janeiro nel 1992.
Taglio dei gas serra previsti da Kyoto ...........................................-5,2%
Taglio di fatto senza gli USA .......................................................-3,8%
Tagli accettati dall’Unione Europea ..............................................-8,0%
Tagli accettati dall’Italia ..............................................................-6,5%
Incremento di CO2 in Italia nel decennio 1990-2000 ......................+5,4%
Tagli accettati dall’Italia per il 2008..............................................-12,0%
Incremento dei gas serra negli USA dal 1999 al 2000 ...................+3,1%
Gas serra emessi dagli USA sul totale delle emissioni
.................25,0%
|
La globalizzazione,
un acceleratore di riscaldamento
L’energia pro capite consumata in un anno da un
abitante del Nord America (Canada e USA) è pari a 7.947 kg petrolio
equivalente; quella di un abitante dell’Europa (inclusi paesi
dell’Est Europa e Russia) di 3.507 kg petrolio equivalente (Italia
2.846, Francia 4.233, UK 3.894); di un abitante dell’Asia 1.635;
di un abitante del Nord Africa e Medio Oriente 1.388; del Congo
Democratico 303; del Sud America 1.202.
Gli Stati Uniti consumano energia 26 volte superiore a quella
consumata nel Congo Democratico, 6,6 volte superiore a quella
nel Sud America e 2,7 superiore a quella in Italia.
Questi dati, che corrispondono ai risultati sulle analisi delle
emissioni, mettono in diretto collegamento l’energia consumata,
e quindi il modello di vita, alla quantità di emissioni, gravando
la prima, in maniera indiscutibile, sulle seconde.
Il fatto che il consumo degli Stati Uniti sia doppio di quello
dell’Europa, visti i livelli di benessere materiale simili,
indica come vi sia nei primi come minimo la metà dell’energia
impiegata basata su sprechi di merci e prodotti, e questo rappresenta
di fatto un abuso di consumo. Tutto ciò a prescindere dalla
necessaria verifica degli sprechi e degli abusi energetici europei
che ridurrebbero ancor più la richiesta energetica di questi
paesi.
È dunque questo modello perseguito e proposto dai paesi
occidentali che è fortemente energivoro in quanto basato sul
mercato e dunque finalizzato alla produzione e commercializzazione,
una volta garantito il benessere materiale, del superfluo.
Se tutti i paesi si uniformassero ai paesi maggiormente energivori
la gravità della situazione ambientale acquisterebbe proporzioni
da disastro ambientale, ma in realtà è a questo che si sta tendendo:
obiettivo dichiarato è portare i consumi (e quindi i consumi
energetici e la produzione di gas serra e di calore) a livelli
simili a quelli statunitensi, in quanto questo permette l’allargamento
dei mercati. Indipendentemente dal benessere effettivo dei singoli
e delle comunità, in questo modello globale e consumistico il
benessere si produce con le merci.
In questo modello la merce non è strumento ma fine, in quanto
attraverso di essa si produce lucro; dunque gli sprechi non
sono intesi come un limite del sistema ma come una sua forza,
e attraverso di essi si aumenta la grandezza e la consistenza
del mercato.
Ciò a cui si assiste è dunque il continuo incremento dei consumi
energetici promossi appunto dal modello consumistico attraverso
la globalizzazione.
Confrontando quali siano stati i maggiori incrementi si nota
che i “paesi in via di sviluppo” hanno registrato una crescita
di emissioni nel periodo 1990-95 del 25% e i paesi sviluppati
dell’8%. I tassi di incremento sono spaventosi: i paesi industrializzati
sono responsabili del 76% delle emissioni complessive di carbonio
in tutto il pianeta a partire dal 1950, ma dal 1990 al 1996
le emissioni sono aumentate in Indonesia del 150%, in India
del 140%, in Cina del 130%, in Brasile del 120%.
L’atteggiamento da parte dei produttori è quello di creare mercati
al di là di ogni ragionevolezza nell’attuazione esclusiva di
un parametro economico.
Tipico è il caso degli autoveicoli: tra i principali responsabili
delle emissioni e fonte di inquinamento con il più rapido accrescimento
negli ultimi vent’anni (il parco autovetture è passato da 50
a 500 milioni di unità negli ultimi cinquant’anni) sono oggetto
di promozione anche in paesi con sistemi di mobilità alternativa
a ridotte emissioni
Le politiche di globalizzazione del commercio hanno aperto mercati
finora impermeabili: recentemente la General Motors ha firmato
con la Cina un contratto da un miliardo di dollari per la produzione
di 100.000 veicoli di media cilindrata l’anno; nuove frontiere
del commercio dell’auto si aprono anche nei confronti della
Russia; l’incremento delle automobili nei primi anni 90
nella Corea del Sud ed in Thailandia è stato rispettivamente
del 25 e del 40%.
Ma l’incremento dei consumi e delle emissioni interessa anche
soggetti che hanno già livelli di consumi insostenibili: dal
1990 al 1996 gli Stati Uniti hanno aumentato del 9% le emissioni
(si veda anche la politica energetica praticata dall’attuale
governo, tutta tesa a garantire ed aumentare gli attuali consumi
attraverso gli stessi strumenti) quando, con il 23% dell’energia
mondiale, già sono il paese con il maggiore consumo di energia
nel mondo.
