rivista anarchica
anno 32 n. 286
dicembre 2002 - gennaio 2003


politica

Il dramma dell’Ulivo
di Antonio Cardella

 

Le molte anime, la tradizione verticistica dei partiti, l’impossibilità di un dialogo: alle radici della crisi del centro-sinistra.

Il dramma del centro-sinistra in Italia, che volge in farsa per l’infima statura degli attori, è un dramma vero, che affonda le sue radici nell’evoluzione del concetto di democrazia, così come si è andato consolidando nell’occidente e come lo configurano oggi, nella maggior parte dei paesi che lo praticano, le norme di attuazione.
Il punto dolente è sempre quello del rapporto tra i vertici di una qualsiasi organizzazione politica e la base che li esprime, problema irrisolto e che emerge storicamente, con sottolineature diverse, ogni qual volta con maggiore rilevanza si evidenziano le frizioni tra gli interessi della collettività e i poteri decisionali ad ogni livello.
Non è un caso, così, che il popolo dell’Ulivo si sia arenato sullo scoglio delle modalità di formulazione ed esecuzione delle risoluzioni da proporre e sostenere unitariamente nelle sedi politiche deputate, discutendo, cioè, se tali risoluzioni debbano essere prese all’unanimità o a maggioranza e, nel secondo caso, come possano essere tutelati i diritti delle minoranze.
Il problema – come sappiamo bene noi anarchici – non è un problema di “forma” della democrazia, ma investe i contenuti stessi della democrazia, solo che Fassino e compagni partono col piede sbagliato, dimenticano, cioè, che la loro storia personale e politica è costellata da eventi determinati da maggioranze, le quali, a giudicare dagli esiti, non mi pare possano ritenersi illuminate.
Qualche giorno fa, in un corsivo pubblicato nelle pagine nobili de “La Repubblica”, Sebastiano Messina sosteneva che abbandonare il principio della maggioranza equivarrebbe a sottomettersi al ricatto della minoranza, il che la dice lunga sul concetto che anche personaggi di un certo spessore culturale hanno della democrazia. Una piccola e tutt’altro che ardua ricognizione sulla storia italiana, quella recente, per non farla troppo lunga, condurrebbe a considerazioni opposte a quelle di Giannini e di tutti coloro che la pensano come lui. Senza ricorrere agli abusati richiami alle vicende del fascismo, legittimato – è bene non dimenticarlo mai – da maggioranze oceaniche, basterebbe restringere il campo sulla sorte che le minoranze hanno subito nelle dinamiche interne ai partiti politici italiani dal secondo dopoguerra ai nostri giorni, per sollevare almeno qualche dubbio sulla bontà del metodo. Con la prassi consolidata di premiare le maggioranze, si sono spesso emarginate le voci più provvedute e illuminate che si levavano nei luoghi deputati (i congressi, le direzioni politiche, le assemblee degli iscritti e via dicendo) per arginare derive che si sarebbero poi rivelate esiziali non soltanto per la vita dei partiti, ma per l’intera società.
L’esempio illuminante – e storico – di tale assunto è costituito dal principio del “centralismo democratico”, che, bene o male, e con variabili irrilevanti, ha costituito in Europa la formula fondamentale di ogni struttura organizzativa di natura politica.

Neanche Togliatti...

