rivista anarchica
anno 33 n. 287
febbraio 2003


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

L’urlo e il furore
di Jacques Brel


(quest’articolo mi piace dedicarlo alla memoria di Herbert Pagani e Duilio Del Prete, i primi che si diedero da fare per esportare in italiano l’arte del Grand Jacques)

L’ora dello spettacolo si avvicina e monta rapidamente quel vortice di panico e mal di stomaco che accompagnò tutta la carriera di cantante di Jacques Brel.
Dai primi e frustranti tentativi di fronte all’indisciplinato e irrispettoso pubblico dei cabaret, fino alla folla adorante dell’Olympia, che ancora lo acclamava per ore dopo l’uscita di scena, Brel affrontò ogni esibizione come un toro affronta la corrida: una febbre... una tensione oscura che lo faceva vomitare ogni volta che doveva apparire in pubblico, e se in un giorno aveva tre concerti quel giorno vomitava tre volte.
Vedere ancor oggi, in una qualche ripresa televisiva, Brel esplodere nello spasmo di ogni canzone, vivere, quindici volte in una sera, quindici vite diverse, morire quindici diverse morti, bruciare di quindici diversi amori, urlare di quindicimila rivolte... ancor oggi è un’esperienza incredibile... difficile immaginare cosa dovesse essere per il pubblico messo di fronte a questa sublime voce, calda e tesa, venata di asprezza, ma perfetta al di sopra del canto, dell’intonazione... perfino al di sopra dell’interpretazione, della dizione (comunque perfetta)... al di sopra perfino della stessa vita: un concentrato, piuttosto, della vita, in tre minuti, verrebbe da dire.
Non poteva durare, e, in effetti, non durò a lungo.

La febbricitante vita
di un genio

«... C’est, peut etre, Grand Jacques»

Jacques Brel nacque nel 1929 in una famiglia dell’alta borghesia fiamminga inurbatasi a Bruxelles e santamente devota alla causa dell’arricchimento, della promozione sociale, del culto dell’ipocrisia e della forma, tanto da dimenticare la lingua materna e da non parlare in casa che il francese, la lingua della nobiltà belga.
Jacques, morbosamente attaccato alla madre, figura malaticcia, venuta a mancare anzitempo e succube del marito, un padre-padrone insensibile ad altre ambizioni che non riguardassero potere e denaro, fu subito e per sempre un ribelle, un inquieto.
Abbandonò presto gli studi, s’impegnò in associazioni di ispirazione cristiana, nel cui pauperismo gli parve di intravedere la stessa sua esigenza di radicale rivolta contro la società del tronfio e volgare benessere da cui proveniva, ovviamente si sarebbe ricreduto diventando anzi un fustigatore dell’untuosità cattolica della sua gente («nazisti durante le guerre/e cattolici in mezzo/non fate che correre/dal fucile al messale»); prestissimo conobbe la passione amorosa e si sposò mettendo al mondo nel giro di qualche anno tre figlie; giocoforza arrivò l’impiego nell’officina paterna, sopportato lo spazio di pochi mesi e terminato nello scandalo familiare di quando il figlio del padrone venne scoperto dai suoi operai cantare in sordide taverne «i sentieri che portano all’officina/li vorrei bruciare».
E allora via... per la sua prima grande fuga: a Parigi da solo a cercare fortuna, saltando i pasti, elemosinando serate, raccogliendo a volte l’ironia di colleghi, quali Georges Brassens (che in seguito sarebbe diventato suo grande amico e ammiratore) che, a cagione delle sue prime liriche intrise di fervore ottimistico, lo chiamava «frate Brel»...
E poi pian piano il successo, via via sempre più enorme, mondiale, una delle star più acclamate del suo tempo... e lui in fuga da un teatro all’altro, urlando sempre più forte contro ogni conformismo, contro ogni morte: un’eterna lotta fra l’adolescente che difende coi denti il proprio diritto al sogno e l’adulto che mira al genocidio della speranza, per mettersi ai piedi le pantofole d’acciaio, e farsi trovare morto già un bel pezzo prima che la morte bussi alla sua porta, poiché questa è la cura che assumiamo contro la paura della fine: evitare di vivere.
Più i borghesi affollavano i teatri in cui Jacques cantava, più violenta diventava la sua rivolta contro i militari (la colombe, au suivant, les singes), i conformisti (ces gens la, les buorgeois, l’age idiot), i preti e dio stesso (le dernier repas, les dames patronesses, les Bigottes)... alla fine contro il suo stesso ruolo di cantante (la, la, la..., le cheval)... Costretto con le spalle al muro in un personaggio invece che in una persona, Brel, all’apice della carriera, nel fulgore dei suoi trentasei anni, al vertice di una maturità artistica e interpretativa mai eguagliata, mollò tutto, ancora una volta in fuga verso territori mai percorsi.
Aveva però in quegli anni tracciato il percorso di una cinquantina di canzoni di una bellezza musicale e lirica stupenda, canzoni d’amore devastanti (Ne me quitte pas, Mathilde, La chanson des vieux amants), epiche battaglie fra la vita e la morte, l’innocenza e la grettezza, l’idealismo e l’ipocrisia (J’arrive, Mon enfance, Regarde bien petit), aveva meravigliosamente celebrato il suo paese, fustigandone al contempo gli abitanti (Le plat pays, Marieke, Les flamandes).
Al culmine, forse, di tutta la sua produzione troviamo una canzone insieme eroica e lirica, una celebrazione dell’esistenza tragica e titanica dei marinai del porto di «Amsterdam», un inno straziante e incontenibile.
Jacques Brel girò in seguito qualche film, buono o meno buono, mise in piedi una commedia musicale su Don Chisciotte, di cui ci resta un bellissimo disco di canzoni di scena... poi un cancro devastante lo braccò per i cinque anni in cui si dedicò alle sue passioni: il volo e la vela. Attraversò il mondo intero e alla fine fece tappa alle isole Marchesi, dove viveva trasportando medicine a beneficio di quegli indigeni che lo rassicuravano «parlando della morte/come si parla d’un frutto»...
Rientrando di tanto in tanto a Parigi per le cure, tornò con noncuranza in studio di registrazione e licenziò, poche settimane prima di morire nel 1978 (e non ci si crede a come canta questo quarantottenne con un solo polmone!), un disco sublime, che di sole prenotazioni vendette, a scatola chiusa, due milioni di copie: è difficile scordare la memoria del fuoco.
Oggi Jacques Brel è seppellito a Thaiti, a tre passi dalla tomba di Gaugin, e noi siamo qui...