Il rifiuto degli USA di sottoscrivere la convenzione di Kyoto
(gli Europei sono sempre stati più positivi e disponibili ad
una modificazione dei comportamenti) ha portato ad alleggerire
ulteriormente i contenuti e gli impegni del paese che è il maggiore
inquinatore dell’atmosfera (Marrakesh 2001) fino ai livelli
compatibili con il modello di mercato esistente ed il protocollo
di Kyoto, e successive modificazioni, è divenuto esso stesso
un ulteriore mezzo per rafforzare la politica statunitense,
ponendo opzioni sul futuro di numerosi paesi: in sintesi anche
attraverso Kyoto si sostengono i grandi produttori, non si individuano
i responsabili, si mantengono le distanze tra ricchi e poveri,
si fa mercato.
Gli Stati Uniti sono i paladini di un interesse economico che
per gran parte, ma non solo, ha sede in quello stato, propugnatore
di un modello basato sulla necessità del continuo allargamento
del mercato e praticato nella grande autonomia dell’economia
nei confronti della società e dell’ambiente.
Ed è proprio questo modello che rappresenta un ostacolo oggettivo
alla riduzione delle emissioni.
I governi liberisti non regolamentano le attività in quanto
il prelievo e il consumo indiscriminato delle risorse e l’abuso
di merci sono lo strumento ottimale per ottenere i massimi profitti.
Se uno stato aderisce alla convenzione Kyoto, ad esempio, si
pone l’obiettivo di raggiungere una riduzione delle emissioni.
Per ridurre le emissioni può agire sui produttori di energia,
che bruciano grandi quantità di combustibili fossili e quindi
emettono grandi quantità di CO2, fino a riconvertire gli impianti
esistenti in impianti a maggiore efficienza produttiva.
Ma le centrali che producono energia rispondono alle leggi del
mercato e quindi hanno l’obiettivo principale di fornire energia
a prezzi concorrenziali ed ottenere il massimo profitto sulle
loro produzioni. Essi dunque sceglieranno non i combustibili
a minore emissione ma quelli a maggiore rendimento e a minore
costo seppure maggiormente inquinanti, seppure con effetti negativi
nell’ambiente e nelle società.
Lo scenario paradossale è stato in un recente passato quello
dei governi occidentali che per non ledere gli imprenditori
intervenivano per rifondere il danno provocato dalla riduzione
di proventi. In questo caso la collettività si trovava a pagare
tre volte un prodotto: una volta acquistandolo, una volta sovvenzionandolo,
e una volta subendo i danni ambientali e sociali connessi alla
produzione. Ma questo stesso scenario, certo non risolutivo
e comunque prudente, non è assolutamente praticato dai governi
liberisti che lasciano l’iniziativa nelle mani delle stesse
imprese produttrici.
Il lasciare all’unica variabile del profitto la soluzione dei
problemi della comunità planetaria è la motivazione per cui,
anche in presenza di soluzioni tecnologiche migliorative dell’efficienza
ambientale, nessun miglioramento significativo è stato apportato
ai prodotti o alla loro maniera di essere utilizzati. Come visto,
se dallo spreco di materiali e di energia si ottiene il massimo
profitto, non si modificano gli strumenti che ad esso conducono
anche se ciò ha come conseguenza lo sconsiderato abuso delle
risorse naturale ed il sacrificio della popolazione.
Ma il modello globale proposto è ulteriormente incapace di risolvere
il problema del riscaldamento del pianeta. Infatti la soluzione
dei problemi, sia per la globalità delle manifestazioni, sia
per l’impossibilità di affrontarli localmente, non può essere
che internazionale.
In realtà il problema può essere risolto, o comunque seriamente
affrontato, solo da una comunità internazionalista ancor più
che internazionale, che non escluda soluzioni anche drastiche
per l’attuale assetto mondiale della politica e dell’economia,
ovvero che attui un’azione congiunta e diffusa di riduzione
delle emissioni e di individuazione di soluzioni a minore consumo
energetico e di minore emissione diretta di calore.
E proprio in questo il modello dei consumi globalizzato, che
si presenta come sistema di benessere universale, mostra i suoi
limiti nell’affrontare i problemi che riguardano tutti e la
sua predisposizione a dare vantaggi agli interessi dei singoli.
Il
mercato del clima
Il WTO interviene nelle scelte dei governi
Secondo le regole dettate dal WTO vale il principio per
cui “prodotti similari” non possono essere discriminati
in base alle modalità di produzione o al luogo di provenienza.
Questo significa, per esempio, che se un governo decidesse
di promuovere la produzione di automobili che garantisca
un uso significativamente minore di risorse combustibili,
il WTO ricorrerebbe al tribunale mondiale del Commercio
per violazione delle regole del commercio globale, in
quanto questa azione discriminerebbe gli altri produttori
di automobili, e ne uscirebbe vincente.
Il problema è che molti dei paesi che hanno firmato il
protocollo di Kyoto, che impegna a serie misure per la
riduzione dei gas-serra, sono anche aderenti al WTO: questo
conflitto è evidentemente destinato a non permettere di
produrre effetti significativi per quanto riguarda la
risoluzione del problema dei mutamenti climatici, o comunque
di renderla piuttosto “faticosa”.
