rivista anarchica
anno 33 n. 288
marzo 2003


cinema

Guardando Potestad
di Fernanda Hrelia

L’Argentina dell’identità negata e della mostruosità del normale nell’ultimo film di Luis César D’Angiolillo.

“Potestà: diritto o potere che si esercita su una persona o su una cosa.”

È sabato pomeriggio quando un uomo di mezz’età prende la metropolitana a Buenos Aires.
Così inizia il film “Potestad” (“Potestà”) di Luis César D’Angiolillo, proponendo una situazione apparentemente reale e quotidiana. Ma immediatamente il racconto si spezza, frantumandosi e creando un ritmo sempre più allucinato e angosciante. Chi è quest’uomo lacerato, in preda a un dolore che non si riesce a calmare, in fuga e senza pace? Si chiama Eduardo, è un medico; ha perso la voglia di vivere, la salute mentale, l’amore di sua moglie. Il dolore per la perdita della figlia li ha allontanati e divisi per sempre. Senza riferimenti, vaga allo sbando, in una realtà che gli diviene estranea, confondendo in una sequenza di ricordi ormai solo dolorosi il passato e il presente.
Nonostante queste premesse, non si tratta della rappresentazione di una crisi esistenziale.
La sceneggiatura di questo film, firmata dallo stesso D’Angiolillo insieme a Ariel Roli Sienra, ha ottenuto il Primo Premio come “Miglior Adattamento Cinematografico di un’Opera Letteraria” dall’Instituto Nacional de Cine y Artes Audiovisuales Argentino, ed è proprio grazie a questo premio che gli autori hanno potuto poi realizzare il lungometraggio. L’opera letteraria che è alla base del film è l’omonimo monologo drammatico di Eduardo Pavlovsky (1) ed è lo stesso Pavlovsky il protagonista di questa versione cinematografica.
Pur riferendosi all’opera teatrale, il film è naturalmente un’altra cosa; ha il merito di saper svolgere scene e situazioni solo evocate nel testo originale evitando tentazioni didascaliche, e rafforzando anzi l’aspetto sperimentale del monologo con una ricerca espressiva altrettanto rigorosa.
L’idea della sceneggiatura – presentare la storia di un uomo in una sequenza di schegge, dalla cui ricomposizione emerge poi una realtà orrenda – parte da una riflessione del personaggio, espressa in un paio di passaggi del monologo, in cui insiste col dire che la vita, pensata nel suo complesso, potrà anche dare l’impressione di essere omogenea, ma se ci si ferma poi ad analizzare ogni singolo momento, ogni gesto, sfugge qualsiasi linearità o consequenzialità logica. Questa ossessione per il particolare esaspera la tendenza a concentrarsi solo su se stesso, sulle proprie delusioni, sui propri dispiaceri.
D’Angiolillo spiega che le emozioni vissute nell’assistere alla rappresentazione teatrale di “Potestad” gli hanno indicato che in quel monologo allucinato poteva nascondersi un film.
Ed ecco così che il medico Eduardo ci porta attraverso le immagini nella sua dimensione alterata; lo si segue anche con simpatia, con compassione, oltre che con un senso di vertigine. Ma poi, come nell’opera teatrale, si è costretti ad assistere alla rappresentazione di un dolore personale, che non si può considerare legittimo.
Durante l’ultima dittatura militare Eduardo ha collaborato in qualità di medico con gli agenti della repressione. È proprio durante una delle loro “operazioni” – uccidere nel sonno una giovane coppia – che Eduardo trova nella casa la figlioletta neonata dei due e se ne impossessa. È la figlia che lui e sua moglie hanno tanto aspettato ma non sono riusciti ad avere. È il “destino” che ha voluto che lei fosse là, per lui, per ricevere tutto l’amore che negli anni è cresciuto nella coppia sterile. Non ha il minimo dubbio: quella bambina gli appartiene. Quando, dieci anni più tardi, dopo la ricerca della sua vera identità, gliela portano via, la perdita è inaccettabile ed è vissuta come una tremenda ingiustizia.
Un po’ diverso, nella forma e nell’impostazione (qui protagoniste non sono le vittime) dai film di denuncia e sulla memoria che sono stati realizzati negli ultimi anni su queste tematiche (“Garage Olimpo” e “Hijos” entrambi di Marco Bechis), “Potestad”, prodotto interamente argentino, girato nel 2002, propone scenari umani desolanti ma offre anche lo spunto per una riflessione sulla situazione attuale del paese. Nel tunnel metaforico della metropolitana, da cui non si riesce a intravedere la luce, leggiamo anche, senza retorica, il tentativo di spiegare qualche vicenda presente. Alla fine, il film obbliga a chiedersi se nei processi storici e politici che si sono susseguiti in epoca recente, la società argentina abbia avuto un ruolo consapevole. “Ormai abbiamo capito chi è il protagonista di questa storia” – sintetizza il regista – “Ora dobbiamo chiederci chi siamo noi.”
E qui, dall’altra parte del mondo, noi possiamo almeno augurarci che questo film, profondo e intenso, ma lontano da meccanismi di normale produzione e distribuzione, possa esser visto e apprezzato da un pubblico il più vasto possibile.

Fernanda Hrelia

note:
1. Il monologo nella sua versione italiana (“Patria potestà”) è stato pubblicato in Sipario n° 612, giugno 2000 (trad. di F. Hrelia).

Attori

Eduardo Pavlovsky, autore del testo teatrale da cui è stato tratto il film, nonché attore protagonista nella pellicola, è una delle più originali e riconosciute figure del panorama culturale argentino. Medico psicoanalista, opinionista, drammaturgo e straordinario interprete, ha partecipato in qualità di attore a diversi film, oltre ad essere stato il protagonista di tutti i suoi testi teatrali. In ambito cinematografico ricorderemo tra i suoi ultimi impegni, la partecipazione come protagonista al film “La nube” di Fernando Solanas. Parte della sceneggiatura di questo film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1998, è ispirata alla sua opera teatrale “Rojos globos rojos”.
Il monologo “Potestad”, del 1985, è stato interpretato dallo stesso Pavlovsky in uno spettacolo presente in rassegne e festival teatrali in diversi paesi d’Europa e d’America. In Francia è stato interpretato nel 1992 da Jean Louis Trintignant al Festival Teatrale di Avignone.

Luis César D’Angiolillo debutta nella regia cinematografica nel 1993 dopo una lunga e prestigiosa carriera di montatore, che lo vede collaboratore dei più importanti autori del cinema argentino. Col suo primo lungometraggio, “Matar al abuelito”, vince alla IX edizione del Festival del Cinema Latino Americano di Trieste nel 1994; con “Potestad” ottiene il “Premio Speciale della giuria” nello stesso festival, nell’ultima edizione dell’ottobre scorso. Il film è stato successivamente presentato al Festival des Films du Monde di Montreal prima del debutto a Buenos Aires. In Italia sono previste alcune proiezioni a cura dell’Associazione per la Promozione della Cultura Latino Americana (Apclai) a Torino, Milano e Roma.