L’arte di Brel ovvero
la feroce unità

Contrariamente ai suoi giganteschi colleghi, Georges Brassens e Léo Ferré, che seppero trasportare la canzone oltre le colonne d’Ercole d’ogni tradizione per dargli valore letterario e musicale altissimo e inedito, Jacques Brel sta nella forma «canzone» come un topo nel formaggio, senza nemmeno sognarsi di spingere le sue ambizioni al di fuori della struttura; la sua arte ineguagliabile risiede piuttosto in una feroce unità.
Jacques Brel sembra comporre la canzone nel momento stesso in cui la canta: l’uso delle forme quali il crescendo costante, l’inestricabile coesione fra forma e contenuto, di modo che (come notava mirabilmente Guido Armellini), quando parla dei vecchi assume un metro lento e monocorde, quando canta dei timidi il verso si fa nevrotico e singhiozzante, riesce a dribblare ogni rischio di didascalismo, proprio per l’ineffabile interpretazione, talmente calata nel momento, da non potersi più distinguere dalla scrittura stessa.
Veramente in Brel non è distanziabile in nessuna maniera il verso, la nota, la voce, il canto e il gesto... tutto perfettamente a tempo, anzi il tempo stesso s’arresta con un inchino davanti a una simile eruzione di vitalità.
Georges Brassens guarda al microscopio la lingua, con tutta la sua musicalità, e swinga la filastrocca impagabile della sua poesia distanziata e ironica, l’interiore essenziale rispetto dei valori umani lo rende emozionato e sensibile; Léo Ferré viene invece da una profondità ultramarina, stellare, la sua tenerezza è violenta, quasi insopportabile, la sua rabbia è divina, si misura coi grandi: inveisce come Beethoven, come Rimbaud, affianco a Baudelaire e la sua voce è la voce dell’altrove.
Brel è ora e subito, mangia e vomita i sentimenti, è un nodo febbrile che non può esser rimandato, la forma chiusa gli è congeniale perché non può perdere tempo ad attardarsi nella riflessione sugli utensili, ha altre priorità: deve respirare e urlare, bruciare e fuggire, e se è costretto, per un’ora scarsa, sotto i riflettori eccolo esplodere incontenibile fra musica e parole. È l’inestricabile presenza della vita, la permanenza del fiume.
La cascata è oggi perduta, ma resta il suo tuono, la sua forza, la sua freschezza, il suono: ascoltatelo, può cambiarvi la vita!