Quel che non poté la scienza poté l’economia
I dirigenti delle assicurazioni sono preoccupati: i premi
delle compagnie e le coperture delle polizze relativi
agli eccessi del clima si sono sempre basati sulla regola
della media. Ma l’andamento dei fenomeni degli ultimi
anni li costringe a “rinegoziare la copertura”: “Il mercato
assicurativo è il primo ad essere colpito dal cambiamento
del clima…tutto il settore potrebbe andare in rovina”,
è l’affermazione di Nutter, presidente della RAA.[25]
Nei soli Stati Uniti i rimborsi assicurativi per danni
provocati dal clima negli anni ’90 sono arrivati a 57
miliardi di dollari, contro i 17 miliardi di dollari per
gli anni ’80.
Dunque, se non basta la scienza a convincere gli irriducibili
della gravità della situazione, può essere che ci riesca
l’economia di mercato…
Rimanere nell’ottica di mercato.
Ovvero come fare dell’inquinamento un businness
La ratifica impone nuove pratiche nei tagli delle emissioni,
come quella di poter ricorrere ai “meccanismi flessibili”
che prevedono di poter “bilanciare” le emissioni con la
creazione di foreste che compenserebbero il danno, ovvero
di “comprare” da altri paesi meno inquinatori (normalmente
del terzo mondo) i “diritti” per poter incrementare le
proprie emissioni, in modo che complessivamente la quantità
di gas serra rimanga dentro i parametri previsti.
Prima
regola vendere
È ormai un dato chiaro e indiscutibile anche alla
ragione comune che l’aumento dei consumi energetici è
il principale responsabile dei cambiamenti climatici in
atto, e che questi mutamenti sottopongono le popolazioni
del pianeta a eventi meteorologici eccezionali e gravi.
Chiaro per tutti, ma non per l’Amministrazione degli Stati
Uniti. In seguito ad una grave ondata di calore che colpì
alcuni anni fa gli Stati Uniti del Sud, e che provocò
parecchi morti, l’ex presidente Clinton, manifestando
il suo cordoglio e l’intenzione di porre rimedio alla
situazione, si impegnò, con grande e grave serietà, a
che “ciascun americano potesse essere dotato di un impianto
di aria condizionata, povero o ricco che fosse”. La citazione
è a memoria, essendo tratta da un’intervista televisiva
di quegli anni.
In questa maniera anche il clima diviene mezzo di business
sebbene suicida.
I governi governati tipici della globalizzazione
L’attuale politica degli USA taglia gli investimenti per
le fonti energetiche rinnovabili, alternative a quelle
fossili, del 27%, gli investimenti per progetti solari
e energia eolica calano del 49%. Il Vicepresidente dichiara
che la riduzione dei consumi energetici è una virtù personale
ma non può costituire la politica energetica del paese.
Il Presidente avvia una campagna di sfruttamento delle
risorse petrolifere nelle aree protette dell’Alaska e
dichiara che sarà necessario costruire migliaia di nuovi
impianti di produzione elettrica.
La recente politica statunitense è basata sul petrolio,
ed è stato stimato che essa aumenterà le emissioni del
Paese di circa il 35%.
Il Presidente Bush, oltre ad essere direttamente connesso
al mondo del petrolio (Bush senior è comproprietario di
società che possiedono pozzi, guarda caso, nel Golfo Persico),
è stato sostenuto nella sua campagna elettorale dall’intero
comparto petrolifero statunitense.
|
La soluzione praticata:
aumentare il controllo sociale dei territori e delle tecniche
Al di là di timorosi proclami nessuno stato ha
attivato significative azioni sulle cause del riscaldamento
globale. La scelta nei confronti del problema “cambiamento climatico”,
sostenuta al di là delle parole dai loro atteggiamenti, è di
ignorare i segnali di profonda alterazione e confermare gli
obiettivi, i criteri e le modalità del modello praticato.
Tale scelta scaturisce, come già accennato, dalla totale incapacità
da parte dei governi di modificare i comportamenti del settore
produttivo ed energetico, in quanto ciò lederebbe gli interessi
che sostengono i governi e dunque da esso difesi.
Nonostante questa considerazione, l’atteggiamento suicida messo
in atto da questo sistema globale ed imposto ai 4/5 del mondo
induce a delle perplessità; non sembra infatti verosimile, al
di là del potere esercitato dalle lobby dei produttori, che
interi stati non riescano a comprendere quale sia l’enorme rischio
che l’umanità, e dunque anche gli interessi privati che rappresentano,
stanno affrontando.
Sembra quasi che la posizione degli stati “sovrani”, abbia verificato
la possibilità di aumentare i propri vantaggi economici e militari
attraverso il mantenimento e l’incremento delle differenze ed
un migliore posizionamento dei propri poteri, piuttosto che
affrontare la possibilità di risolvere il problema..
Questo modello di mercato può, incredibilmente, trarre vantaggi
dal disastro ecologico del mutamento climatico e tali vantaggi,
già valutati, potrebbero essere la ragione della blanda risposta
degli stati.
Ad esempio, all’aumento della pressione sulle risorse idriche
ha corrisposto il crescente controllo delle stesse da parte
di governi e privati. Tale problema riguarderà maggiormente
le aree di nuova siccità e quindi l’Europa meridionale, l’Africa
e zone tropicali aumentando la loro dipendenza da soggetti esterni
e indebolendole politicamente, senza invece interessare vaste
aree dei paesi già ricchi che non avranno problemi di risorse
idriche.