Riattualizzato agli inizi del XX secolo da Lenin per mettere ordine nel processo rivoluzionario e arginare le spinte centrifughe che minacciavano di far sfuggire di mano ai sovietici il controllo della situazione, il centralismo democratico, come aveva ben messo in evidenza Rosa Luxemburg sin dal 1904, era, formalmente, una dinamica politica che consentiva alla base, attraverso il sistema delle deleghe, di influire sui comportamenti e sulle decisioni dei vertici, mentre, nella sostanza, subordinava alle prevalenti esigenze di direzione unitaria del partito ogni istanza che proveniva dalla base. Si creò, allora, una monolitica burocrazia di partito, formalmente investita dal basso, ma sostanzialmente verticistica e intoccabile che, come tutti sappiamo, fu all’origine di tutte le distorsioni del sistema sovietico, sino al suo collasso alla fine degli anni Ottanta del secolo appena passato.
In Italia – parlando sempre della sinistra, perché della sinistra ci stiamo occupando – tale principio non fu mai sottoposto a verifica. Neppure Togliatti, alla fine degli anni Cinquanta, allorché teorizzò la possibilità di una “via italiana al socialismo”, fu sfiorato dal dubbio che occorresse instaurare un sistema che responsabilizzasse maggiormente la base e la rendesse partecipe più direttamente della definizione delle linee politiche del PCI. E questa sua indifferenza per una reale circolazione delle idee e per un’utilizzazione concreta delle risorse intellettuali e umane, che pure esistevano, e rilevanti, all’interno del suo partito, portò il PCI ad arroccarsi all’interno della cittadella delle sue direzioni e ad isolarsi sempre di più dalla società civile, che, nel frattempo, si evolveva e non nella direzione preconizzata dai teorici del marxismo
A giudicare dalle ultime vicende interne ai DS, non sembra che la lezione sia servita a molto. A parte le schizofrenie piuttosto patetiche di un Fassino volenteroso ma sostanzialmente privo di carisma, i vertici del partito appaiono come cristallizzati in posizioni che non riflettono il quadro reale della situazione politica attuale, né riescono a dare risposte significative ad un contesto molto più articolato e complesso di come lo immaginano i D’Alema, gli Angius o i Violante. I quali marciano tutti come i soldatini di piombo schierati per ricombattere stolidamente battaglie già combattute nel passato e ingloriosamente perdute.
Sembrano presidiare le roccaforti di un partito che ormai non c’è più, sconfitto dalla incapacità di comprendere che i problemi della modernità non si possono affrontare con i vecchi apparati organizzativi e persino linguistici di un passato che, per quanto prossimo, è ormai lontano da noi anni luce.
Credono ancora che fare politica significhi riunire il direttivo e lasciare fuori della porta le voci di una base, organizzata e non, nei riguardi della quale, peraltro, continuano a manifestare diffidenza e malcelato livore.
Ma la questione travalica i confini della sinistra e finisce per snervare ogni forma di presenza che decide di giocare un ruolo sullo scenario politico, a qualunque livello. La constatazione piuttosto sconfortante è che, sino ad oggi, si è sempre finito per esprimere un vertice, quando non addirittura un personaggio carismatico, con l’esito, scontato, di riprodurre perniciosamente modelli già sperimentati e fallimentari.

Il messaggio anarchico

Noi anarchici non possediamo alcuna bacchetta magica e non abbiamo, quindi, alcuna proposta del tutto esaustiva. Abbiamo però una solida base di partenza, che pretende di riprendere il discorso dalla radice, laddove gli uomini, quelli in carne ed ossa, gli individui, sono chiamati a misurarsi con i problemi concreti della loro esistenza. Problemi che le società a struttura verticistica hanno trasformato da funzionali a politici. Le differenze di condizioni sociali ed economiche, la povertà, le guerre, così come la progressiva distruzione del pianeta che ci ospita sono tutti esiti di strutture politiche sostanziate da logiche di dominio. E le tecniche utilizzate per superare le emergenze che non si possono più ignorare, ubbidiscono anche loro alla fondamentale esigenza di curare i sintomi del male senza evidenziarne le radici vere e profonde.
Le modalità attraverso le quali si condizionano gli individui alle esigenze del potere, sono sempre state quelle di collocare la sfera dei problemi reali al di là e al di sopra della testa del singolo e di proiettare nel futuro la speranza di risolverli. Per fare un solo esempio: il richiamo costante alla globalizzazione e alla sua ineluttabilità serve alla perfezione per giustificare la scomparsa di tutte quelle produzioni artigianali o di piccole imprese che, per definizione, non possono ubbidire alle logiche dei grandi numeri. Il che non solo ha provocato e continua a provocare la perdita di lavoro per milioni di persone, ma ha anche annullato le identità specifiche di comunità e aggregazioni costrette ad accedere alla grande distribuzione e ad abbandonare costumi alimentari e di vita quotidiana che, sino a ieri, ne avevano connotato l’esistenza.
Così l’omologazione ai dettati delle multinazionali di aree economiche immense annichilisce ogni possibilità delle singole comunità di interferire e di opporsi. È facile capire che, attraverso dinamiche di questo genere, si possono veicolare, e, di fatto, si veicolano, imposizioni e politiche di assoggettamento immonde, per non parlare del conseguente rastrellamento, a vantaggio delle oligarchie mondiali, di risorse immense, destinate, a loro volta, ad innescare altre politiche di dominio.
Contemporaneamente all’attuazione di queste pratiche, si utilizzano tutti i mezzi di persuasione, più o meno occulti, per convincere i popoli che i benefici di questi assetti si vedranno nel futuro (saranno debellata la fame, le epidemie e le grandi ingiustizie di questo mondo, che pure ci sono e non si possono negare). Il futuro, insomma, sarà luminoso ed è al futuro che si dovrà guardare con fiducia, trascurando i patimenti del presente.
Bombardato da questi messaggi, l’uomo comune è frastornato. Avverte confusamente che qualcosa non funziona in queste logiche, ma è frustrato dalla manifesta impossibilità di reagire, tanto più grandi di lui appaiono i problemi che sono in discussione. Allora, per tutti coloro che non ritengono ineluttabili questi processi, per quanti sono certi che è ancora possibile lottare perché questo oscuro destino non si realizzi, è da questo annichilimento che occorre ripartire, in prima istanza, per convincere i popoli, le comunità a riappropriarsi dei loro spazi vitali e, soprattutto, del loro presente.