Alessio Lega
amoreanarchia@tiscalinet.it

I borghesi

Col cuore al calduccio e gli occhi nella birra
all’osteria «Adriana» di Montalant
con l’amico Giò-Giò e l’amico Piero
ci bevevamo i nostri vent’anni.

Giò-Giò si credeva Voltaire e Piero Casanova
e io... io che ero il più fiero... io... mi credevo me!
E quando a mezzanotte passavano i notai
che uscivano dall’Hotel dei tre Fagiani

gli mostravamo il culo, educatamente
e cantavamo:

I borghesi sono come i porci
più invecchiano più rimbecilliscono
I borghesi sono come i porci
più invecchiano più sono (coglioni)...

Col cuore al calduccio e gli occhi nella birra
all’osteria «Adriana» di Montalant
con l’amico Giò-Giò e l’amico Piero
bruciavamo i nostri vent’anni.

Voltaire ballava come un vicario, Casanova non osava...
e io... io che ero il più fiero... io...
ero sbronzo quasi come me stesso!
E quando a mezzanotte passavano i notai
che uscivano dall’Hotel dei tre Fagiani

gli mostravamo il culo, educatamente
e cantavamo:

I borghesi sono come i porci
più invecchiano più rimbecilliscono
I borghesi sono come i porci
più invecchiano più sono (coglioni)...

Col cuore a riposo, gli occhi piantati a terra
al bar dell’Hotel dei tre Fagiani
col signor Giò-Giò e col signor Piero
fra notai ammazziamo il tempo.

Giò-Giò parla di Voltaire e Piero di Casanova
e io... io che sono restato il più fiero... io... parlo di me!
E quando a mezzanotte usciamo, signor commissario,
dalle parti dell’osteria «Adriana» di Montalant

tutte le sere dei mocciosi ci mostrano il culo
cantando:


«I borghesi sono come i porci»
(dicono, signor commissario)
«più invecchiano più rimbecilliscono
I borghesi sono come i porci
più invecchiano e più...»

L’ultima cena

Alla mia ultima cena
voglio rivedere i miei gatti
i miei cani e la riva de mare.
Alla mia ultima cena
voglio vedere i vicini
e qualche sconosciuto faccia le veci dei cugini.
E voglio che si beva un vino da messa
un vino stupendo, che si beva in Arbois
E voglio che si divori, dopo qualche sottana
la fagiana venuta dal Perigord.
Poi mi si porti sulla collina
a guardare gli alberi addormentati a braccia conserte.
E allora lancerò pietre contro il cielo
gridando «Dio è morto» per l’ultima volta.

Alla mia ultima cena
voglio rivedere il mio asino, i miei polli,
le mie oche, le mie vacche, le mie donne.
Alla mia ultima cena
voglio vedere quelle simpaticone
di cui fui maestro e re, che furono mie amanti.
Quando avrò nella panza di che annegare la terra
romperò il bicchiere per fare silenzio
e canterò urlando alla morte che avanza
le canzonacce sporche che inquietano le suore.
Poi mi si porti sulla collina
a guardare la sera che scende lenta in pianura.
E là, ancora in piedi, insulterò i borghesi
senza rimpianti o rimorsi, per l’ultima volta.

Dopo la mia ultima cena
se ne vadano tutti a finire bisboccia
sotto un altro tetto.
Dopo la mia ultima cena
mettetemi seduto, solo come un re,
che accolga le vestali.
Nella pipa fumerò i ricordi d’infanzia
i sogni irrealizzati, i resti di speranza.
Non conserverò, per rivestire l’anima,
che l’idea d’un roseto, che il nome d’una donna.
Poi guarderò la cima della collina
che danza, si dimena, finendo per soccombere
e nell’odore di fiori che presto si sentirà
io so che avrò paura... un’ultima volta.