Per quanto attiene l’agricoltura e il deterioramento dei
suoli la risposta è stata l’aumento della produzione artificiale.
I produttori agricoli aumentano la richiesta di semi che possano
fronteggiare situazioni di alterazioni (semi transgenici ibridi),
i quali semi però debbono essere comprati direttamente dalle
multinazionali produttrici. In tale maniera si incrementa l’asservimento
delle popolazioni agricole dei paesi poveri agli interessi dell’industria
dei paesi ricchi. Inoltre il deterioramento dei suoli renderà
necessario il cambiamento delle modalità di produzione con l’uso
maggiore di additivi chimici in zone artificializzate ad elevata
produttività. Ciò è un bene per i produttori di impianti; si
potranno vendere più serre, più impianti di irrigazione e di
riscaldamento delle stesse e ciò concentrerà di più la produzione
nei paesi che riusciranno ad effettuare tali investimenti, e
quindi nei paesi ricchi, aumentando la sudditanza dei paesi
già poveri.
Ad altri temi, come quello della modificazione delle foreste,
si risponde con l’attesa: esse non rappresentano grande interesse
per il mercato del grande profitto; il taglio delle foreste
è un bell’interesse ma a quello già sta procedendo attivamente.Altri
temi si presentano già vantaggiosi per alcuni.
Ad esempio la modificazione della produttività agricola
che migliorerà al nord (Stati Uniti del nord, Canada, Europa
del Nord, Russia) e peggiorerà al sud comporta solo dei benefici
per il modello globale. Parte delle aree ricche potrà divenire
più ricca, mentre la parte povera del mondo sarà più povera;
in questa parte si ridurrà la produttività, si ridurrà quindi
l’autonomia alimentare e, a seguito di questa, quella sociale
e politica crescendo così la dipendenza dal modello globale
Ad altri problemi connessi si risponde con soluzioni tecniche
attraverso il mercato dei prodotti. L’aumento degli eventi
meteoclimatici estremi: essi coinvolgono principalmente
popolazioni povere che non hanno alcun interesse per il modello;
quando invece si manifestano in aree con popolazioni ricche
si sta già ricorrendo all’uso di sistemi d’allarme e tecniche
per ridurre il rischio per le persone e le cose. L’aumento
del livello del mare: se esso sarà localizzato dove vi sono
interessi fondiari, produttivi, immobiliari si interverrà artificializzando
le coste (dighe, argini, difese spondali etc.); se sarà localizzato
in aree dove l’interesse è minimo (paesi poveri, ambiti naturali
etc) non si interverrà.
Anche per quanto riguarda il fastidio provocato dal già riscontrato
aumento delle temperature, nei paesi ricchi si procederà
all’uso sempre più esteso di impianti di climatizzazione degli
ambienti chiusi, ambienti che hanno già avuto un incremento
nel numero, nella estensione, nella tipologia (mercati, sport,
attività ricreative, serre ecc.). Per il resto del mondo si
perderanno enormi superfici abitabili (esodi e sofferenze).
Questo scenario che già si sta attuando, seppure senz’alcuna
dichiarazione programmatica, potrebbe essere il ragionamento
che sostiene la politica del lasciare tutto com’è messo in atto
dagli stati potenti. Esso procura (sta procurando) il riscaldamento
del pianeta, salva gli interessi di alcuni e massacra l’ecosistema
planetario e i popoli che lo abitano.
La soluzione di
ottimizzazione del modello: aumentare lefficienza
Fin dagli anni sessanta il problema dell’esorbitante
consumo energetico del modello praticato ha fatto nascere perplessità
e critiche. Alla produzione di energia sono stati connessi problemi
ambientali e sociali e si è sostanziata una ricerca tesa all’individuazione
di soluzioni alternative per la produzione e l’uso dell’energia.
Numerose sono le tecniche già individuate, operative e sperimentalmente
collaudate: sistemi per la produzione di energia a basso impatto,
soluzioni per la riduzione dei consumi e delle emissioni nei
mezzi di produzione, nei mezzi di trasporto, nelle abitazioni.
Oggi sono disponibili automobili che percorrono più di 50 km
con un litro di benzina, edifici che non abbiano perdite di
calore superiori a 50-60 kwh/mq all’anno, sono possibili risparmi
fino al 77% sull’energia per la climatizzazione degli edifici,
miglioramenti fino al 50% dell’efficienza energetica degli elettrodomestici
ecc.
Quasi tutte queste soluzioni dimostrano la loro praticabilità
nell’ambito dei sistemi produttivi e di profitto consolidati.
È dunque possibile migliorare l’efficienza energetica
della mobilità, della produzione, del commercio, dell’abitare
garantendo guadagni, accontentando industriali, immettendo sul
mercato nuove merci e riducendo di quattro o più volte il consumo
energetico.
Sembrerebbe la soluzione ottimale: garantisce il mantenimento
dell’attuale modello ed una concreta praticabilità: in sintesi
possiamo continuare a consumare senza preoccuparci. Eppure nessuna
di queste soluzioni è stata applicata in maniera diffusa: rimangono
sul mercato macchine che fanno con un litro 8 km, vengono costruiti
edifici con perdite di calore pari a circa 500 kwh/mq annui
(è la media italiana) e spaventosi consumi per la climatizzazione
.