Un mistero per tutti

Bene, io credo che il messaggio anarchico, in questa fase convulsa della storia della società, debba essere proprio quello di ricondurre i problemi alla dimensione dell’uomo e delle sue esigenze individuali, certamente nello spirito di aggregazione solidale con l’intera comunità della quale fa parte. Ecco perché bisogna puntare i riflettori sulle realtà locali, attuando quelle pratiche di intervento che rivoluzionino i criteri di gestione degli aggregati urbani, sottraendoli alle logiche della politica e riconducendoli alla loro reale dimensione di corretta funzionalità.
In questa direzione è, per esempio, possibile intervenire sui consigli di quartiere o di circoscrizione, consentendo, anche col criterio della rotazione, ad un esponente di ogni nucleo familiare di partecipare alla definizione delle esigenze, ed alle conseguenti decisioni, che riguardano il quartiere o la circoscrizione. La pratica, in quest’ambito, di esaltare l’aspetto puramente funzionale dei problemi emergenti, scollegandoli il più possibile da considerazioni di natura politica, e, più ancora, il ricorso al criterio dell’unanimità per la formulazione e la definizione dei problemi da risolvere, potrebbe essere il primo passo per informare, quasi per naturale conseguenza, i consigli comunali, provinciali e regionali, per non spingerci tanto più in là. Sarebbe anche il primo passo per de-istituzionalizzare gli organismi rappresentativi della volontà popolare, vanificandone le spinte ideologiche o di schieramento. Così, allorché il consiglio di quartiere o di circoscrizione fosse chiamato a partecipare alla soluzione di problemi di ambito superiore (comunali, ad esempio), invierebbe al consiglio del comune, appositamente convocato, un suo rappresentante professionalmente preparato sullo specifico problema da trattare, che rappresenterebbe le valutazioni del suo quartiere ai suoi omologhi.
Con la riaffermazione – per chiarezza, esemplificata – di assunti anarchici consolidati, quali la delegittimazione dei principi di delega indefinita e di rappresentanza a scadenze temporali, torniamo ora, brevemente, al discorso iniziale sull’Ulivo e sui DS.
Nel caso specifico, la querelle sull’adozione o meno del principio di maggioranza mi sembra puro vaniloquio. Direbbe Malatesta che essi, quelli che discutono di queste cose – sono già “il governo della maggioranza degli eletti dalla maggioranza degli elettori”: cioè, la minoranza di una minoranza degli apparati, per di più, per quel che riguarda i DS, con una base in rivolta. Ma il problema, come tutti sanno, è che questa aggregazione di partiti ha anime talmente diverse che fanno fatica ad intendersi persino sulla terminologia. Il riformismo di Rutelli e Boselli è, infatti, cosa assai diversa dal riformismo di Mussi e di Salvi, per non parlare di quelli vagheggiati da Rizzo o da Bertinotti. Come possano sintetizzarsi tendenze così lontane a colpi di maggioranze, resta un mistero per tutti.

Antonio Cardella