rivista anarchica
anno 32 n. 283
estate 2002


politica internazionale

Da Cipro a Pratica di Mare
di Antonio Cardella

 

La vicenda dei 13 palestinesi sparsi per l’Europa e lo strombazzatissimo Patto di Roma tra Nato e Russia sono davvero “eccezionali” per la rilevanza mediatica. Nella sostanza, invece...

Il fenomeno che sto per descrivervi è sotto gli occhi di tutti, ma sembra che nessuno sia in grado di percepirlo compiutamente e decifrarlo correttamente nei suoi aspetti più inquietanti. Parlo di quella sorta di stato di ipnosi in cui versa l’opinione pubblica in virtù del quale ogni messaggio lanciato dal potere, diligentemente ampliato e capillarmente diffuso dai suoi organi di informazione, viene immediatamente e acriticamente metabolizzato e assunto come verità incontrovertibile sulla quale è inutile ogni ulteriore discussione.
Per spiegarmi con un esempio: il termine “terrorismo” è puntualmente evocato ogni qual volta qualcuno – sia esso uno stato, un’organizzazione combattente o anche dei semplici cittadini dissidenti, si mette di traverso sui percorsi che il potere intende seguire. Basti pensare ai ceceni, fatti passare collettivamente come “terroristi” perché si oppongono al regime centrale di Mosca e lottano per la loro identità nazionale. Oppure ai talebani (e allo stesso Bin Laden), appoggiati e finanziati dall’Occidente in chiave antisovietica (e quindi dalla parte dei “buoni”), poi additati come esponenti del Regno del Male quando hanno cambiato schieramento. Potremmo continuare a lungo, ma, in questa sede, il preambolo serve soltanto per introdurre due temi i cui assunti, assolutizzati dal sistema, costituiscono la premessa per interpretare a senso unico e trionfalistico gli avvenimenti.

Le telefonate negate

Il primo di questi temi è la grande prova di maturità politica che sarebbe stata fornita dall’Europa nella vicenda dei tredici palestinesi estradati dalla Chiesa della Natività di Betlemme prima a Cipro e poi distribuiti in alcuni paesi del vecchio continente che, per varie ragioni, non hanno potuto tirarsi indietro. La telenovela non avrebbe potuto avere un inizio più infelice, che, con buona approssimazione, può così ricostruirsi.
Ad un certo momento, da un censimento fatto dai frati della Chiesa della Natività, risultò che gli irriducibili tra gli ospiti del convento erano questi tredici palestinesi che, per ciò, costituivano un impedimento alla soluzione pacifica dell’assedio israeliano. La Santa Sede decide, così, di intervenire presso la Casa Bianca, anzi, direttamente con Bush, il quale, perentorio com’è quando si tratta di imporre le ragioni americane sui paesi satelliti, decide seduta stante che la strada più semplice da percorrere è quella di fornire ai palestinesi incriminati un foglio di via per l’Italia, paese notoriamente accondiscendente e assai sensibile alle sollecitazioni del potente alleato a stelle e a strisce. A questo punto il cardinal Sodano alza la cornetta del telefono e chiama Andreotti, suo interlocutore privilegiato per i rapporti con l’Italia, esponendo il problema e prospettandone la soluzione. Andreotti dice che si può fare e, a sua volta, solleva la cornetta del telefono per chiamare Scajola. Nel frattempo, però, la notizia della destinazione in Italia dei palestinesi trapela e spiazza tutti. Il governo italiano dice di non saperne niente, la Santa Sede nega che vi siano stati contatti con Berlusconi e compagni. L’unica cosa assodata è che, per decisione americana, l’Italia deve dare ospitalità agli esuli involontari.
Sin qui, non mi pare ci siano motivi di particolare soddisfazione per nessuno dei protagonisti della vicenda, anzi si può dire che tutti ci facciano una figura barbina. Ma le cose, per l’immagine di un’Europa coesa, andranno ancora peggio nell’evoluzione dei fatti sin qui narrati.
Per cavarsi d’impaccio ed evitare la figura di chi è succube senza remissioni delle imposizioni americane, Berlusconi interpella gli amici su cui può contare in Europa per ottenere con urgenza la convocazione del consiglio dell’UE, nel tentativo di coinvolgere i Quindici nell’intricata vicenda, sostenendo che ospitare per un tempo limitato un guerrigliero palestinese, per quanto pericoloso, non provocherebbe eccessivo scompiglio per nessuno dei paesi membri, mentre, politicamente, rilancerebbe il ruolo dell’Europa nell’opera di mediazione per la soluzione del conflitto arabo-israeliano.
Il discorso sembrava sensato e, di conseguenza, si decide di aprire subito le trattative per ottenere l’assenso degli altri partners. Ma qui sorgono i problemi veri, quelli che derivano da una visione ottimistica dell’unione europea. Le due nazioni più influenti di tale unione, Francia e Germania, si chiamano subito fuori, accampando pretestuose scadenze elettorali e alla loro indisponibilità si aggiunge quella dell’Inghilterra. Svezia, Danimarca e Norvegia glissano, mentre la Finlandia prima si dichiara disponibile poi fa marcia indietro. Il Belgio, dal canto suo, dice che vuole rifletterci e che deciderà quando sarà stabilito lo statuto degli esuli, cioè quando sarà definito lo stato giuridico che i palestinesi assumeranno durante la loro permanenza nei paesi ospitanti.