Ciò dimostra che la praticabilità tecnica ed economica delle
soluzioni prospettate non è stata di fatto garanzia della loro
realizzabilità.
Nessuna di queste concrete e praticabili soluzioni è riuscita
a sostituire le attuali tecniche inquinanti in quanto non ha
superato le regole di convenienza dettate e praticate dall’attuale
economia. Prelevare un bene comune come il petrolio a costi
bassissimi, facendo arricchire pochi personaggi locali e alcune
multinazionali, per rivenderlo, grazie alle enormi quantità,
a basso prezzo è molto più conveniente di qualsiasi altra soluzione
praticabile quando i costi ambientali, l’inquinamento, i costi
sociali (per esempio delle malattie conseguenti), dell’alterazione
della qualità dell’habitat li paga la collettività.
Inoltre il controllo scientifico delle tecniche, la capacità
di produrle e commercializzarle, la possibilità di acquisirle
sarà possibile esclusivamente per i benestanti dei paesi ricchi.
Queste nuove soluzioni disponibili, questi nuovi prodotti in
realtà sono pronti ad aumentare il divario tra le diverse popolazioni
e tra i diversi individui. Beni pubblici, quali sono aria, clima,
acque, saranno ulteriormente privatizzati e le condizioni dell’esistenza
saranno garantite da merci e servizi acquistabili sul mercato;
in questo le tecniche approntate in risposta alle mutazioni
climatiche incrementeranno la distanza tra nord e sud ovvero
tra chi possederà le soluzioni tecnologiche e chi le dovrà acquisire.
Infine, il cammino verso quell’efficienza energetica che consentirebbe
almeno una riduzione delle emissioni diventa impraticabile senza
una contemporanea riduzione dei consumi di energia.
Ad esempio fra il 1950 e il 1990 le tonnellate di carbonio emesse
per ogni milione di dollari di prodotto mondiale lordo sono
state ridotte del 39% (da 250 a 150 tonnellate) e questa riduzione
evidenzia un significativo aumento di efficienza. Ma nello stesso
periodo le emissioni mondiali di carbonio da combustibili fossili,
in ragione di un vertiginoso aumento della produzione, sono
passate da circa 1 ml di tonnellate del 1950 a più di 6 ml di
tonnellate nel 2000.
È dunque possibile una riduzione delle emissioni attraverso
l’aumento dell’efficienza dei processi e dei prodotti solo se
essa è accompagnata da una revisione dei criteri su cui si fonda
il modello e quindi solo se si riducono gli sprechi, le merci,
i consumi.
La soluzione di
superamento del modello: ridurre, rallentare, riutilizzare
La soluzione prospettabile al fine di ridurre
il riscaldamento del pianeta è quella di modificare i caratteri
del modello consumistico e globalizzato promuovendo modalità
di esistenza in condizione di non alterare dell’ambiente.
Per fare questo è necessario ridurre la quantità di merci, di
movimenti, di scambi, di ridurre in sintesi la grandezza del
mercato e la quantità degli oggetti commercializzabili; è necessario
rallentare le azioni svolte, allungando i tempi del loro svolgimento;
è necessario usare e riutilizzare gli oggetti e le merci fino
a quando esse presentino la capacità di svolgere la loro funzione.
Così facendo si eliminerebbero quei comportamenti energivori,
contrari ai precedenti, che per essere svolti consumano energia
e materiali, tempo e spazio e quindi direttamente producono
emissioni.
I livelli di azione praticabili sono la denuncia, la proposizione
di comportamenti attuabili da altri soggetti, e l’azione diretta.
Proporre
Nessuno stato, in un modello di libero mercato, può
e vuole imporre una tendenza ai produttori ed al mercato stesso.
Nessun paese, che applichi quel modello, riuscirà a gestire
la riduzione delle emissioni: esse si ridurranno se e quando
il mercato, ovvero coloro i quali gestiscono i profitti che
da esso scaturiscono, avranno la convenienza a comportarsi in
altra maniera
Alla riscontrabile congenita incampacità da parte di questo
sistema a modificare il proprio atteggiamento si aggiunge il
sospetto che le modificazioni socio politiche prodotte dal riscaldamento,
se adeguatamente gestite dai forti, possano esser vantaggiose
per alcuni stati.
Questa condizione può diventare un grande “business”: aumenta
il divario tra ricchi e poveri e consolida i poteri dei potenti.
L’enorme dispendio di energia che caratterizza lo “sviluppo”
dei paesi e che segna la colonizzazione del globo da parte del
modello di vita occidentale, consumistico e assoggettato alle
leggi del mercato, non implica affatto un aumento del “benessere”;
anzi le società a basso consumo energetico sono spesso più equilibrate,
meno esposte alle contraddizioni e alle lacerazioni sociali
e umane che il nostro modello comporta, con una migliore relazione
con la natura e l’ambiente, con una maggiore autonomia politica
e sociale.
È dunque fondamentale denunciare come il modello occidentale
sia in realtà sostenuto dall’interesse di pochi e sostenga l’interesse
di pochi, e che il benessere che si affanna a proporre al mondo
nasconda in realtà la difesa di un privilegio riservato a chi
ne può disporre.
Il modello globale proposto non può modificare le cause che
originano i cambiamenti climatici perchè l’intervento risolutivo
sarebbe diretto ad un benessere diffuso e di cui tutti potrebbero
usufruire direttamente, mentre le azioni che guidano questo
modello di società sono basate sulle merci, sul profitto, sul
beneficio privati.
Denunciare
L’azione di proporre nuove soluzioni e la richiesta alle amministrazioni
ed agli operatori per modificare politica e criteri operativi
al fine di una riduzione delle emissioni è fondamentale. Mantenere
sotto pressione con richieste concrete, fattibili che migliorino
effettivamente anche un poco le condizioni complessive è indispensabile
per permettere almeno la permanenza della tensione verso il
miglioramento, tensione che in assenza di stimoli scomparirebbe,
fagocitata dalle logiche di mercato.
Ma tutto ciò deve essere fatto con la consapevolezza che il
miglioramento riformista, inteso come un lento ma ineluttabile
processo, in presenza delle attuali regole sociali non è garanzia
di buon fine. Anzi, ottiche riformiste, miglioriste, buoniste,
si infrangono contro interessi eccessivi, illogici, potenti
per affrontare i quali non si possono adattare finalità e comportamenti
alle loro logiche ma è necessario, mantenendo la propria autonomia,
richiedere con consapevole energia e semplicità una contaminazione
della loro prassi.
In quest’ottica le pressioni presso le amministrazioni pubbliche
o gli operatori privati per tentare di modificarne seppur di
poco i comportamenti può aver un valore.
Tra i grandi ambiti di intervento il primo è la richiesta di
mettere in atto sistemi di produzione energetica a minore impatto
sul clima. Vi è la possibilità di sostituire a impianti tradizionali
a combustibili fossili soluzioni che afferiscono all’uso delle
biomasse, dell’energia eolica e di quella solare. Ciascuno di
questi sistemi non può autonomamente riuscire a soddisfare il
fabbisogno energetico degli stati ricchi ma l’insieme di queste
soluzioni, se debitamente promosse e quindi adeguatamente diffuse,
può soddisfare le esigenze energetiche dei paesi.
Il secondo è riportare sui produttori i costi ambientali e sociali
delle merci, caricando quindi i costi dei singoli prodotti dell’effettivo
onere che la comunità sostiene. In questo quadro il petrolio
avrebbe, proprio in ragione dell’inquinamento ambientale e dei
danni alla salute dei cittadini, un prezzo molto superiore a
quello attuale.
Questa misura potrebbe essere estesa a tutti coloro i quali
emettono sostanze inquinanti nei loro processi produttivi e
potrebbe essere combinata con un’azione di sgravi fiscali e
di incentivi per coloro che invece non inquinano o hanno posto
in atto soluzioni a minor impatto.
Il terzo è di puntare ad una politica dell’efficienza e quindi
stimolare le amministrazioni e gli imprenditori ad adottare
soluzioni ottimali al fine della riduzione delle emissioni e
al risparmio energetico.
Queste ipotesi sono fattibili e totalmente compatibili con l’attuale
struttura imprenditoriale e di mercato (riducendo lievemente
i profitti) e sono già perseguite in numerosi paesi in cui i
governi, dietro lo stimolo dei cittadini, hanno preso atto della
loro attuabilità e hanno proceduto, non senza difficoltà, alla
loro sperimentazione.
Molto più difficile da promuovere nelle amministrazione e tra
i produttori è invece la riduzione della produzione e dei consumi,
obiettivo questo inalienabile per una qualsiasi ipotesi di sostanziale
miglioramento ambientale e sociale. Attualmente la sensibilità
in questo campo riguarda solo pochi operatori che risolvono
il problema della riduzione delle entrate per la limitazione
delle quantità con l’aumento dei prezzi dei prodotti venduti.
In una società dei consumi parlare di riduzione delle quantità
assume l’immagine del suicidio imprenditoriale.
La strategia da attuare dovrebbe essere improntata a ricostruire
il senso e la capacità di autogestirsi delle singole comunità
insediate contribuendo a farle uscire dal mercato e così direttamente
incidendo sulle dimensioni e la potenza di quest’ultimo.
L’obiettivo è quello di recuperare una gestione diretta da parte
delle comunità della produzione energetica, sganciandosi dai
grandi produttori di energia e dai loro interessi, recuperando
l’autonomia energetica che è stata ed è alla base di una qualunque
comunità non succube.
Sarebbe questa un’autonomia energetica che passa attraverso
l’uso di risorse rinnovabili, il cui uso non danneggia i sistemi
naturali (vento, acqua, sole) e dunque passa attraverso la consapevolezza
di un rapporto paritetico con l’ambiente di cui l’individuo
e la comunità sono parte.
L’opposizione alle forme di artificializzazione della vita quotidiana
è l’opposizione alla dipendenza da chi gestisce e mercifica
tali forme; un equilibrio con l’ambiente naturale ed il sapiente
uso delle sue risorse è l’unica garanzia per la comunità di
poter vivere liberamente.