Più divisa che mai

L’esito finale di questa vicenda, ritenuta esaltante da quasi tutta la stampa nostrana, è il seguente: dei quindici membri dell’UE, soltanto sei accetteranno di ospitare i palestinesi e precisamente: l’Italia (3), la Spagna (3), la Grecia (2), l’Irlanda (2), il Portogallo (1) e il Belgio (1). La destinazione del tredicesimo, esule, ricoverato in un ospedale di Cipro, sarà decisa in seguito. Gli altri nove stati dell’Unione dichiareranno esplicitamente la loro assoluta indisponibilità a contribuire in qualsiasi misura alla soluzione del problema. Se la cavi come può chi, direttamente o indirettamente, per volontà propria o imposizione d’altri, s’è lasciato coinvolgere
A me pare – ma io non faccio testo – che il dato politico più rilevante che emerge dai fatti narrati sia la ratifica di un’Europa più divisa che mai e, a leggere bene i termini della soluzione adottata, l’istituzionalizzazione di una sorta di gerarchia tra gli stati membri che stabilisce a priori, una volta per tutte, chi conta di più e chi conta di meno, con la consequenziale ripartizione dei compiti secondo una scala di valori che va dallo stato “portatore d’acqua”, al quale si rifileranno tutte le grane con scarsi vantaggi, alle nazioni privilegiate, cui andranno i benefici maggiori dell’Unione.
Se così è, la diplomazia di casa nostra può ben vantarsi di aver trovato per l’Italia di Berlusconi una collocazione adeguata al suo rango, nell’ultimo gradino della scala di cui si parlava.
Si può andar fieri di ciò? Sembra di sì, a giudicare da come i portavoce del governo, lo stesso Berlusconi e la stragrande maggioranza dei media hanno rappresentato agli italiani il succedersi degli avvenimenti.

Dopo la caduta del Muro

L’altra definizione che sembra indiscutibile per la stragrande maggioranza dei commentatori politici italiani è la portata storica del trattato di Pratica di Mare, che sancisce la collaborazione tra la Russia e la NATO. Io ritengo che di storico, in questo avvenimento, ci sia solo l’uso degli strumenti mediatici chiamati ad inventare contenuti ad un evento certamente spettacolare, ma che di contenuti è assai carente.
Vediamo di vederci un po’ più chiaro.
Dopo la caduta del muro di Berlino, il collasso del sistema sovietico, l’implosione del Patto di Varsavia, la NATO si è trovata al limite della cassa integrazione. I nemici per fronteggiare i quali era stata creata erano improvvisamente svaniti e l’orizzonte era popolato di alleati potenziali sui quali era inutile spiegare la potenza militare accumulata. In verità erano in molti a chiedersi a cosa avrebbe potuto servire una struttura militare così imponente in assenza di un analogo fronte avverso, schierato secondo i canoni della più consolidata ma obsoleta strategia militare.
Ma le risposte a questi quesiti erano state tutte interlocutorie, nel senso che alcuni, non sapendo come schierarsi, eludevano il problema in attesa degli eventi (la sinistra italiana era in prima fila in questo schieramento), altri speravano tanto che, prima o poi, un nemico qualsiasi, a buon prezzo, si profilasse all’orizzonte e giustificasse le immense risorse che la NATO assorbiva, con sommo gaudio per l’industria bellica internazionale. I crolli dell’11 settembre e l’immediata invenzione di un terrorismo planetario hanno giuocato in favore dei fautori della sopravvivenza non solo della NATO, ma del rilancio di quel progetto di scudo spaziale che non si capisce chi dovrebbe proteggere e contro chi sarebbe destinato ad elevarsi.
Ma, come è ovvio, immobili non si poteva restare, bisognava in qualche modo mostrare all’opinione pubblica mondiale che un processo di rinnovamento fosse in corso. Ed ecco emergere la possibilità, anzi, l’opportunità di un suo allargamento, intanto ai paesi satelliti dell’ex Unione Sovietica, ma senza alcuna chiusura verso altri pretendenti. Con la Russia risorta dopo la fine della guerra fredda, da anni era invalsa la pratica di consultazioni sistematiche sulle questioni che, in qualche modo, investissero gli assetti geopolitici mondiali, soprattutto per non pregiudicare la prospettiva dei buoni affari che l’occidente si propone di realizzare in un mercato tanto appetibile. L’avere ratificato in uno scenario tanto spettacolare una consuetudine consolidata senza nulla aggiungere di nuovo, anzi, sottolineando esplicitamente, con la negazione del diritto di veto, la diffidenza verso la nuova contraente e la sua collocazione ai margini dell’organizzazione militare, non mi pare possa essere spacciato per grande evento diplomatico. Probabilmente alla Russia sta bene così. Un suo ingresso