In questo anche il problema della mobilità deve essere affrontato
in chiave energetica e culturale. È incredibile come
i mezzi di trasporto siano stati uniformati appunto a quelli
prodotti dal mercato monopolistico del motore a scoppio. Anche
in questo il recupero di un’autonomia locale è il primo passaggio
da compiersi e tale recupero passa attraverso la consapevolezza,
per esempio, che l’automobile non è uno strumento efficiente:
essa ci garantisce sì una elevata mobilità ma l’abuso di questa
mobilità produce un danno così forte da minare le condizioni
stesse del nostro vivere, quindi da questo punto di vista è
uno strumento “deficiente”.
Fare per
ridurre
Ogni occidentale ha un peso energetico 20 volte superiore
e a quello di un abitante del terzo mondo. 100.000.000 di occidentali
“pesano” come 2.000.000.000 di uomini del terzo mondo o di 1.500.000.000
uomini “medi”.
Un gruppo di iniziative possono essere direttamente attuate:
per quanto riguarda, ad esempio, l’aumento dell’efficienza della
propria abitazione da un punto di vista del risparmio energetico
l’attuazione passa attraverso l’aumento dell’isolamento, l’uso
di illuminazione a basso consumo, l’uso degli elettrodomestici
in maniera adeguata; o l’aumento dell’efficienza della propria
automobile passa attraverso un uso ridotto, la scelta della
piccola cilindrata, la scelta di velocità moderate.
Ma il carattere principale dell’azione praticabile è quello
di consumare di meno di acquisire il minor numero di merce possibile.
Ogni individuo muovendosi velocemente e consumando energia emette
calore.
Primo sistema per ridurre il riscaldamento globale è rallentare.
Rallentare la velocità degli spostamenti, rallentare il ritmo
degli acquisti, rallentare ...
Primo sistema per rallentare è selezionare e ottimizzare il
fare.
La vita delle persone del modello consumi-mercato è piena di
azioni produttive; vi è una vera ansia del produrre, ansia connessa
all’accumulo del denaro, unico strumento che dà il benessere.
Vi è anche un’ansia del fare cose concrete, testimoniali di
un’esistenza che si sostanzia con il segno delle proprie tracce;
spesso si sostituisce con esse un vuoto di ragione, un vuoto
che corrisponde alla mancanza di riconoscimento del proprio
fare nel fare collettivo, nell’avere un comune benessere.
La ricerca del benessere individuale, astratto da quello della
comunità in cui si attua, è fortemente dispendioso in termini
di risorse e di energia.
Probabilmente sottrarsi alla “frenesia produttiva”, ristabilendo
fondamentali equilibri e relazioni con mondo delle cose e degli
uomini, sarebbe un buon modo per iniziare a modificare il micidiale
ingranaggio che oggi pretende di governare il mondo.
Bibliografia
AA.VV. (1998), I cambiamenti climatici, in L’ambiente
in forma, anno I n. 4, Ministero dell’Ambiente, Roma
AA.VV. (1999), Climate Crisis, numero speciale
The Ecologist vol. 29 n. 2
AA.VV. (2001), Climate Change. Time to act, The
Ecologist report, nov. 2001
Abramovitz J.N. (2001), Evitare le calamità “naturali”,
in Brown L.R., Flavin C., French H., State of the World
2001, Edizioni Ambiente, Milano
Bologna G. (a cura) (2000), Italia capace di futuro,
EMI, Bologna
Bright C. (1997), Seguire l’ecologia del cambiamento
climatico, in Brown L.R. ed altri, State of the
World 1997, ISEDI, Torino
Bright C. (2000), A confronto con le “sorprese” ambientali,
in Brown L.R., Flavin C., French H., State of the World
2000, Edizioni Ambiente, Milano
Bunyard P. (2000), Fidding while the Climate burns,
in The Ecologist, vol.30 n.2, apr 2000
Commoner B. (1980), La politica dell’energia, Garzanti,
Milano
Donati A., Masullo A. (2000), Clima: Italia in ritarso
sugli obiettivi di Kyoto, in Attenzione n 17, Editrice
Edicomp
Dunn S. (2001), Meno carbonio nel sistema energetico,
in Brown L.R., Flavin C., French H., State of the World
2001, Edizioni Ambiente, Milano
European Commision, UNDP (1999), Energy as a Tool for
Sustainable Devolopment for African, Caribbean and Pacific
countries, EC-UNDP, Bruxelles-New York
Fagan B. (2001), La rivoluzione del clima. Come le
variazioni climatiche hanno influenzato la storia,
Sperlin & Kupfer Editori, Milano
Flavin C. (1996), Affrontare i rischi del cambiamento
climatico, in Brown L.R. ed altri, State of the
World 1996, ISEDI, Torino
Flavin C., Dunn S. (1998), La minaccia del cambiamento
climatico, in Brown L.R., Flavin C., French H., State
of the World 1998, Edizioni Ambiente, Milano
French H. (2000), Ambiente e globalizzazione. Le contraddizioni
tra neoliberismo e sostenibiltà, Edizioni Ambiente,
Milano
Gelbspan R. (1988), Clima rovente, Baldini &
Castoldi, Milano
Gribbin J. (1988), Il clima e i suoi effetti. Come
cambiano il territorio e la vita degli uomini per effetto
delle mutazioni climatiche, Franco Muzzio Editore
Iacomelli A. (1998), Kyoto: El Gringo sta cambiando
il clima del Pianeta, WWF, Roma
Loh J. (1997), Mutamenti climatici e aree protette,
in Attenzione n. 7/8, Editrice Edicomp
Lombardi P. (1996), Il clima cambia. Una sintesi del
Secondo Rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate
Change (IPCC), in Attezione (Dossier), n. 2, Edizioni
Ambiente
Lovins A.B. (1979), Energia dolce, Bompiani, Milano
Mastny L. (2000), Lo scioglimento dei ghiacci,
in Brown L.R., Renner M., Halweil B., Vital Signs 2000,
Edizioni Ambiente, Milano
Ministero dell’Ambiente (2001), Relazione sullo stato
dell’ambiente, Min.Ambiente, Roma
Navarra A., Pinchera A. (2000), Il clima, Editori
Laterza, Bari
Retallack S. (1997), Kyoto: Our Last Change, in
The Ecologist, vol.27 n.6, nov/dic 1997
Retallack S., Sobhani L. (2001), Perché il clima impazzisce?,
in Capitalismo, Natura, Socialismo n. 11, anno IX, fascicolo
39
Roodman D.M. (1998), La ricchezza naturale delle nazioni.
Come orientare il mercato a favore dell’ambiente,
Edizioni Ambiente, Milano
UNDP, UNEP, World Bank, World Resources Institute
(2000), World Resources 2000-2001. People and Ecosystems,
Washington-Oxford
UNFPA (2001), Lo stato della popolazione nel mondo
2001. Popolazione e cambiamenti ambientali, AIDOS,
Roma
Vellinga P., Van Verseveld W.J. (2000), Climate
Change and extreme weather events, WWF, Gland (Svizzera)
von Weizsacker E.U., Lovins A.B., Lovins L.H. (1998),
Fattore 4. Come ridurre l’impatto ambientale moltiplicando
per quattro l’efficienza della produzione, Edizioni
Ambiente, Milano
Wackernagel M., Rees W.E. (2000), L’impronta ecologica.
Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, Edizioni
Ambiente, Milano
WWF Internazionale (2001), Sale la febbre del Pianeta.
Sintesi del III Rapporto per i decisori politici dell’International
Panel on Climate Change, in Attenzione n. 22, Edizioni
Edicomp, Roma
WWF, UEA (1996), Climate Change and Southern Africa:
an exploration of some potential impacts and implications
in the SADC region, WWF, Gland (Svizzera)
|
Questo
volantone
è
stato realizzato da Adriano Paolella e Zelinda Carloni.
Per contattarli via e-mail, scrivete a antiglo@email.it
Questo
volantone è il terzo di una serie tutta
curata da Adriano e Zelinda iniziata con Globalizzazione
- Idee per capire, vivere ed opporsi al nuovo modello
di profitto, uscito nel n. 274 (estate 2001) in versione
bilingue (italiano ed inglese) in coincidenza con la mobilitazione
a Genova contro il G8.
Nel novembre 2001 è poi seguito Le strategie
della fame, supplemento al n. 276. realizzato in vista
del vertice di Roma (poi rimandato) della FAO. Ne sono
previsti altri, in un prossimo futuro.
Chi volesse ricevere copie singole e/o per la diffusione,
ci contatti per conoscerne disponibilità e prezzi.
Questo volantone esce come supplemento al n. 279 (marzo
2002) della rivista mensile anarchica “A”, direttrice
responsabile Fausta Bizzozzero, registrazione al tribunale
di Milano n.72 in data 24.2.1971, stampa e legatoria Sap
s.n.c. (Vigano di Gaggiano - Mi).
Il prossimo volantone, uscira in estate e sarà dedicato
all’uso delle risorse in vista degli incontri internazionali
di Johanesburg.
“A” esce regolarmente 9 volte l’anno dal febbraio 1971.
Non esce nei mesi di gennaio, agosto e settembre. È
in vendita per abbonamento postale, in numerose librerie
e presso centri sociali, circoli anarchici, botteghe ecc..
Se ne vuoi una copia/saggio, chiedicela. Siamo alla ricerca
di nuovi diffusori.
Per qualsiasi informazione, compresa la lista completa
dei nostri “prodotti” (volantone antifascista, Letture
di Bakunin, Kropotkin, Malatesta e Proudhon, volantoni
della serie anti-globalizzazione, maglietta “Segno Libero”,
poster di Malatesta 1921, cd+libretto di Fabrizio De André
“ed avevamo gli occhi troppo belli”, dossier “Signora
libertà, signorina anarchia” dedicato a De André, lista
di oltre cento cd, mc, ecc. della ‘Musica per “A”’, ecc.)
contattaci. Se ci fai avere per fax, e-mail o in segreteria
telefonica il tuo indirizzo completo, ti spediamo a casa
tutte le info necessarie per poter ordinare quello che
vuoi.
Una copia di “A” costa e 3,00, l’abbonamento annuo e 30,00,
quello estero e 40,00, l’abbonamento sostenitore da e
100,00 in su. .
Editrice A, cas. post. 17120, I - 20170 Milano
tel. (+ 39) 02 28 96 627,
fax (+ 39) 02 28 00 12 71
e-mail arivista@tin.it
sito web www.anarca-bolo.ch/a-rivista
conto corrente postale 12 55 22 04
conto corrente bancario n. 6.81 presso ag. Milano 11
del Monte dei Paschi di Siena (Abi 01030, Cab 01612)
|
|